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Sta succedendo tutto troppo in fretta. Non può andare bene. Intanto Max ha deciso il luogo del delitto: il parcheggio sotto casa di Merche. Ogni sera, poco dopo le otto, Gero arriva con il suo furgoncino e parcheggia al terzo piano interrato, posto centocinquantotto. Al parcheggio si può accedere dalla porta metallica e laterale che dà sulla strada e che pare sia sempre aperta, oppure con l’ascensore, direttamente dagli appartamenti. Ci sono altre auto parcheggiate. Non molte. La crisi ha spinto un sacco di persone a lasciare la macchina in strada e non muoverla per giorni interi. Max lo ha seguito, la prima volta martedì, dopo avere incontrato Cristian, poi ha ripetuto l’operazione giovedì. Preciso come un orologio. Il mercoledì non ha potuto, perché gli toccava stare con i figli. Le bambine avevano insistito ancora per conoscere la sua fidanzata, e lui aveva detto che era solo questione di tempo, che avrebbero avuto giorni e giorni per conoscerla e affezionarsi a lei. Erano andati al cinema. Un film di Ben Stiller che non gli era piaciuto neanche un po’, perché papà era distratto da cose tipo uccidere il marito della fidanzata, per esempio.

Come lo avrebbe fatto Cristian? Con una pistola, immagina, ma in realtà non lo sa. Glielo dovrebbe chiedere? Si erano dati appuntamento per venerdì e avevano deciso che tutto sarebbe accaduto quello stesso giorno, oppure mai più. Ma ci sono altre cose che tormentano Max. Il fatto di assassinare qualcuno. Si può uscire indenni da una storia del genere? Come cambierà la sua vita? Come cambierà lui? Riuscirà a sopportarlo? Eppure deve farlo. Ora o mai più, no? È evidente che se non ci fosse Gero nella vita di Merche, lei ora starebbe con lui, no? È così, no? Sicuro, no? Sì. Non puoi dubitare di tutto, Max. No, almeno adesso niente dubbi. Può lasciar correre. Certo, potrebbe ancora, ma poi? Cosa lo aspetta? Vivere nell’attesa che Merche lo rimpianga, che ne senta la mancanza, che lo venga a cercare. Innamorarsi di nuovo? Lasciarsi trascinare da quella inerte ruota panoramica fatta di lavoro, figli, donne, alcol, perdita di lavoro, di figli, di denaro, di dignità? Ormai ha deciso. È un incubo dal quale si risveglierà solo quando avrà smesso di pensare e ripensare e avrà agito una volta per tutte, quando inciderà sulla realtà, cambiandola. Magari non gli andrà bene, ma almeno si sarà fatto giustizia. Se io ho perso tutto, se tutto è andato in malora, anche tu perderai tutto e tutto andrà in malora anche per te. Nessuno ti renderà felice, nessuno sarà felice al tuo fianco se non sarò io. È giusto così.

Quando riesce a parcheggiare l’auto e si dirige verso il suo appartamento, lo assale il panico che qualcosa possa andare male. Teme che prendano Cristian e che lui faccia il suo nome. Andrebbe in carcere. La sua vita sarebbe rovinata. Perderebbe i suoi figli. Quello sì che è un pericolo reale e più che probabile. E, di fatto, quel terrore s’impossessa di lui mentre sale le scale e arriva davanti alla porta di casa. Malgrado tutto, però, in un modo evidentemente irrazionale, la perdita della libertà, la vergogna, ciò che si può trovare dentro una cella non lo distolgono dalla decisione presa. Vuole che accada qualcosa. Vuole – per una volta nella vita – fare in modo che succeda qualcosa. Se lo beccano, sarà la fine di qualcosa e l’inizio di un’altra. La maledizione sta nel libero arbitrio e nell’esercitarlo.

Ma, oltre al panico, lo assale un nuovo dubbio. In uno scenario nel quale tutto andasse bene, nel quale Cristian uccidesse Gero, nel quale nessuno riuscisse mai a scoprire l’accaduto e non lo mettesse in relazione con l’omicidio. In quello scenario, chi può garantire a Max che Merche non sospetterebbe che è stato lui ad ammazzare suo marito? Nessuno. D’accordo, non sospetterebbe di uno come lui, ma che senso avrebbe fare fuori un idraulico nel suo furgoncino alle otto di sera di un venerdì? Come affrontare la situazione e fare finta che sembri un’altra cosa? Una tentata rapina, uno scambio di persona.

Potrebbe chiedere un appuntamento a lei nello stesso momento in cui Cristian sta ammazzando Gero. Ma Cristian vuole che lui stia al suo fianco, per indicargli la vittima con un dito, in modo che non dimentichi mai chi è stato a ordinare l’esecuzione. Potrebbe dissuaderlo, convincerlo a lasciarlo incontrare Merche all’altro capo della città, ma sarebbe inutile. Che altro potrebbe fare...? Max si tranquillizza pensando che, se non riapparirà di colpo nella vita di Merche, lei non avrà motivo di sospettare niente. Con ogni probabilità finirà per chiamarlo, per raccontarglielo, per attraversare la linea invisibile che adesso li separava, perché non esisterà più alcun motivo per non cercare rifugio in un luogo conosciuto dove è stata felice.

Si chiude la porta alle spalle e lancia un’occhiata all’appartamento. Non ricorda più nemmeno quando viene la donna delle pulizie, né in che giorno della settimana passata ha smesso di farsi vedere in agenzia. Si era giustificato adducendo un peggioramento della lombalgia della settimana precedente. Era andato in banca, aveva ritirato fino all’ultimo euro e adesso ha già tutti i soldi a disposizione. Dovrebbe mangiare qualcosa. In frigorifero è tutto a metà, solo cose scadute, in quantità insufficiente o poco appetibile. I piatti ammucchiati nel lavello. I panni sporchi sparsi sul letto. Due o tre lavatrici da fare. Max vorrebbe chiudere gli occhi e dormire un sonno simile alla morte. Un coma indotto che gli ripulisca il corpo e il cuore, la mente e l’anima. Si lascia cadere sul divano. Accende il televisore e subito lo spegne. Lo stanno chiamando. È Cristian.

«Dimmi.»

«Ogni giorno, verso le otto di sera, arriva con il furgoncino e lo lascia nel parcheggio di casa sua. Al suo piano non ci sono molti veicoli.»

«Dammi l’indirizzo. Domattina vado a darci un’occhiata. Se non è sicuro o non ci vedo chiaro, scordatelo.»

«È tutto tranquillo.»

«Dammi l’indirizzo.»

Max glielo dà, e aggiunge le indicazioni per entrare e il numero di posto nel parcheggio. Sa che sta allungando la conversazione per non proporgli la possibilità di non restare tutto il tempo con lui. Alla fine lo fa.

«No, le mie condizioni erano quelle. Tu, con me.»

«Ma io...»

«Tu, con me. Ci vediamo un paio d’ore prima. Dove?»

«All’angolo della strada c’è una chiesa.»

«Io ti aspetto lì. Tu arrivi, ci passi davanti e io ti seguo. Staremo tutti e due allo stesso piano del parcheggio. Mi dai i soldi e aspettiamo.»

«Come... Come lo farai fuori?»

«Con un bacio.»

«No, sul serio. Devi tenere conto dell’eco e poi...»

«Ci vediamo domani.»

Cristian riaggancia.

«Bruno, Bruno...»

La sua voce sembra triste. Lo avvolge l’oscurità, rotta solo dalle luci delle finestre vicine, occhi aperti nei quali può spiare la vita della gente che non ha bisogno di uccidere per avere quello che le spetta. Alcune ombre vengono ingoiate dal televisore, con i suoi colori e le facce che parlano senza capire nulla di ciò che dicono, mute, gesticolando, sputando contro il vento.

Max si alza e va in camera da letto. Cerca nell’armadio una scatola di cartone decorato con un quadro impressionista, tutto azzurri e ninfee. Ci custodisce le cose che ama di più. Le foto dei suoi figli, i disegni che gli hanno regalato in tutti questi anni. Anche una manciata di foto di quando era bambino. Istantanee di una vita che era solo altre vite vissute da altri con il suo stesso nome e cognome, niente più di questo. Apre la scatola per sentirsi legato almeno a quello, ma ottiene l’effetto opposto: si sente estraneo a tutto quello, come se avesse già oltrepassato la soglia e adesso fosse un altro.

C’è stata un’epoca d’oro, pensa Max, prima del primo bacio e del primo dolore. Una strada dritta verso le cose. Una maniera di essere ciò che eri e di avere ciò che volevi o potevi avere. Ma ormai non sta più da nessuna parte quel tempo, quella maniera di essere. Devi accettarlo, Max. Adesso sei un uomo. Non più un bambino. Pensa di chiamare le sue figlie sul cellulare. Di trovarsi una donna. Sintonizzarsi sul Canal Clásico e perdersi in uno di quei vecchi film meravigliosi in bianco e nero diretti da registi morti, con attrici e attori morti che interpretano dialoghi di sceneggiatori morti, e alla fine stasera siamo tutti morti tranne Gero, tranne i figli di Gero che saranno orfani, tutti tranne il mondo intorno a Gero, che quella sera è nitido e brillante, come una stella sul giubbotto di uno sceriffo, che a ogni costo tenta, in televisione, di uccidere e non essere ucciso, di conservare il grado e la dignità, di impiccare chiunque rubi un cavallo, ammazzi un indiano alle spalle o violenti la donna di un altro.

Forse si è sempre sbagliato. La vita non è un dramma e neppure una sitcom di venti minuti al giorno. Non è nemmeno una tragedia. La vita, la sua vita, è un western che per la maggior parte del tempo non ha una neanche una sceneggiatura.