La vita e il canzoniere di Fabrizio De André

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Vola il tempo lo sai che vola e va,

forse non ce ne accorgiamo

ma più ancora del tempo che non ha età,

siamo noi che ce ne andiamo

e per questo ti dico amore, amor

io t’attenderò ogni sera,

ma tu vieni non aspettare ancor,

vieni adesso finché è primavera.

(Fabrizio De André – Valzer per un amore)

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Con il sottofondo musicale di Valzer Campestre di Gino Marinuzzi jr, che circa venticinque anni dopo diverrà Valzer per un amore[1], il 18 febbraio del 1940 nasce a Genova, nel quartiere Pegli, Fabrizio Cristiano De André. Paradossalmente, il quartiere che dà i natali a De André è lo stesso che vide nascere Papa Benedetto XV e se si pensa al suo rapporto con l’istituzione religiosa, non si può non sorridere.

Una vita errante, quella di Fabrizio, che la guerra porterà insieme alla sua famiglia per diversi anni in Piemonte, poi di nuovo in Liguria con la ritrovata pace e infine, per sua scelta, nella terra di cui è figlio adottivo: la Sardegna.

Con l’avvio delle persecuzioni razziali e lo scoppio del conflitto, nel 1942 la famiglia De André si trasferisce a Revignano d’Asti. Il padre Giuseppe, professore antifascista che aiuta i suoi alunni a sfuggire alle persecuzioni, è costretto alla macchia. Per il piccolo Fabrizio è un’assenza dolorosa che cerca di colmare circondandosi di persone adulte. Il padre resta comunque, insieme al fratello maggiore Mauro, un importante punto di riferimento per Fabrizio.

A Revignano d’Asti, Bicio, come lo chiamano tutti, stringe amicizia con due persone in particolare: la sua coetanea Giovanna Manfieri detta Nina («Ho visto Nina volare / sulle corde di un’altalena»)[2] e il mezzadro Emilio Fassio, con il quale cerca di compensare l’assenza del padre. È proprio Fassio che infonde la passione per gli spazi aperti in Faber[3] e l’amore per la natura diverrà talmente forte che alla fine degli anni Sessanta porterà De André a edificare una tenuta agricola in Sardegna, a Tempio Pausania.

Già da piccolo, Fabrizio dimostra un carattere deciso e anarchico: a quattro anni, dopo esser stato fuori di casa tutto il giorno – forse a veder partorire le mucche – si prende una bella tirata d’orecchie dalla mamma Luisa. Fabrizio prepara la valigia, mettendoci dentro i suoi soldatini di piombo e scappa di casa («Il bosco era scuro e l’erba già alta / dite a mia madre che non tornerò»)[4].

Intanto gli orrori della guerra mietono le prime vittime: lo zio materno di Fabrizio, Francesco Amerio, viene deportato nel campo di concentramento di Mannheim e lì rinchiuso per due anni. Al ritorno, l’uomo racconta solo alcuni frammenti della terribile esperienza, ma quelle poche parole resteranno per sempre radicate nell’animo di Faber, che nelle sue canzoni tratterà più volte il tema della guerra (La guerra di Piero, La ballata dell’eroe, Girotondo, Andrea, Fila la lana, ecc).

Nel 1945 i De André tornano a Genova. L’anno dopo Fabrizio viene iscritto in una scuola elementare privata gestita dalle suore Marcelline, che il piccolo dissidente ribattezzerà «Porcelline». L’indole ribelle di Bicio spinge i genitori a fargli cambiare istituto per iscriverlo in una scuola statale nella speranza, forse, che una struttura con regole meno dure possa stemperare il suo carattere. Ma le aspettative di Giuseppe e Luisa De André vengono tradite: il loro secondogenito viene bocciato in seconda media e iscritto in un rigido collegio gesuitico, dal quale verrà poi ritirato e spostato altrove, in sèguito a una brutta esperienza con un “educatore” dalle mani lunghe. Fa sorridere, pensare che un bambino così restio alle norme scolastiche, anni dopo diventerà addirittura vice preside negli istituti privati amministrati dal padre.

Le scorribande del piccolo Fabrizio hanno come teatro sia i caruggi di Genova che il focolare domestico e già delineano le sue potenzialità goliardiche. Con i bambini del suo rione, per esempio, riadatta una casa diroccata dalle bombe, trasformandola in un rifugio per gatti randagi. Per sfamare le povere bestiole, Bicio e i suoi amici – una versione genovese de I ragazzi della via Pal – depredano le dispense delle cucine di casa e preparano lauti banchetti per i felini.

Anche da solo, il piccolo De André riesce a tenere in allenamento la sua vitalità e procurare non pochi affanni alla mamma Luisa: come quando s’improvvisa allevatore di piccioni e costruisce loro delle gabbiette di legno sul terrazzino di casa. Nel momento in cui sul fondo delle cassette si crea un notevole strato di guano, il piccolo animalista stacca dei grossi pezzi di “crosta” e con una mira da tiratore scelto, centra i recipienti traboccanti latte fresco che le massaie portavano a casa. La signora De André, puntualmente, alle casalinghe infuriate che bussavano alla sua porta offriva un buon tè caldo come “calumet della pace”.

Ma l’apice della scaltrezza, Bicio lo raggiunge quando la signora Luisa De André decide che è arrivata l’ora, per il bambino di casa, di dedicarsi a un’attività piacevole che lo possa tenere tranquillo per un po’: un corso privato di violino. Il maestro, tale Gatti, è il secondo violino nell’orchestra del Teatro Comunale e, proprio come succederà a Faber da adulto, ha il terrore dell’esibizione in pubblico. «Quando poteva nascondersi dentro l’orchestra suonava come Paganini, ma se lo mettevi in prima fila si cagava addosso», racconterà De André nell’intervista a Cesare G. Romana[5]. Il violino, però, provoca a Fabrizio dei fastidiosi dolori per via dell’uso della mentoniera e allora riesce a porre rimedio alla sofferenza fisica, corrompendo il Gatti con una fornitura di dolci di cui il maestro è ghiotto. Di contro, dunque, il maestro suona al posto di Fabrizio, facendo credere alla signora Luisa che sia il suo pargolo a eseguire alla perfezione il Trillo del diavolo di Giuseppe Tartini, violinista del Seicento. Il rapporto tra i De André e il Gatti cessa immediatamente quando la mamma di Fabrizio scopre l’inganno.

Nel 1954 Fabrizio intraprende dei corsi di chitarra con il maestro colombiano Alex Giraldo che gli trasmette l’interesse per le sonorità sudamericane. Proprio con Giraldo, Faber per la prima volta si esibisce pubblicamente per uno spettacolo di beneficenza, eseguendo Beguine the beguine.

Nel frattempo entra a far parte dei The Crazy Cowboys & The Sheriff One: un gruppo che suona genere country e western. Dopo i primi contatti col palcoscenico – che sarà sempre un terreno scottante per il suo carattere schivo – si appassiona al jazz, suonando con il Modern Jazz Group a cui talvolta si aggrega Luigi Tenco, al sax alto. Tenco e De André si conoscono in una balera quando il cantautore piemontese si avvicina a Fabrizio per chiedergli se fosse lui quello che andava in giro a raccontare di aver scritto il testo di Quando, cantata da Peppino di Capri. De André, con la sua solita schiettezza, risponde che lo faceva per fare colpo sulle donne.

Al ritorno da uno dei suoi consueti viaggi, il padre gli porta in regalo due dischi di Georges Brassens e da allora inizia quell’amore smisurato per lo chansonnier francese che Fabrizio reputa suo maestro e dal quale tradurrà diverse canzoni (Marcia Nuziale, La morte, Il gorilla, Nell’acqua della chiara fontana, Le passanti, Morire per delle idee e Delitto di paese)[6]. Nonostante sia un suo grande estimatore, De André eviterà di conoscere Brassens per conservare di lui l’immagine di un mito conosciuto solo attraverso le canzoni.

L’adolescenza, Faber la passa nelle strade della vecchia Genova («lungo le calate dei vecchi moli / in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori»)[7], dove entra in contatto con i reietti della società: gli “amici fragili” e le “anime salve” che renderà protagonisti delle sue poesie in musica.

Dopo il diploma s’iscrive all’università per poi interrompere gli studi a sei esami dalla laurea in Giurisprudenza, dopo esser passato per Lettere e Medicina: il richiamo della musica e dei versi sono più forti del richiamo della toga. L’amore per le sette note cresce anche grazie all’amicizia con Luigi Tenco, Umberto Bindi, Paolo Villaggio (con il quale scrive Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers[8] e Il fannullone[9]) e altri artisti, genovesi e non. Con Paolo Villaggio, spesso va in un locale che si chiama Pozzo della Garitta a improvvisare canzoni popolari sarde inventate di sana pianta, come quella che parla di «Lu furnari du Gennargentu». Un marito geloso, convinto che la moglie lo tradisca con il fornaio del paese, al suo rientro a casa vede ovunque simboli allusivi del membro del rivale.

Fabrizio stringe rapporti d’amicizia anche con il poeta genovese Riccardo Mannerini, con il quale per un certo periodo condividerà un appartamento. Con lui scriverà i testi dell’album Senza orario, senza bandiera per i New Trolls, tratti proprio dalle poesie di Mannerini.

Nel 1960, in collaborazione con Clelia Petracchi, nasce La ballata del Miche’ che affronta il delicato tema del suicidio: argomento che tornerà più volte nei suoi testi. La ballata racconta la storia di Miche’, che dopo aver ucciso un uomo per gelosia, certo di non sopportare la lontananza della donna amata, s’impicca nella cella che lo avrebbe tenuto per vent’anni lontano da lei. Come avverrà in sèguito per La canzone di Marinella, il cantautore genovese s’ispirò a un fatto di cronaca: Miche’, infatti, era il diminutivo di Michele Aiello, un giovane emigrato dal sud verso Genova. Come spesso accade a chi si trasferisce in un altro ambiente, Michele non riuscì a integrarsi e l’inquietudine per la sua emarginazione trovò uno spiraglio solo grazie all’amore di una donna. L’arrivo di un pretedente – probabilmente più ricco di lui – che cercò di portargli via la sua amata, lo sconvolse, per la paura di restare solo ancora una volta, fino a uccidere il rivale in amore.

Nel 1961 pubblica Nuvole barocche ed E fu la notte (testo di Franco Franchi), che Faber stesso considerò «peccati di gioventù», poiché forse musicalmente non sono la massima espressione della sua tipica vocalità.

Il 1962 è un anno emotivamente intenso per Fabrizio: a luglio sposa Enrica Rignon (detta Puny) e a dicembre nasce il figlio Cristiano, oggi anche lui affermato musicista. È toccante la canzone Cose che dimentico scritta e interpretata da Cristiano e Fabrizio in ricordo del comune amico Fernando Carola, poeta gallurese morto di AIDS («Qui nel reparto intoccabili / dove la vita ci sembra enorme»), inserita nell’album Sul confine (1995) di Cristiano De André dopo essere stata scartata al Festival di Sanremo nel 1994.

Nel 1964 Fabrizio sostiene l’esame d’ammissione alla SIAE come autore, per poter avere un riconoscimento e una maggiore tutela dei testi che ha già composto, come La ballata dell’eroe e Il testamento. Al riguardo, anni dopo, durante la seconda edizione del Premio Lunezia che si tiene ad Aulla (in Lunigiana), rivelò di aver scritto il testo della canzone d’esame, che doveva essere rigorosamente inedito, trascrivendo in larga parte il testo della poesia di Prévert, Foglie morte. Evidentemente doveva essersi reso conto della futilità della cosa. E nel tempo risparmiato si dedicò a dare una mano agli altri esaminandi.

Nel 1965 arriva il gran successo grazie a Mina che, già affermata, ripropone una sua personale interpretazione de La canzone di Marinella[10] e lancia Fabrizio De André nel panorama musicale italiano. Sempre nello stesso anno, scrive la canzone Stringendomi le mani per la cantante Giuliana Milan.

L’anno seguente, sull’onda del successo, esce il suo LP d’esordio: Tutto Fabrizio De André che contiene alcuni dei migliori brani scritti fino a quel momento come La città vecchia, La ballata dell’amore cieco (o della vanità), La canzone di Marinella e La guerra di Piero.

Nel 1967 esce Volume 1 che include pezzi indimenticabili come Preghiera in gennaio, dedicata all’amico suicida Luigi Tenco; Via del Campo e Bocca di rosa: uno spaccato della vita delle giovani prostitute, viste come depositarie di felicità.

Segue Tutti morimmo a stento del 1968, che affronta il tema dell’emarginazione e si apre con il suggestivo Cantico dei drogati ispirato alla poesia Eroina dell’amico Riccardo Mannerini. Il brano in origine era intitolato Cantico dei folletti di vetro, a rappresentare le bottiglie di superalcolici. Sono presenti nell’album altri testi ispirati da artisti che lasciano tracce profonde nell’anima di Fabrizio, a partire dal già citato Georges Brassens. In questo disco, De André riprende il testo di Le Père Noël et la petite fille per trarne La leggenda di Natale, che tratta l’amaro tema della pedofilia. È infatti la storia di un’adolescente («avevi l’età che non porta dolori») che incontra un uomo dagli occhi freddi che la riduce «un fiore appassito a Natale». Quest’album è stato tradotto anche in inglese nel 1969, per volontà del discografico Antonio Casetta, e stampato in un’unica copia di prova, posseduta da un collezionista statunitense.

Nel 1968 esce Volume 3: un album assai ricco di riferimenti musicali e letterari, che vanno da Cecco Angiolieri, il poeta toscano duecentesco che meglio di tutti seppe rappresentare la poesia comico-realistica dell’epoca (S’i’ fosse foco), al già citato Brassens (Il gorilla, Nell’acqua della chiara fontana), per finire con una canzone popolare francese del XIV secolo (Il re fa rullare i tamburi).

Nel 1970 esce La buona novella, un concept album (ovvero album che ruota attorno a un tema) tratto dalla lettura dei Vangeli apocrifi: De André traccia con sottile amorevolezza il ritratto di una sacra famiglia più umana e meno divina. Ancora una volta è dato ampio spazio alle umili storie dei “vinti”: quei personaggi che sono soliti fare da cornice agli eventi e ai protagonisti della Storia con la “S” maiuscola. Ecco allora uscire dalle retrovie uomini come Tito e Dimaco: i due ladroni crocifissi, le cui madri rimproverano a Maria di piangere troppo per un figlio che il terzo giorno tornerà da lei («lascia noi piangere / un po’ più forte / chi non risorgerà più dalla morte»)[11].

E ancora l’Infanzia di Maria, portata al tempio a soli tre anni e data in sposa a «dita troppo secche per chiudersi su una rosa»: quelle di Giuseppe, «falegname per forza / padre per professione»; e il Testamento di Tito, in cui i dieci comandamenti sono visti in una chiave più anticonformista e meno dogmatica. Al punto che ci si chiede come si possano onorare due genitori che usano violenza contro il proprio figlio; come possano santificare le feste i ladroni e gli “ultimi” che non hanno la possibilità materiale di festeggiare; come si possa obbedire al settimo comandamento che impone di non ammazzare, avendo di fronte l’immagine di un uomo per «tre volte inchiodato nel legno».

Nel 1971 esce Non al denaro non all’amore né al cielo, ispirato alle poesie che compongono l’Antologia di Spoon River dell’autore americano Edgar Lee Masters (pubblicata nel 1915) che Fabrizio conosce grazie alla brillante traduzione dell’amica Fernanda Pivano: quando Faber farà sentire alla Pivano le canzoni ispirate all’antologia, lei piangerà dall’emozione e lui le chiederà se piange perché le canzoni sono brutte. L’antologia è una raccolta di poesie che presentano, in forma di epitaffio, la vita e la morte di uomini e donne sepolti in un piccolo cimitero della provincia americana: Masters si ispirò a persone realmente vissute nell’Illinois e De André riscrive le loro storie.

Nel 1972 Faber scrive A famiglia di Lippe (con Peo Campodonico) e Ballata triste (con Vito Elio Petrucci) per un album del suo concittadino Piero Parodi.

Nel 1973 viene pubblicato un concept album contro il convenzionalismo borghese, ma polemico anche nei confronti del terrorismo che si sprigionerà nei primi anni settanta: Storia di un impiegato. Il protagonista principale è un impiegato che dopo aver ascoltato un canto del Maggio francese – moto sessantottino nato dalla rivolta studentesca – decide di ribellarsi a sua volta, conservando però il suo individualismo che, in un secondo tempo, si trasforma in un collettivismo reso più acuto dall’ambiente carcerario col quale verrà a contatto. Colui che si definisce Il bombarolo, dichiara guerra al Potere attivando il detonatore («Chi va dicendo in giro che odio il mio lavoro / non sa con quanto amore / mi dedico al tritolo»).

«Caratteristica principale del bombarolo qui descritto è di agire da solo. Non prende ordini da nessuno e non combatte per nessuno; è un isolato, un uomo solo che vuole portare fino in fondo la sua battaglia»[12].

De André, pur vivendo a contatto con gruppi dell’estrema sinistra, non li segue attivamente perché «di solito un artista, indipendentemente dall’ideologia, è un coniglio individualista»[13].

Il brano che dà il titolo all’album, la Canzone del Maggio, è ricavato da un canto del Maggio francese del 1968 della cantante Dominique Grange: Chacun de vous est concerné[14]. Quando viene contattata da De André, l’artista francese cede gratuitamente i diritti con la richiesta di non fare il suo nome, in quanto ricercata per la sua militanza con la sinistra estrema. De André rispetta la sua volontà e sulla copertina del cd, la canzone compare come liberamente tratta da un canto di protesta.

L’anno successivo De André compone l’album Canzoni, ricchissimo di echi letterari e musicali che vanno dall’amato Georges Brassens a Bob Dylan, per finire con Leonard Cohen, eclettico artista canadese.

Nel 1975, in coppia con Francesco De Gregori, De André musica i testi di Volume 8. Ancora una volta Faber omaggia Leonard Cohen con un’ottima traduzione della canzone Nancy. Due particolarità distinguono le canzoni Oceano e Amico fragile: la prima nasce per rispondere alle continue domande del piccolo Cristiano De André («tu che sfiori il cielo col tuo dito più corto»), che interrompe insistentemente il loro lavoro di stesura, con domande tipiche della curiosità infantile («vorrei sapere quant’è grande il verde / com’è bello il mare / quanto dura una stanza»); la seconda, invece, è un’accusa scagliata contro un gruppo di borghesi che durante una cena a Portobello di Gallura, anziché raccogliere l’invito di Faber a discutere sui vari temi di attualità, gli chiede insistentemente di prendere la chitarra («e poi / sospeso tra i vostri “Come sta” / meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci / tipo “Come ti senti amico / amico fragile / se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te”»). De André abbandonò la cena e andò a cercar rifugio in un cantuccio della sua casa: dopo lunghe ricerche lo ritrovarono con una bottiglia vuota e una canzone nuova di zecca.

Nel 1977 sposa la cantante Dori Ghezzi, dalla quale nascerà Luvi (Luisa Vittoria, dai nomi delle due nonne), che successivamente accompagnerà il padre in tournée in qualità di corista e nel 2006 pubblicherà il suo primo lavoro discografico Io non sono innocente, scritto da un altro figlio d’arte: Claudio Fossati.

Dori Ghezzi, oggi, si occupa della promozione di eventi culturali volti a tener viva la memoria per l’opera e il pensiero di Fabrizio, tramite l’attiva Fondazione Fabrizio De André. In occasione del decennale della morte di De André, Dori Ghezzi ha reso noto che a oggi sono ottantotto le scuole, le vie e i teatri dedicati a Faber. L’ultimo, in ordine cronologico, è l’anfiteatro comunale di Nuoro, in cui il cantautore si esibì per l’ultima volta in Sardegna.

Nel 1978 De André incide l’album Rimini scritto in collaborazione con il cantautore veronese Massimo Bubola, coautore di tutti i brani presenti nel disco. Questo LP contiene canzoni celebri come Andrea, che tratta il doppio tema dell’antimilitarismo («C’era scritto sul foglio ch’era morto sulla bandiera / c’era scritto e la firma era d’oro / era firma di re») e dell’omosessualità («Occhi di bosco / soldato del regno / profilo francese / e Andrea l’ha perso / ha perso l’amore / la perla più rara»); Zirichiltaggia (Baddu tundu) briosa ballata in dialetto gallurese che racconta di una lite tra fratelli per motivi di eredità; Parlando del naufragio della London Valour in cui è riportato l’episodio di cronaca dell’affondamento realmente avvenuto nel porto di Genova il 9 aprile del 1970.

Risale al 1979 il tour da cui verrà tratto l’album live In concerto con la PFM, in cui Fabrizio si esibisce con la Premiata Forneria Marconi (PFM) in un’inedita collaborazione. L’audacia di Faber e della PFM è premiata dal successo del tour, dall’attenzione e i complimenti della critica e, non da ultimo, dal successo di vendite. In realtà, per la PFM non è facile convincere De André a calcare i palcoscenici d’Italia, vista la sua proverbiale timidezza, e più volte Faber minaccia di abbandonare il tour. Talvolta si diverte a provocare il pubblico dichiarando che chi non avesse gradito il concerto, avrebbe dovuto eliminare fisicamente i musicisti. La conseguenza di questa dichiarazione fu che il povero Franz Di Cioccio si prese una bella lattina in fronte da parte di uno spettatore e De André a fine serata, propose di scendere dal palco a cercare, tra le migliaia di spettatori, il colpevole. Successe anche un’altra volta e quando il reo confesso venne trovato in un autogrill, si aggregò alla compagnia cantante fino alla fine del tour.

Nel 1979 si apre per Fabrizio e Dori una parentesi drammatica, in sèguito al loro sequestro durato quattro mesi (dal 27 agosto al 22 dicembre). Da questo episodio, nel 1981 nascerà l’album Fabrizio De André (conosciuto come l’Indiano, per via del disegno sulla copertina) che dimostrerà come l’amore di Fabrizio per la Sardegna vada al di là di tutto: oltre il rapimento e oltre le critiche che i benpensanti gli rivolgeranno dopo la liberazione. Fabrizio, infatti, perdonerà i suoi sequestratori. «I rapitori erano gentilissimi, quasi materni... Ricordo che uno di loro una sera aveva bevuto un po’ di grappa di troppo e si lasciò andare fino a dire che non godeva certo della nostra situazione»[15].

Per la composizione di due brani dell’album, Franziska e Quello che non ho, Faber prende spunto proprio dalle riflessioni e dai racconti dei suoi sequestratori con i quali, dopo quattro mesi di prigionia, stabilisce un rapporto confidenziale. Franziska («Hanno detto che Franziska è stanca di ballare / con un uomo che non ride e non la può baciare») che racconta l’amore travagliato tra Franziska e un bandito. Quello che non ho («Quello che non ho / sono i tuoi denti d’oro / quello che non ho / è un pranzo di lavoro») un blues che mette in evidenza le differenze tra oppressori e oppressi. Quello che non ho, inoltre, è stata inserita nella colonna sonora del film Palermo shooting, uscito nel 2008 e ambientato tra Palermo e la Germania. Il regista, Wim Wenders, è un “ambasciatore” della musica di De André nel mondo: «Spero di partecipare al concerto di tutti i grandi musicisti del pianeta che in onore di Fabrizio suoneranno le sue canzoni... Io ci sarò! E per tutto quello che potrò fare per farlo realizzare, o per filmarlo, potete contare su di me. Sarà un grande giorno per tutti i missionari di Fabrizio De André nel mondo...»[16].

Nel 1984 esce Creuza de mä, un album che propone una novità musicale: la world music italiana. Il disco riceve i premi della critica come miglior disco dell’anno e del decennio. Nell’album, cantato interamente in dialetto genovese e suonato con strumenti etnici, si possono riscontrare suoni provenienti da varie località e ambienti: dai rumori del mercato di Genova all’assolo della gaida, una sorta di zampogna bulgara che produce un suono simile a quello delle launeddas sarde.

L’anno successivo muore suo padre e Fabrizio, in un’intervista a Cesare G. Romana, dirà: «Il problema non è che gli volevo bene, perché questo non finisce. Il problema è che lui ne voleva a me»[17].

Nel 1989 un altro lutto rilevante: a soli cinquantaquattro anni muore improvvisamente il fratello Mauro, colpito da aneurisma. Fabrizio perde due punti di riferimento molto importanti nella sua vita.

Sei anni dopo Creuza de mä, esce Le nuvole e De André, a chi gli chiederà spiegazioni, dirà: «Non mi è mai successo di produrre ai ritmi di una gallina ovaiola e farò di tutto perché ciò continui a non accadere»[18]. Per scrivere quest’album, Faber prende spunto dalla commedia Le nuvole di Aristofane, in cui le nuvole sono la metafora per rappresentare i sofisti disprezzati da Aristofane e che nel disco del cantautore genovese, diventano i politici e i potenti che hanno comandato in Italia.

Questa raccolta può essere definita “plurilinguistica”: infatti, su otto canzoni, ben sette utilizzano un’ampia varietà di dialetti: dall’italo-alemannico di Ottocento («Ein klein pinzimonie / wunder matrimonie…»), all’italiano regionale e il dialetto napoletano di Don Raffae’ («A che bell’ò cafè / pure in carcere ’o sanno fa»), al gallurese di Monti di Mola («In li Monti di Mola / la manzana / un’aina musteddina era pascendi»), al genovese di Mégu Megún («Uh mègu mègu mègu mè megùn») e ’Â çímma («Ti t’adesciàe ‘nsce l’èndegu du matin»), al napoletano di La nova gelosia («Fenesta co’ ’sta nova gelosia / tutta lucente, de centrella d’oro»).

Seguono l’album live del 1991, il tour teatrale del 1992 e nel 1996 Anime salve, scritto a quattro mani con l’amico, collega e concittadino Ivano Fossati. «Questo Anime salve è un disco il cui significato deriva dall’etimologia delle due parole: vuol dire “spiriti solitari”. È un elogio della solitudine»[19].

Il tema principale di questo coinvolgente album – considerato da molti il testamento spirituale di Fabrizio De André – è, appunto, la solitudine vista in tutte le sue forme.

Da Prinçesa[20], storia di un transessuale che, bloccato sul confine dell’ambiguità – né uomo né donna – cerca tramite un’operazione chirurgica un riscatto all’emarginazione cui è sottoposto («corro all’incanto dei desideri / vado a correggere la fortuna»), a Khorakhanè (A forza di essere vento) scritta in lingua rom (romanes) che tratta delle barbarie dei paesi dell’Est, fino alla solitudine dell’innamorato di Dolcenera:

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una storia parallela: da una parte c’è l’alluvione che ha sommerso Genova nel 1972, dall’altra c’è questo matto innamorato che aspetta una donna. Ed è talmente avventato in questo suo sogno che ne rimuove addirittura l’assenza, perché lei, in effetti, non arriva. Lui è convinto di farci l’amore, ma lei è con l’acqua alla gola.[21]

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In questo album è presente anche una canzone che tratta il tema della faida, Disamistade (che significa «disamicizia», in sardo) ed è un grido lancinante «degli innocenti che cercano conforto nella Chiesa. Questa resta però chiusa nel suo immobilismo. […] La disperazione delle vittime porta a gridare che ci dovrà pur essere un modo di vivere senza dolore, ma questa speranza è destinata a restare insoddisfatta»[22].

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L’11 gennaio 1999 Fabrizio De André muore a Milano, stroncato da un male incurabile. Ai suoi funerali tenutisi a Genova nella Basilica di Carignano, partecipano oltre diecimila persone di ogni età ed estrazione sociale: il popolo di De André. Il sacerdote che celebra la messa, lo saluta ringraziandolo «per averci insegnato l’alfabeto dell’amore».

Ora riposa nella cappella di famiglia del cimitero di Staglieno e nella memoria di tante “anime salve” e “amici fragili”.

[1] F. De André - G. Marinuzzi, Valzer per un amore, dall’album Canzoni (Produttori Associati, 1974).

[2] F. De André - I. Fossati, Ho visto Nina volare, dall’album Anime salve (Bmg Ricordi, 1996).

[3] Ci sono due versioni che giustificano questo appellativo: la prima si potrebbe dedurre dall’etimologia del nome Fabrizio, che è appunto Faber, cioè fabbro. Questo significato, tra l’altro, ben si sposa con l’abilità che aveva De André nel limare le parole. L’altra versione è quella del suo amico Paolo Villaggio che lo apostrofò così poiché utilizzava spesso le matite della marca “Faber Castell”.

[4] F. De André - M. Bubola, Sally, dall’album Rimini (Ricordi, 1978).

[5] C. G. Romana, Amico fragile, Milano, Sperling & Kupfer, 1991, p. 22.

[6] F. De André, Marcia nuziale e La morte dall’album Volume 1 (Bluebell record, 1967); Il gorilla e Nell’acqua della chiara fontana da Volume 3 (Bluebell record, 1968); Le passanti, Morire per delle idee e Delitto di paese da Canzoni (Produttori Associati, 1974).

[7] F. De André, La città vecchia, dall’album Canzoni (Produttori Associati, 1974).

[8] F. De André - P. Villaggio, Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poiters dall’album Volume 1 (Bluebell record, 1967).

[9] F. De André - P. Villaggio, Il fannullone, dall’album Nuvole barocche, (Karim, 1958).

[10] Ripresa anche nel 2003 e incisa nell’album di Mina In duo, in coppia con lo stesso De André.

[11] F. De André, Tre madri, dall’album La buona novella (Belldisc, 1970).

[12] M. Borsani - L. Maciacchini, Anima Salva. Le canzoni di Fabrizio De André, Mantova, Tre Lune, 1999.

[13] F. De André, in Cantico per i diversi, intervista a cura di Roberto Cappelli, «Mucchio Selvaggio», Settembre 1992.

[14] D. Grange, Chacun de vous est concerné, L’Utopie toujours..., Édito Hudin, Mélodie distribution, 1968.

[16] Dal documentario di T. Marchesi, Effedia, sulla mia cattiva strada, Sony Music, 2009.

[17] C. G. Romana, Amico fragile, cit., p. 22.

[18] Intervista di F. De André con A. Podestà, Storie di uomini, di nuvole e di cicale, «TV Sorrisi & Canzoni», 1990.

[19] Cit. da www. giuseppecirigliano.it. Così si è espresso De André in occasione del concerto al Palasport di Treviglio, 24 marzo 1997.

[20] Il testo di Prinçesa è liberamente tratto dall’omonimo libro di Fernanda Farias de Albuquerque e Maurizio Jannelli, Editrice Sensibili alle foglie, 1994.

[21] Si fa riferimento ancora al concerto al Palasport di Treviglio.

[22] M. Borsani - L. Maciacchini, Anima Salva, cit., p. 33.