I volti dell’amore: prostituta, madre e amata

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Io dedico questa canzone

ad ogni donna pensata come amore

in un attimo di libertà

a quella conosciuta appena

non c’era tempo e valeva la pena

di perderci un secolo in più.

(Fabrizio De André – Le passanti)

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La prostituta

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L’universo femminile descritto dal cantautore genovese comprende prostitute, madri e amanti unite dal comune denominatore del sacrificio della prostituzione e della maternità.

La figura della prostituta ricorre spesso nei testi di De André ed egli ripone in questa figura tutta la sua amorevole comprensione, senza mai giudicare:

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Essendo la prostituzione, forse, il sacrificio più pesante per una donna, e visto che attraverso il sacrificio ci si può anche santificare, non si capisce perché non abbiano ancora fatta santa una prostituta.[1]

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A dumenega[2] è la descrizione di un rito settimanale che si svolgeva a Genova ogni domenica: protagoniste, le prostitute (figge du diàu, figlie del diavolo), che «non avevano altro torto se non quello di guadagnarsi il pane da nude»[3]. Le donne relegate per tutta la settimana nel bordello del quartiere della Rebecca di Genova, nel giorno di riposo potevano passeggiare – esibendo le proprie grazie – per le vie della città ligure. Ad accompagnarle, oltre alle maitresse, c’erano gli sguardi cattivi e i commenti pungenti di quanti assistevano a questa processione profana, presente anche in Bocca di rosa, laddove la protagonista – Bocca di rosa, appunto – viene fatta sfilare accanto alla Madonna. I primi a schernire le prostitute, neanche a dirlo, sono proprio gli abituali frequentatori notturni dei bordelli che con la luce del sole si calano nei panni degli ipocriti moralisti e additano ferocemente le donne, ricoprendole di insulti al loro passaggio. Ma la cinica legge del contrappasso non guarda in faccia nessuno e così un fervente praticante nonché portatore della statua del Cristo durante le processioni, si accorge che tra le “figlie del diavolo” che ha appena insultato, sfila anche la sua signora.

In contrapposizione allo sbigottimento dell’ingannato consorte, c’è un uomo appagato da questa passeggiata considerata sacrilega dai più: è il direttore del porto di Genova che otterrà finanziamenti dall’attività del bordello della Rebecca, poiché con i proventi dei lupanari, il Comune sovvenzionava i lavori portuali.

Tornando a Bocca di rosa, in questo brano torna il motivo sacro in antitesi a quello profano, per l’accettazione della donna da parte del parroco che le permette di sfilare in processione accanto alla Madonna, a sottolineare l’umana sacralità di chi «portò l’amore nel paese». Al contrario delle prostitute di A dumenega che vengono derise e insultate nientemeno che dai loro clienti, Bocca di rosa è amata dalla popolazione maschile dei due paesini nei quali giunge, facendo subito intendere «che non si trattava di un missionario». Ma di “missione” si può parlare, se si dà rilievo al fatto che Bocca di rosa, al contrario di chi si prostituiva per sconfiggere la monotonia quotidiana o per lavoro, era spinta dalla passione. Un sentimento spontaneo che, se poteva appagare le brame dei concupiti, provocava lo sdegno e la ribellione delle loro mogli. Queste, infatti, anziché insorgere per la poca fedeltà dei rispettivi mariti, preferivano accanirsi contro la sola che aveva risvegliato loro i sensi. Nella loro sommossa, le mogli tradite «non si limitavano all’invettiva», ma arrivavano al punto di denunciare Bocca di rosa al commissariato, ottenendo così il suo allontanamento dal paesino di Sant’Ilario. Il commiato fu tanto doloroso per tutta la comunità, quanto felice per il nuovo paesino di destinazione che accolse a braccia aperte la donna che, senza pretesa alcuna, «metteva l’amore sopra ogni cosa».

Ancora una volta De André legittima l’essenza della funzione della puttana, restituendole dignità e «irridendo la disapprovazione moralistica di tale comportamento»[4].

Bocca di rosa rappresenta un ricordo giovanile di Fabrizio De André: si chiamava Maritza ed era una giovane istriana che ammirava a tal punto il cantautore, da recarsi direttamente nella sua abitazione genovese pur di conoscerlo personalmente.

Anche in Via del Campo le protagoniste sono le prostitute che “operano” nei caruggi del centro storico ligure, nella via diventata l’emblema della Genova di Fabrizio De André (e che ospita un noto negozio di musica a lui dedicato). Le donne cantate in questo brano sono rappresentate da De André con una terminologia quasi stilnovista che le circonda di un alone d’ingenuità e purezza, se non del corpo, almeno dei sentimenti e dell’anima. Dalla graziosa con «gli occhi grandi color di foglia» alla «bambina con le labbra color rugiada», tutto è immerso in un’atmosfera surreale. L’ascoltatore e il lettore neofiti all’opera deandreiana, impiegano il tempo di due strofe per comprendere che si sta parlando di una prostituta e questo avviene quando Faber chiarisce che in «Via del Campo c’è una puttana».

La musica del brano è stata composta da Dario Fo ed Enzo Jannacci. I due artisti fecero sentire il pezzo a De André, spacciandolo per una composizione di musica popolare, mentre invece avevano scritto anche il testo, oltre alle note. Faber chiese a Fo il permesso di interpretare il brano e l’attore milanese gli disse che era un onore, sicuro che De André avrebbe cantato anche le loro parole. Ma l’artista genovese le cambiò con parole sue e, da lì, nacque Via del Campo. Nelle note della copertina, il brano è indicato come «una canzone popolare ritrovata da Dario Fo ed Enzo Jannacci».

Per rimarcare ancora una volta la sua apertura nei confronti di chi si dona agli altri per necessità o piacere e che troppo spesso subisce mortificazioni, De André chiude la sua canzone con una frase che è diventata un inno all’umiltà e alla miseria: «Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior»[5].

La maggior parte dei protagonisti che animano un’altra canzone di De André, La città vecchia (che ricorda chiaramente l’omonima poesia di Umberto Saba[6]), è costituita da avvinazzati, vecchi, ladri, assassini e, ovviamente, puttane. Il cantautore genovese, con brevi “pennellate” fissa gli attimi delle loro ripetitive giornate, trascorse a cercare un motivo per sopravvivere «nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi». La chiusa della canzone appare come una consacrazione del valore umano degli uomini e delle donne vessate dalla cattiva sorte: «Se non sono gigli / son pur sempre figli / vittime di questo mondo». In questo brano è facilmente rintracciabile un omaggio a Prévert e alla sua Embrasse moi, nel verso (tradotto dal francese) «il sole del buon Dio non brilla da noi / Ha fin troppo lavoro nei quartieri ricchi».

L’umanità qui descritta si suddivide in due tipologie: da una parte i cosiddetti “ultimi” dimenticati dagli uomini e da un Dio che «ha già troppi impegni per scaldar la gente d’altri paraggi», dall’altra, il vecchio professore che rappresenta la borghesia benpensante. Il docente, ormai in pensione, di giorno ribattezza sprezzantemente «pubblica moglie» la stessa donna che la notte «stabilisce un prezzo alle sue voglie» e che lo porterà a dissipare gran parte dei suoi averi.

La parata di personaggi inizia con la bambina che impara presto «la canzone antica della donnaccia», in attesa di farsi una esperienza diretta sul campo, poiché il suo destino pare relegarla per l’eternità in un angolo di strada remoto e buio, abbandonato da tutti. Qui Faber pone l’accento sull’ironica pretesa di chi richiede alle prostitute almeno un po’ di vocazione, per intraprendere il tanto discusso – quanto popolare – lavoro.

La canzone di Marinella nasce da un fatto di cronaca che Fabrizio De André legge su un quotidiano locale: una sedicenne orfana di entrambi i genitori, viene cacciata di casa dagli zii e ridotta a fare la prostituta sulle sponde del fiume Tànaro, dove viene uccisa da un cliente o da un borsaiolo. Il giovane Faber, impressionato da questo fatto, dedica alla ragazza una canzone dall’atmosfera fiabesca, con l’intento di «reinventarle una vita e di addolcirle la morte»[7]. La donna tratteggiata dal cantautore genovese, infatti, sembra totalmente immersa in una situazione di panismo[8] che la porta ad amalgamarsi con la natura fino a fondersi con essa. Marinella, di fatto, pare nascere dalle brevi e delicate pennellate di De André, come l’Ofelia di Sir John Everett Millais[9]: con piena adesione fisica, prima che spirituale, alla natura delle cose.

Il triste epilogo della canzone: «E come tutte le più belle cose / vivesti solo un giorno / come le rose», riconduce a un concetto analizzato più volte da De André: quello della labilità del presente.

Nel brano Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers si narra dell’incontro-scontro tra Carlo Martello – prode re dei franchi che “salvò” il suo regno dall’avanzata islamica – e una prostituta. Sua Maestà, difatti, vinta la guerra contro i Mori, s’imbatte sulla strada del ritorno in una «mirabile visione / il simbol d’amor», con la quale vorrebbe placare a titolo di favore le «bramosie d’amor» sopportate durante la lunga battaglia in difesa della cristianità. Ma la donna dapprima scosta l’uomo e dopo aver riconosciuto il suo repellente volto («un gran nasone / un volto da caprone»), afferma placidamente che se non si fosse trattato del suo sovrano, non avrebbe indugiato a dileguarsi. Inoltre la prostituta – dal carattere risoluto e genuino – non si fa intimidire dall’eminente personalità che si trova davanti e dopo essersi offerta, pretende l’ovvio onorario dal sire che, offeso («Beh proprio perché voi siete il sire / fan cinquemila lire / è un prezzo di favor») si lancia in sella al suo cavallo e scappa senza pagare.

Il contenuto del brano riconduce a un componimento poetico in forma dialogica piuttosto diffuso nella letteratura provenzale. Il topos è quello del contrasto tra un uomo distinto e talvolta nobile e una ragazza di campagna che respinge le avance del cavaliere di turno.

Nonostante gli intenti letterari, l’incisione della canzone sfociò in una ridicola polemica a causa del testo dissacratorio e della presenza del termine “puttane”, allora considerato scandaloso («È mai possibile o porco di un cane / che le avventure in codesto reame / debban risolversi tutte con grandi puttane»). Tutto ciò, costò una querela agli autori De André e Villaggio. Quando De André si ritrovò alla Pretura di Milano per la seconda e ultima udienza, il magistrato lo assolse così: «Mi dica piuttosto quando uscirà il suo prossimo disco»[10], archiviando definitivamente l’assurda vicenda.

Lungo tutto il canzoniere deandreiano, come già detto, si snocciolano diverse altre poesie dedicate alle prostitute: si pensi alla «cortigiana che non si dà a tutti» presente nel Testamento, che dopo una vita dissoluta, per sopravvivere è ora costretta a vendere santini sacri all’uscita della chiesa.

In Delitto di paese invece, la figura della prostituta assume un rovesciamento: da meretrice che opera per un “bene comune” mantenendo una propria dignità e dolcezza a donna cinica e fredda che si spinge fino all’omicidio del proprio cliente – un uomo vecchio e solo – che non può permettersi di pagare la parcella.

E ancora, la povera Maggie[11] «uccisa in un bordello / dalle carezze d’un animale»; Nancy[12] «che dormiva con tutti» e di tutti si innamorava, ma che trovò l’unica consolazione alla sua solitudine gettandosi dal terzo piano di un palazzo; Prinçesa, il transessuale brasiliano «che a ricordargli che è nato maschio / sarà l’istinto / sarà la vita» e che tramite la chimica e la chirurgia vuole concretizzare la sua inclinazione femminile.

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La madre

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Anche la madre è una presenza costante nel canzoniere di Fabrizio De André, il quale dedica quasi un intero album – La buona novella – alla figura materna per eccellenza: Maria, madre di Gesù. Nella rivisitazione della vita della Vergine che il cantautore genovese fa servendosi dei Vangeli apocrifi, il perno della storia della divinità – e di conseguenza dell’uomo – è senz’altro la figura materna forte e protettiva, delineata dal punto di vista umano, più che spirituale. L’impressione che De André aveva anche di Gesù Cristo, d’altronde, era quella «di chi penso non fu altri che un uomo / come Dio passato alla storia»[13]. I Vangeli apocrifi sono stati scritti tra il I e il IV secolo d.C. e contengono particolari sulla vita di Maria, Giuseppe e i ladroni: personaggi che non trovano spazio nei Vangeli tradizionali. De André cercherà di raccontare – tramite lo studio degli Apocrifi – cosa è avvenuto prima, durante e dopo la crocifissione.

Fabrizio De André durante i concerti presentava così la sua Buona novella:

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La Chiesa, un tempo, non gradiva che persone di confessione non cristiana scrivessero di Gesù di Nazareth; invece scrittori e pensatori bizantini, arabi, armeni, greci hanno avuto sempre nei confronti di Gesù un enorme rispetto. Ancora oggi il mondo musulmano lo considera il più grande profeta dopo Maometto, mentre il mondo cattolico considera Maometto poco più che un ciarlatano. E questo è un punto a favore dell’Islam; inoltre tra i cinque pilastri che reggono l’Islam non esiste la jihad, la guerra santa: quella viene dopo le crociate[14].

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La Buona novella si apre e si chiude con due lodi: una a Dio, l’altra all’uomo. La narrazione della vita travagliata della madre di Dio inizia con L’infanzia di Maria, in cui si racconta di quando la Vergine viene portata al tempio all’età di tre anni, strappata dalle calde mura domestiche e dalla protezione della madre Anna. Al contrario degli altri bambini della sua età che possono liberamente seguire il corso delle stagioni all’aria aperta, Maria trascorre le sue ore a pregare. A dodici anni, quando entra nell’età della pubertà, la sua «verginità che si tingeva di rosso» spinge i sacerdoti ad allontanarla dal tempio in quanto “impura” e a cercarle uno sposo tra i celibi di ogni generazione («del corpo d’una vergine si fa lotteria»). Il prescelto è Giuseppe, un uomo buono ma anziano («stanco d’essere stanco») che dà accoglienza a Maria trattandola da figlia, più che da moglie. Giuseppe, «falegname per forza padre per professione», porta a casa la sua sposa bambina e parte per lavorare in Giudea, per far ritorno a Gerusalemme solo dopo quattro anni.

Rientrato a casa, viene accolto con affetto da Maria che implora attenzione da Giuseppe, il quale, dimostrando amore paterno nei confronti della propria sposa, le porta in dono una bambola intagliata nel legno, invitandola a riprendere quei giochi infantili abbandonati prematuramente. Stringendola a sé in un atto di amorevole tenerezza, Giuseppe si accorge con incredulità che Maria è incinta. Tutto questo ci viene raccontato con estrema delicatezza nel brano Il ritorno di Giuseppe.

Il sogno di Maria è l’onirica spiegazione che Maria riesce a dare riguardo il suo stato interessante. La giovane donna racconta del suo incontro con un angelo disceso appositamente dal paradiso per insegnarle una nuova preghiera. L’angelo la conduce in un volo suggestivo «là dove il giorno si perde» e con fare rassicurante, le annuncia che per opera del Signore dal suo grembo nascerà un figlio. Il testo si discosta notevolmente dalla tradizione riportata dai Vangeli canonici.

Al suo risveglio, Maria comprende di essere gravida («parole confuse nella mia mente / svanite in un sogno ma impresse nel ventre») e si scioglie in pianto, «nell’attesa d’uno sguardo indulgente». Ed è quello che ottiene da Giuseppe che ha una reazione benigna e comprensiva nei confronti della giovane moglie, perché, come affermava De André, «i vecchi quando accarezzano / hanno il timore di far troppo forte».

Faber dedica ben due canti alla Vergine, intitolati Ave Maria, laddove «Maria diventa l’emblema di tutte le donne (di tutte le madri), che De André comprende e insieme compiange»[15].

La prima in ordine cronologico è l’Ave Maria della Buona novella del 1970, scritta personalmente dal cantautore e la seconda è l’Ave Maria inserita nell’album Fabrizio De André (Indiano) del 1981, rielaborazione di un canto tradizionale sardo ricavato da un adattamento di Albino Puddu. Con questi due brani De André celebra le donne che sono femmine per un giorno e poi madri per sempre.

Maria nella bottega del falegname è un drammatico colloquio a più voci: quella di Maria, quella del Falegname (che non è detto sia Giuseppe) e quella della Gente. Il ritmo della canzone è scandito dal rumore della pialla e del martello con i quali il falegname sta lavorando all’interno del suo laboratorio. Maria ingenuamente chiede all’uomo se stia costruendo le stampelle per chi andò in guerra e tornò senza gambe e il falegname le rivela che dal suo lavoro di bottega nasceranno tre croci: due per chi rubò – Tito e Dimaco – e la più grande che abbraccerà suo figlio che insegnò a disertare la guerra.

Nel brano Tre madri viene cantato lo strazio delle madri dei ladroni Tito e Dimaco durante la crocifissione. Al dolore delle due donne costrette a vedere i loro figli morire atrocemente per non risorgere mai più – al contrario di Gesù – («Con troppe lacrime piangi, Maria / solo l’immagine di un’agonia / sai che alla vita, nel terzo giorno / il figlio tuo farà ritorno») si contrappone il dolore di Maria privata dell’amore di quello che viene chiamato Nostro Signore, al quale dice: «Non fossi stato figlio di Dio / t’avrei ancora per figlio mio».

Il testo riporta delle similitudini con l’intenso Pianto della Madonna (nota anche come Donna de Paradiso), capolavoro del poeta medievale Jacopone da Todi. Probabilmente De André ricavò il verso di Ottocento «Figlio, figlio, povero figlio, eri bello bianco e vermiglio» dalla stessa lauda drammatica del poeta umbro: «Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio». Una citazione simile, è presente anche nel brano di De André Si chiamava Gesù: «Di Maria dicono fosse il figlio sulla croce sbiancò come un giglio».

La figura materna, inoltre, ritorna seppur concisamente in canzoni come Al ballo mascherato, con la madre del protagonista «che si approva in frantumi di specchio» e che fa del martirio il proprio mestiere e la propria vanità; la lavandaia di Canzone del padre seppellita «in un cimitero di lavatrici / avvolta in un lenzuolo quasi come gli eroi»; la madre che non accetta di buon grado il genero, cantata nell’autobiografica Giugno ’73; la madre di Cantico dei drogati, alla quale il figlio non riesce a rivelare quanta paura gli faccia la sua condizione di tossicodipendente; la madre che in Amico fragile confessa di aver perso due figli ed è così accusata da un De André arrabbiato e sarcastico, di essere una donna piuttosto distratta; la madre di Volta la carta che è nata ridendo e ha un «figlio infedele che gli inzucchera il naso / di torta di mele», e, nella medesima canzone, Madamadoré che «ha perso sei figlie / tra i bar del porto e le sue meraviglie»; la madre premurosa che nella canzone Sally consiglia al figlio di non andare a «giocare con gli zingari nel bosco» e che non vedrà più il ragazzo tornare a casa. Lo stesso De André racconta: «Mi ricordo che, quando ero bambino, mia madre poverina, forse pensando in maniera calvinista, credeva che i poveri fossero delle persone cattive e mi diceva: “Non andare a giocare in strada perché ti sporchi e impari il dialetto, e poi va a finire che diventi un delinquente”[16]».

C’è un aneddoto divertente legato a quest’ultima canzone: durante un concerto con la PFM, infatti, Faber intimidito dalla folla, incappò in un lapsus e cantò: «Mia madre mi disse non devi giocare / con gli svizzeri nel bosco».

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L’amante

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Il canzoniere di Fabrizio De André, come già detto, ruota intorno a vari temi esistenziali, tra i quali quello che risulta essere il motore di tutte le azioni – positive o meno – dell’uomo: l’amore. Protagonista (quasi) assoluta delle canzoni d’amore è indubbiamente la donna, vista nelle sue sfaccettature caratteriali che vanno dalla freddezza alla passione, dalla nostalgia all’adulterio. Sembra talvolta di scorgere – tra le figure femminili descritte da De André – le donne che popolano i canzonieri dei poeti elegiaci, con il relativo strascico di pena e tormento che segna le storie d’amore più tumultuose.

Nella canzone Per i tuoi larghi occhi, la protagonista viene descritta come una donna fredda e cinica che non si riduce mai a piangere per non frantumare quella corazza di cinismo che le avvolge l’anima. Quei larghi occhi così freddi riportano a Baudelaire e in particolare a La Beauté (La bellezza), i cui versi dicono: «Mes yeux, mes larges yeux aux clartés éternelles!» («sono i miei occhi, i miei grandi occhi dalla luce immortale!»). Gli occhi gelidi e chiari della donna, esprimono tutta la loro sprezzante indifferenza in presenza di un uomo innamorato che, nonostante nel petto dell’amata batta un cuore gelido come la neve, attende il suo ritorno.

In La ballata dell’amore cieco (o della vanità) troviamo un archetipo classico della letteratura, in particolare di quella novecentesca: la femme fatale, cantata, tra gli altri, anche dal sopra citato Baudelaire. Protagonisti della ballata, sono due amanti. Lui, uomo leale e innamorato a tal punto da essere soggiogato dalla durezza della donna amata; lei, appunto, tanto crudele e perversa da chiedergli una sfilza di sadiche prove d’amore: dal cuore della madre da dare in pasto ai cani, fino alla morte dell’amante in sèguito al taglio delle vene. Ma nell’epilogo della storia, a uscire sconfitta è proprio la vanità, rappresentata metaforicamente dalla donna che inizialmente gioisce davanti ai rivoli di sangue dell’uomo che «s’era ucciso per il suo amore». La gioia, però, ben presto si tramuta in sgomento, non appena la donna vede l’uomo morire innamorato e felice per aver assecondato il suo volere e a lei non resterà altro che «il sangue secco delle sue vene».

Questo brano è ispirato a una poesia del poeta francese Jean Richepin che ha un finale diverso e ben più doloroso: l’amante, infatti, mentre corre a portare il cuore della propria madre all’amata, inciampa. Il cuore, ricoperto di sabbia, inizia a parlare e il suo primo pensiero sarà di una tenerezza straziante: «Ti sei fatto male, figlio mio?».

Un’altra donna “emancipata” è Barbara, che sfoglia amori come se fossero i petali di una margherita, rimandando sempre l’incontro con un amore sincero e duraturo, poiché «lei sa che ogni letto di sposa / è fatto di ortica e di rosa». Consapevole di questo, Barbara non si cura degli effetti che il suo ardore sregolato provoca negli uomini che s’innamorano di lei e che la sua frivolezza spinge infine all’odio. D’altronde «per ogni amore che se ne va», la giovane donna è convinta che «un altro petalo fiorirà».

Il fannullone nasce dalla penna di Fabrizio De André e Paolo Villaggio come un inno alla libertà individuale. Il protagonista vaga tutta la notte per le strade a raccontare favole alle poche persone che incontra. La sua vita da bohemien è intrecciata a quella di una donna trascurata e abbandonata nella casa ormai ridotta a «un attaccapanni a cui appendere la giacca». In questa canzone abbiamo un rovesciamento del cliché della donna che attende sconsolata il ritorno del marito al focolare domestico: la moglie del fannullone, infatti, trova conforto tra altre braccia che le offrono la tenerezza di cui ha bisogno. Questo brano ha molte affinità con La mauvaise réputation di Brassens, che parla proprio di un uomo che viene criticato dalle “persone perbene” per la sua inerzia: «Eppure non danneggio nessuno / seguendo la mia strada di piccolo uomo tranquillo».

Anche Le passanti è un testo ispirato da una canzone che Brassens incise nel 1972. A sua volta, lo chansonnier francese, per la sua composizione si ispirò ai versi del poeta-minatore francese Antoine Pol, Les passantes. Si può notare inoltre un’affinità con Baudelaire, che nella sua raccolta Les fleurs du mal pubblica una poesia dedicata À une passante.

In questa canzone De André canta una felicità agognata, ma mai realmente raggiunta: quel lampo di passione provocato dalla vista del sorriso, degli occhi e delle labbra di una donna sconosciuta. La passante può essere considerata come l’allegoria dell’occasione persa, dell’attimo non colto: è il desiderio ardente di un piacere visto di sfuggita ma mai conquistato. Ognuna di queste donne sfuggenti è vista come un desiderio inappagato: una «donna pensata come amore». Tutto il testo gioca attorno a un’assenza: la mancanza di tempo, un’immagine sfocata, il sorriso non scorto ma vagheggiato «che tu le hai deciso in un vuoto di felicità», la mano non sfiorata, baci non dati e occhi mai più rivisti. Il vuoto lasciato dalle passanti sarà sostituito con una nuova immagine d’amore ed esse saranno «presto una folla distante / scavalcate da un ricordo più vicino» e resteranno solo una reminiscenza lontana, nel rimpianto di non essere riusciti a trattenerle un attimo di più.

Anche in Valzer per un amore al tema sentimentale s’interseca una tematica frequente nell’opera di Fabrizio De André: l’inesorabile fuga del tempo e dell’amore. Il protagonista invita l’amata a vivere intensamente e subito il loro amore che, come tutte le cose è effimero («vieni adesso finché è primavera»). Se indugerà ulteriormente, all’amata non rimarrà altro che ascoltare le canzoni a lei dedicate e sorprendersi nel sentir lodare l’avvenenza posseduta un tempo e che non tornerà mai più. Ma il ricordo non servirà a colmare l’assenza lasciata dall’uomo amato e nessuno più canterà la sua bellezza, perché tempus fugit, «ma più ancora del tempo che non ha età / siamo noi che ce ne andiamo». Alcuni versi del brano di De André ricordano il sonetto del poeta francese Pierre Ronsard Quand vous serez bien vieille del 1578: «Ricanterete le mie poesie, meravigliando: Ronsard mi celebrava al tempo ch’ero bella».

Lo stesso tema della precarietà dell’amore si può ritrovare in La canzone dell’amore perduto[17], laddove la caducità dei sentimenti è rappresentata con il concetto della stagione dell’amore (la primavera) che si conclude, ed è raffigurato dalle rose che appassiscono per segnare, appunto, l’ impietoso fluire del tempo. Quando «l’amore che strappa i capelli / è perduto ormai» restano solo poche tenere effusioni e gli amanti avranno soltanto rimpianti.

Amore che vieni amore che vai, composta sulle note del concerto in Re Maggiore del compositore tedesco George Philipp Telemann, parla ancora una volta di un amore finito e del rimpianto che l’amata proverà nel ricordare le parole d’affetto scambiate e la richiesta di un bacio e poi «volerne altri cento», che richiamano alla mente quei «basia mille / deinde centum / dein mille altera» che Catullo[18] desiderava dall’amata Lesbia, protagonista del suo canzoniere. Il brano si conclude con l’affermazione dell’esistenza della cosiddetta “stagione dell’amore” che induce gli amanti a prendersi e lasciarsi all’improvviso: «Io t’ho amato sempre / non t’ho amato mai / amore che vieni / amore che vai».

Secondo recenti sondaggi, questo è risultato il brano di De André più amato dagli ascoltatori e in occasione del decennale della morte di Faber, è stato trasmesso contemporaneamente da uno smisurato numero di radio italiane, su proposta del conduttore televisivo Fabio Fazio che, lo stesso giorno, insieme a Dori Ghezzi, ha condotto una puntata speciale di Che tempo che fa interamente dedicata a Fabrizio De André.

Amore che vieni e amore che vai è anche il titolo utilizzato dal regista Daniele Costantini per il suo film (uscito nel 2008) liberamente tratto dal romanzo Un destino ridicolo[19] che De André scrisse con Alessandro Gennari (scrittore e psicanalista). C’è molto De André in questo libro e ci sono soprattutto i personaggi delle sue canzoni (prostitute, papponi, anarchici, perdenti) e i suoi due “luoghi del cuore”: Genova e la Sardegna.

Il film di Costantini, girato tra i caruggi di Genova, è stato presentato al Festival di Roma e ha lasciato uno strascico di polemiche relative alla sua qualità artistica. Tralasciando ogni sorta di disputa, lasciamo parlare De André: «Spesso mi incazzo, ad esempio quando vedo riprodotto in pellicola un libro letto, perché quasi mai riesce a darti le stesse emozioni»[20].

Il re fa rullare i tamburi, infine, è una storia tragica che si fa denuncia: il re dimostra potere assoluto sui suoi sottoposti scegliendo tra le dame di corte la sua preferita, non curandosi del fatto che la dama possa essere già impegnata. Il monarca cantato da De André, una volta scoperto che la donna prescelta è la moglie del marchese, non si fa molti scrupoli nel confermare la sua scelta e consolare il nobile assicurandogli che la donna «sarà la favorita» e quindi accolta cordialmente nel palazzo reale. Il marchese è costretto a concedere la propria donna senza protestare, per la subalternità nei confronti del sovrano. In questo contesto di supremazia e sottomissione, a risultare sconfitte sono le due figure femminili: la regina e la marchesa. Ma sarà quest’ultima ad avere la peggio, poiché morirà uccisa dal profumo letale dei fiori che la regina – spinta dalla gelosia – ha colto per lei.

Fabrizio De André, come abbiamo visto, amava dedicare gran parte delle sue canzoni alle compagne di viaggio conosciute, amate, odiate o appena intraviste, con le quali «valeva la pena / di perderci un secolo in più»[21].

[1] M. Borsani - L. Maciacchini, Anima salva…, cit., pp. 140-141.

[2]Creuza de mä...

[3] Presentando il brano allo stadio di Guidonia, 22/9/1991.

[5] Frase che campeggia tuttora nella via resa celebre da De André.

[6] U. Saba, Città vecchia, da Trieste e una donna, 1910-12.

[7] L. Viva, Non per un dio ma nemmeno per gioco, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 115.

[8] Sentimento di partecipazione intima dell’uomo alla realtà naturale.

[9] Fu pittore e illustratore in Inghilterra durante l’età vittoriana e fu cofondatore della confraternita dei preraffaelliti. L’Ofelia, un dipinto del 1852, è senz’altro una delle sue tele migliori ed è chiaramente ispirata all’Amleto di Shakespeare. L’Ofelia di Millais, proprio come la protagonista della canzone di De André, è rappresentata priva di vita su un corso d’acqua.

[10] R. Bertoncelli, Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, Firenze, Giunti, 2004.

[11]Dormono sulla collina.

[12]Nancy.

[13]Si chiamava Gesù.

[14] Così disse De André presentando La buona novella durante il tour del 1997, cit. da www.giuseppecirigliano.it.

[15] L. Nissim in Fabrizio De André. Accordi eretici, Milano, Euresis Edizioni, 1997, p. 126.

[16] G. Harari - F. Di Cioccio (a cura di), Fabrizio De André & PFM. Evaporati in una nuvola rock, Milano, Chiarelettere, 2008, p. 202.

[17]Tutto Fabrizio De André…

[18] Catullo, Carmina, LXII.

[19] F. De André - A. Gennari, Un destino ridicolo, Einaudi, Torino, 2005.

[20] In D. Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, Edizioni Associate, Roma, 1999, p. 45.

[21] F. De André, Le passanti, da Canzoni (Produttori Associati, 1974).