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«Avresti potuto fare di più.»

«Non ho potuto.»

«Avresti potuto fare di più, cazzo!» grida Cristian, guardando fuori dal finestrino per nascondere le lacrime, arrivate senza che nessuno le chiamasse, prima di abbassare la voce di un paio di centinaia di toni. «Avresti potuto fare di più, Bruno, molto di più.»

Avrebbe potuto? Sì. Bruno immagina di sì. È stato lento. È stato volontariamente lento, ma desiderava solo fargli prendere uno spavento, la sua piccola personale vendetta per l’inganno perpetrato da lui e da Raquel; una vita fa... probabilmente un’altra bugia. Chissà se l’altra sera – o l’altra o l’altra ancora – l’hanno fatto di nuovo alle sue spalle. A fargli male non sono le conseguenze per Cristian – il labbro spaccato, il naso gonfio, l’occhio che si rimpicciolisce, pulsando come un piccolo cuore in una testa di spillo – ma che, prima lui e poi Raquel, e poi tutto il quartiere e poi il resto del mondo, sospettino che lui è stato un vigliacco. No, non lo è stato. È stato un figlio di puttana, è stato intelligente, è stato sottile, ma non vigliacco, quello no.

«Se non fosse stato per me non ne saresti uscito vivo, cognatino.»

«Ah, è stato per questo?»

«Che cosa?»

«Lo sai benissimo, brutta testa di cazzo. La tua merdosa, idiota gelosia! Mi hai lasciato lì, a farmi massacrare! Sicuramente avevi visto che stavano arrivando! Dovevi solo farmi un segnale con le luci. Solo questo.»

«Non ho potuto. Il piccoletto era stato con me fino a un attimo prima e ho dovuto allontanarmi.»

«Ma vaffanculo... Hai un fazzoletto?»

Un fazzoletto no, ma ha un pezzo di stoffa che forse era stato una camicia o una bandiera bianca di resa, anche se sporca di grasso e polvere, e che serve a Cristian per non continuare a macchiarsi di sangue. Bruno pensa una battutaccia, ma tace. È vero che aveva dovuto abbandonare il posto di vigilanza. È anche vero che non aveva previsto di farla pagare così presto a Cristian. Ma, date le circostanze, l’occasione è capitata quando ancora gli ribolliva il sangue per quella storia tra i due. Cristian, per disattenzione e per quella sua incapacità di ricordare le cose nel modo giusto, credeva che Bruno sapesse già tutto.

In macchina, una volta sceso Cristian, Bruno si era tolto la cintura di sicurezza e aveva cercato una fottutissima emittente che gli piacesse, ma alla fine aveva rinunciato. Sparsi all’interno dell’auto c’erano i cd di musica da viaggio, una custodia di Extremoduro e un’altra dei Velvet Candles, entrambe vuote. Radio Marca era una buona soluzione, anche se in precedenza l’aveva scartata sperando in qualcosa di meglio che non aveva trovato.

Era impegnato in quella ricerca quando aveva visto uscire, non capendo bene da dove, quel tipo massiccio a forma di trapezio, un sudamericano con un completo da mafioso ereditato da suo padre rinoceronte. La distanza che lo separava da lui era sufficiente a mettere in moto la macchina e andarsene. In quel momento avrebbe potuto lanciare i segnali con i fari come avevano concordato. Raggiungere immediatamente Cristian, farlo salire e lasciar perdere quell’operazione. Invece non aveva fatto niente di tutto questo. Ci aveva pensato un attimo e aveva preso la sua decisione: se lui fosse riuscito a togliersi di torno quel soggetto, allora il suo complice si sarebbe insospettito e sarebbe andato in cerca di eventuali altri intrusi. Non gli sarebbe stato difficile scovare Cristian e poi... Non poteva avventurarsi oltre. Aveva deciso di fargli prendere uno spavento, e poco importava che si beccasse un po’ di cazzotti. Avrebbe trovato il modo di andare a riprenderlo una volta che avessero finito di accanirsi su di lui. Era possibile che ci fossero altri vigilantes ma, una volta persa l’occasione di allontanarsi, non gli restava che improvvisare, salvare il proprio culo e poco altro. In definitiva, doveva solo usare la sua migliore faccia di bronzo, aspettare che arrivassero le carte e vedere come poteva giocarle.

L’individuo aveva un colorito giallastro, gli occhi piccoli e neri e un baffo che spioveva fino agli angoli della bocca. Bruno, che da bambino aveva passato molte serate a inseguire pervertiti nei parchi, si era slacciato i pantaloni e aveva tirato giù le mutande. Il completo da passeggio si era mostrato quasi sorpreso quando era arrivato all’altezza dell’auto, e aveva aperto la portiera con violenza. La custodia dei Velvet Candles era caduta a terra, destinata a diventare, in futuro, un enigma archeologico.

«Che ci fai qui, passerotto?»

«Niente, niente» aveva risposto Bruno confuso, mentre fingeva di abbottonarsi in modo sbadato i pantaloni. «Me ne stavo andando. Non mi sento bene. Ho mangiato troppo e...»

«Te lo stavi menando mentre guardavi le coppiette, vero? Ma dove sono le coppiette? Io non vedo coppiette da queste parti, brutto frocio, figlio di puttana...»

«No, no, io non...»

Aveva abboccato. La prima parte del piano improvvisato da Bruno era andata a buon fine. La seconda parte consisteva nel liberarsene, ma non sapeva bene come.

«Quindi è così che te lo fai diventare duro? Pensa quanto sei stronzo!» Il sudamericano si era guardato intorno per vedere se c’erano auto parcheggiate con qualche coppietta che si dava da fare. Non ne aveva vista neanche una. «Lo vedi che non c’è nessuno, idiota?»

«Vengono poi, più tardi vengono» aveva farfugliato Bruno, recitando la sua parte, ma dispiaciuto per non avere a portata di mano la pistola. Una cosa era risolvere la questione e un’altra beccarsi un bel po’ di cazzotti.

«Lo sai, non so se crederti o no, amore.»

A quel punto aveva pensato di interrompere di colpo quella recita e diventare aggressivo, ma la partita si presentava male. Quel bestione manteneva la portiera bloccata con il braccio, e da quella posizione Bruno non sarebbe riuscito nemmeno a dargli un calcio. Lui stava seduto, e il suo naso era troppo vicino alle manacce del sudamericano.

«Guarda, io ti lascio andare. Ma prima mi devi convincere. Tiralo fuori.»

«Cosa? No, no, io non...»

«Non mi fare arrabbiare. Tira fuori l’uccello e fatti una... come la chiamate qui? Una sega. Ecco, sì, avanti.»

Bruno si era pentito, una per una, di tutte le decisioni che aveva preso quel pomeriggio. Avrebbe dovuto allontanarsi. Era ovvio. Ma quella certezza non gli portava alcun beneficio. Gli avrebbe retto il gioco. Magari si sarebbe stancato subito, se ne sarebbe andato; così lui avrebbe messo in moto la macchina e l’avrebbe investito mentre l’altro gli dava le spalle. Ma, per il momento, era lì, come un gatto che si leccava i baffi.

Bruno infilò la mano nelle mutande e tirò fuori l’uccello, lasciandolo in bella vista.

«Avanti, sbrigati, non posso stare qui tutto il giorno.»

Bruno aveva cominciato a menarselo. A tratti la furia lo accecava. Aveva la mente offuscata. Che diavolo poteva fare? Niente. Nel frattempo non gli veniva duro, e il sudamericano gli aveva dato un colpo in testa con il palmo della mano.

«Che succede? Che ti succede, eh? Vuoi che ti aiuti, brutto frocio? È questo che vuoi?»

Bruno stava per rispondergli quando un urlo aveva attirato l’attenzione del suo interlocutore, il quale aveva riconosciuto subito la voce e perso ogni interesse nei confronti di Bruno e della sua più che improbabile eiaculazione. «Vattene via, sparisci, stronzo. Non voglio vederti mai più» aveva detto, allontanandosi in direzione delle grida. Non era una richiesta di aiuto. Era l’avviso di qualcuno che ha trovato quello che andava cercando e che vuole condividere la novità. Quel qualcosa poteva essere, per esempio, uno sconosciuto nascosto tra gli arbusti che annotava i numeri di targa. Bruno aveva compreso cosa significasse tutto quello. L’uomo con il completo largo si era perso lungo un vialetto e, dopo dieci, dodici passi, aveva svoltato a destra. Anche Bruno aveva creduto di scorgere una testa, e poi un’altra, forse quella di Cristian. Aveva messo in marcia l’auto, si era diretto verso di loro e... chiaro, aveva pensato di prendere la pistola e tirare Cristian fuori dai guai. Un paio d’ore prima avrebbe fatto esattamente questo. Ma in quel momento no. Aveva pensato perfino di abbandonarlo, ma poi si era detto che non doveva lasciarsi accecare fino a quel punto. Una lezione, una bella scarica di cazzotti sarebbe bastata. Era arrivato in uno spiazzo. Fango, pozzanghere qua e là. Ancora la pioggia. Aveva fatto inversione, gli pneumatici giravano nell’acqua sporca, infangando la parte inferiore della BMW. Lì davanti c’erano quei figli di puttana che stavano gonfiando Cristian come una zampogna. Aveva aspettato ancora qualche istante. Niente. Meno di niente. Quanto bastava perché gonfiassero la faccia di Cristian. Aveva sperato che abbandonassero i cespugli e arrivassero sul vialetto. Lì gli sarebbe risultato più comodo aggredirlo, e la scenografia – le pozzanghere, il corpo nitido in un contesto libero, dove i calci e i pugni arrivavano a bersaglio con precisione – era più adeguata e cinematografica in quel momento, in cui, più che piovere, diluviava.

In effetti, la sagoma barcollante di Cristian non era tardata ad arrivare sul vialetto. Dietro, il sudamericano e un ragazzo con una tuta del corpo dei paracadutisti, capelli a spazzola, faccia sanguigna, madre vedova e disperata. Non sembravano avere armi da fuoco. Il giovane aveva solo un tirapugni e l’altro una sbarra di ferro. Bruno aveva tirato fuori dal portaoggetti la pistola e l’aveva appoggiata sulle gambe, non senza prima togliere la sicura. I colpi si abbattevano su Cristian. Senza sapere bene se aveva bisogno di una colonna sonora, aveva alzato il volume di Radio Marca che trasmetteva musica prima del successivo notiziario. Bruno, fanatico delle scommesse e del gioco, aveva deciso che sarebbe intervenuto solo quando fosse finita la canzone. Per fortuna di Cristian, il brano si era interrotto di colpo: novità da Valdebebas.

L’auto si era mossa senza luci, lenta, a ritmo di Valium sotto i monsoni. I due stronzi erano fradici. Quando avevano notato la presenza della macchina, Bruno li teneva già sotto tiro con la pistola.

«Ragazzi, perché non lo lasciate? Ehi tu,» mai fare nomi quando si lavora «sali in macchina.»

Cristian, che era raggomitolato a terra, si era mosso trascinandosi davanti all’auto, ed era arrivato fino al sedile del passeggero lasciando cadere di schianto il suo corpo martoriato.

«Sappiamo chi siete. Vi verremo a cercare» aveva minacciato l’eroe dell’esercito spagnolo.

«Tu non vai proprio da nessuna parte, imbecille. Ci avevano detto che eravate russi, ma vedo che siete proprio messi male. Un Machu Picchu nano e una recluta suonata. Ragazzo, reggimi un momento il volante.»

Cristian aveva spremuto le ultime forze dalla rabbia che gli bruciava dentro. Aveva sperato che li ammazzasse, che li facesse fuori una volta per tutte. L’auto era scivolata via guidata unicamente dai piedi di Bruno, che puntava la pistola contro i due tipi fradici e un po’ impauriti.

«Ti abbiamo preso la targa. Cazzi tuoi, perché lavoriamo per i russi.»

«Andate affanculo voi e i russi, pezzi di merda. Guardatevi, per favore, guardatevi, figli di puttana. Che schifo di razza. Pensa un po’ che viaggio inutile ha fatto Cristoforo Colombo... Addio, amici. Andate a prenderlo nel culo!»

Bruno puntava alla testa del sudamericano perché voleva farlo soffrire. Non l’avrebbe ucciso. Ovvio. Non ha mai ammazzato nessuno e quando lo farà vuole che non sia per una stupidaggine del genere. Aveva visto muoversi il ragazzo con la sbarra di ferro in mano. Bruno gli aveva puntato l’arma per frenarlo. Poi, ormai senza tempo di reazione, aveva mirato a una delle gambe del sudamericano. Aveva sparato e gliel’aveva perforata. Se proprio doveva sparare, meglio che fosse a uno straniero. Poi aveva rimesso la sicura all’arma, l’aveva passata a Cristian e aveva accelerato riprendendo il controllo del volante.

«Stai bene?»

«Cazzo, cazzo, cazzo!»

Pochi minuti dopo, eccoli che stanno arrivando in città. Bruno sa che per prima cosa dovrà vendere la BMW. Domani passerà da Barnauto con Pep, che figura come proprietario della concessionaria, e cambierà veicolo. Ma ci sono altre decisioni da prendere. È attento ai segnali. E il fatto che la giornata sia iniziata con il suicidio di Javier dei Misteri e sia proseguita con il disastro appena accaduto, lo spinge a ritenere che sia il momento di fare delle scelte.

«Abbiamo avuto fortuna.»

«Certo, soprattutto io...»

«È andata bene perché non erano armati. Ma è un avviso. Dobbiamo fermarci.»

«Fermarci?»

«Sì, abbiamo i nostri piccioncini, le nostre coppiette da spennare. Lasciamo il gioco per qualche mese. Forse nelle ultime settimane ci siamo spinti troppo in là, e sarà meglio dimenticarci delle zone fuori Barcellona. O andiamo molto lontano, oppure niente.»

«E cosa facciamo?»

«Viviamo. E ce ne stiamo tranquilli. Come gli orsi.»

«Che cazzo fanno gli orsi?»

«Dormono per mesi.»

«Non dire stronzate, Bruno.»

«Da ragazzino non l’hai mai visto l’orso Yoghi?»

«No.»

«Molto male. Scommetto che a quell’epoca già rubavi le auto...»

«Sì, bravo. Ma tu hai la grana. Io invece...»

«L’avresti anche tu se non te la sniffassi e te la bevessi...»

«Non è vero. Ti ricordo che dei tre io sono quello che prende la percentuale minore. Eppure rischio tanto quanto te.»

«Non è vero. Tu e Raquel...»

«Raquel prende la parte sua più i soldi che le dai tu...»

«Se vuoi posso darti la stessa percentuale sua, però devi scopare con me.»

«No, grazie. Piuttosto, Yoghi, guarda che si vede quel tuo ridicolo uccello: stai andando in giro con la patta aperta.»