Parigi, 1930
Ho le mani sporche di sangue.
Non in senso figurato. Intendo proprio alla lettera. Sangue sotto le unghie. Incastonato nelle morbide valli tra le dita. Fili scarlatti, più lucidi della vernice, gocciolano da me sul tappeto persiano, rovinandolo. Li fisso confusa, la mente inceppata.
Da dove viene?
Alzo la testa e subito un martellio infernale mi riecheggia tra le orecchie, un tamburo che batte in una stanza vuota.
Alzo la testa?
Perché sono coricata sul pavimento? Mi metto a sedere, il cuore che parte al galoppo, e aspetto che la stanza smetta di girarmi tutt’intorno mentre mi sforzo di ricordare cos’è accaduto. Solo che, al posto della memoria, c’è un buco nero. Scuoto la testa per farlo sparire ma il dolore mi invade la mente e, quando infine guardo di nuovo, il buco è ancora lì. Più grande. Sempre più scuro. Una pozza d’inchiostro dalla superficie lucente. Sento il panico che mi si srotola dentro.
A fatica mi metto in ginocchio e mi ritrovo a guardare pareti tappezzate di libri. Il cuore beccheggia per la felicità. Sono a casa. Nello studio di papà. Li conosco bene, questi libri, adoro questi volumi rilegati in pelle, Victor Hugo, Zola, Maupassant e il mio preferito, Alexandre Dumas. Le copertine recano le impronte sudaticce delle mie dita, le pagine sono state testimoni delle mie lacrime. Sono al sicuro, a casa, a Parigi, anche se per qualche ignota ragione me ne sto tutta rannicchiata addosso alla grande scrivania in quercia di mio padre.
Forse sto ancora dormendo. È un incubo, ecco tutto. Chiudo gli occhi in attesa di svegliarmi e il martellio nelle orecchie si fa più sordo, più fioco, ma prendo consapevolezza di una zona dolorante sul lato sinistro della testa. La sfioro. I capelli sono umidi. Gli occhi si spalancano a osservare le dita, ma so già cosa vedrò. Altro sangue. Non sto dormendo.
Mi trascino in piedi, lascio impronte cremisi sul piano della scrivania lucidato a cera mentre mi ci aggrappo. Papà non ne sarà felice. Il panico monta in un gorgoglio, apro la bocca per gridare. È allora che vedo le scarpe. Sono le sue scarpe, le scarpe di papà. Calzature eleganti e robuste, nere, il cuoio tanto morbido che sembra ricavato da agnelli appena nati.
L’urlo mi muore in bocca.
Ci sono dei piedi nelle scarpe. Scomposti, abbandonati sul pavimento. Vedo una striscia di calzino nero sopra ciascuna scarpa prima che le caviglie scompaiano dietro lo spigolo della scrivania.
«Papà.» La voce mi esce in un sussurro.
Non c’è risposta. Mi trascino fino al bordo del mobile e vedo il corpo di mio padre disteso sulla schiena, gli occhi grigio chiaro vitrei e ciechi. Mi si ferma il cuore. Il rumore nelle orecchie diventa un ruggito, è come se mi avessero scorticato le retine. Papà ha un tagliacarte che gli sbuca dalla gola, la camicia bianca ha il colore delle mie mani.
Ho paura. Paura di me stessa. Paura di quello che ho dentro. Sono sola in una stanza chiusa con il cadavere di mio padre e so di averlo ucciso io.
Nella mano senza vita papà regge un fermacarte, una piramide di ottone che ha portato a casa dall’Egitto anni fa. Una faccia è striata di sangue. Il mio sangue. Lo so, anche se non ho idea di come faccio a saperlo. Mi tocco di nuovo i capelli, i ricci impiastricciati da quella linfa viscosa. Tasto la slabbratura irregolare sul cuoio capelluto, aperto in due come la buccia di una pesca.
Cado in ginocchio accanto a papà. È morto ma continua a tenere le dita strette intorno al fermacarte, come se ancora stesse cercando di difendersi da me. Gli premo sulla camicia, tento di insufflare a forza l’aria nei polmoni pur sapendo che è inutile. A cosa ti serve l’aria quando hai una voragine nella trachea?
Non riesco a respirare. È come se una morsa d’acciaio mi stesse stritolando mentre appoggio la guancia sul suo torace possente in cerca del battito. La camicia bagnata è calda sulla mia pelle. Alzo la testa in fretta per scrutargli di nuovo il viso, bramo un guizzo di vita. Un volto senza vita non è un volto. È una maschera.
Sto fissando la maschera di papà. La stessa fronte ampia e quelle arcate sopracciliari forti e dispotiche che mi spaventavano; la pappagorgia e i capillari rotti del gaudente. Ci sono ancora tutti. Tutti gli inconfondibili lineamenti del sovrano di questa casa. Le lacrime mi offuscano lo sguardo, eppure vedo chiaramente che l’uomo la cui parola era legge non è più parte del corpo che giace scomposto sul parquet, quel parquet che lui insisteva venisse lucidato tutti i giorni, domeniche escluse. Ciò nonostante mi chino su di lui, premo la guancia sulla sua.
Alle mie spalle sento lo scatto della porta, ma non mi giro. Passi leggeri varcano la soglia. Il battente si richiude. So chi è anche senza bisogno di alzare la testa, nello stesso modo in cui la mia mano destra sa perfettamente cosa sta facendo la sinistra. È mia sorella. In un’unica violenta inspirazione risucchia tutta l’aria dalla stanza, poi viene a fermarsi proprio addosso a me.
«Cos’hai fatto?» Non grida. Il tono basso è peggio, di gran lunga peggio di un urlo. «Oddio, Romy, cosa hai fatto?»
«Ho ucciso papà.» Solo un sussurro, ma basta a mandarmi in frantumi. D’un tratto sono paralizzata dal cordoglio. Non riesco a muovermi. Non riesco a parlare. Non riesco a pensare.
Perciò lo fa mia sorella per me.
«Perché l’hai fatto?»
Scuoto la testa.
«Hai diciassette anni. Ti manderanno in prigione, dovrai affrontare la ghigliottina. Esecuzione pubblica, fuori dal carcere di Saint-Pierre.»
Le sue parole sono lente, scandite con cura, vuole essere certa che io capisca.
Nel terribile silenzio che segue, sento che il suo battito è rapido quanto il mio. Le dita mi artigliano la spalla, scavano a fondo. Badando a evitare la pozza di sangue sul pavimento in quercia, mi tira in piedi. E dopo, fa quello che io sono riuscita a evitare finora: fissa il tagliacarte conficcato nella gola di papà. Mi guarda le mani, non ho bisogno di chiedere quali immagini le stiano scorrendo nella mente. Si sfila il cardigan in cachemire azzurro, il suo preferito, e se ne serve per pulire l’impugnatura d’argento del tagliacarte. Ancora e ancora, lei sfrega forte e io vedo i margini vermigli della ferita slabbrarsi. Vorrei implorarla di smettere, ma non lo faccio.
Alla fine si tira indietro, le braccia rigide, l’espressione rigida, ma non appena faccio per avvicinarmi lei si scosta e prende a strofinare la scrivania. Elimina ogni traccia del mio passaggio. Energica, precisa. Poi rivolge l’attenzione alle mie mani, e le pulisce meglio che può. Il cardigan azzurro è diventato viola, sussurro il suo nome, voglio che mi guardi in viso, non lo fa. Si acciglia e studia il fermacarte annidato nella mano di papà.
Mi muovo. Per la prima volta da quando mi ha staccata a forza dal fianco di nostro padre, prendo vita. La imito. Mi sfilo il maglioncino lilla dalla testa e strappo la piramide dalle dita inerti di papà. La strofino forte con il lato pulito del maglione, ma il sangue che mi è colato dalla testa è filtrato nei solchi dell’ottone e si rifiuta di venire via. Corro al mobile bar in ebano che si trova presso la finestra, la caraffa del miglior cognac di papà è in bella mostra. Ho una gran voglia di berlo, di affogarci, ma invece rovescio il liquido ambrato sul fermacarte per sciacquare via anche le ultime sacche di sangue e sfrego, sfrego come una furia.
Soddisfatta, rimetto la piramide sulla scrivania. Al suo posto. Cielo, che sollievo. Agire. Fare qualcosa, qualunque cosa. Vedere che le mani mi funzionano. Sapere che non sono morta. Ancora.
Non mi chiedo se ciò che sto facendo è sbagliato.
Mia sorella socchiude appena la porta, sbircia l’atrio piastrellato di bianco e nero, mi prende per un braccio e mi trascina fuori dallo studio, richiudendo l’uscio con il piede. Nella mia mente è il tonfo sordo di un coperchio che si chiude su una tomba, condannando papà all’oscurità eterna. Non riesco a indurmi ad abbandonarlo, ma mia sorella mi strappa via e poi su per le scale, di volata.
È forte, mia sorella Florence.
La mia gemella.
«Non riusciremo a farla franca.» Ne sono sicura.
«Zitta, Romy. Certo che ce la faremo.»
Sono in piedi nella vasca da bagno e Florence mi lava innaffiandomi come fossi un cane inzaccherato. La reciproca nudità non ci ha mai creato problemi. Forse perché abbiamo trascorso nove mesi allacciate così, nel grembo di mamma. Esco dalla vasca e lei mi asciuga tamponando con gentilezza, la ferita la preoccupa, il gonfiore sulla testa, anche se la rassicuro, le dico che non è niente. Prima mi ha lavato via il sangue dai capelli e ora mi tiene premuta una salvietta fredda sullo squarcio per almeno dieci minuti, per arginare l’emorragia. Schiaccia molto forte, ma io non emetto fiato. Mi merito il dolore.
Si allunga per prendermi un cambio d’abiti pulito nell’armadio e vedo che le trema la mano. La raggiungo. Per un breve istante ci abbracciamo, di nuovo allacciate. Succede di rado. È strano ma, nonostante siamo sempre a toccarci – sfioramenti di spalle, buffetti sulle braccia, gomitatine nei fianchi –, questo gesto è raro. Non ci abbracciamo, né ci scambiamo baci sulle guance, nessuna dimostrazione d’affetto plateale. Ci sembrerebbe una cosa sbagliata. Come abbracciare o baciare se stessi. Ma l’amore è qui, tra noi, ci lega come un cordone ombelicale e lo accettiamo con la stessa naturalezza con cui accettiamo il fatto di essere entrambe bionde e ricce.
Florence mi fa sedere sul letto. Ripiego le gambe nascondendole sotto di me proprio come vorrei poter nascondere tutto ciò che è rimasto a giacere al piano di sotto. Mia sorella mi si arrampica accanto, mi avvolge la coperta intorno alle spalle, ed è attraverso le sue dita che ne percepisco l’agitazione. Non dal viso impassibile. Non dal tono pratico.
«Allora. Dimmi cos’è successo. Parla in fretta.»
Mi inchioda addosso lo sguardo. Glielo restituisco, un’occhiata risoluta. Le nostre facce si assomigliano, ma non siamo monozigotiche. Lei ha grandi e rotondi occhi azzurri che sanno come scioglierti il cuore, occhi caldi e seducenti, occhi da cui non vorresti mai staccarti. I miei sono ambra torbida. Allungati e sottili. Occhi da gatta, li chiama mia sorella. Ho anche gli artigli. Il viso di Florence è più esile del mio, più delicato. Gliel’ho sempre invidiato, però abbiamo lo stesso naso dritto, la mascella decisa. E anche bocche uguali, troppo grandi per le nostre facce. Al momento, la sua è tesa in una linea sottile. È nata solo venticinque minuti prima di me, ma a volte sembrano di più. Molti di più.
Mi sforzo di parlare con calma. Non ci riesco. Sento le mie parole tremare, vorrei rubarle all’aria e sostituirle con altre nuove, più salde.
«Non ricordo cos’è successo. Non ricordo niente.»
«Devi.»
«Non ci riesco.»
«Merde!»
Florence non impreca mai. Pur avendo appena ammazzato mio padre, sono scandalizzata. Protende il viso in avanti, quasi lo incolla al mio, e mi afferra una manciata di riccioli. Non con cattiveria. Ma con decisione. Mi tira ancora più vicina, e vedo le nere pagliuzze dell’ira incastonate nell’azzurro chiaro delle iridi.
«Non mentire.»
Una vampa di dolore al calor bianco mi guizza alla base del cuore. Noi due non ci mentiamo mai. Ai genitori, sì; agli insegnanti, bien sûr; al sacerdote della chiesa gesuita Saint-Paul-Saint-Louis, ovviamente. Perfino a Dio in persona. Ma l’una all’altra, mai.
«Te lo giuro, non ricordo niente. Mi sono risvegliata sul tappeto nello studio di papà e l’ho trovato… così. C’era sangue sulle mie mani. Perciò devo averlo…» Non riesco a dirlo. Non ce la faccio.
Lo dice Florence per me. «Pugnalato.»
Annuisco.
«Il fermacarte?»
«Papà l’ha usato per colpirmi.»
«Perché?»
«Non lo so. Non rammento niente.»
«Questo non ti salverà.» Tanto pacata. Tanto dolente. La voce di mia sorella piange per me. «La polizia ti arresterà.»
«Aiutami» dico, in un sussurro.
Appoggia la fronte alla mia. I suoi capelli che profumano di erba appena tagliata fanno scattare un ricordo. Io, in piedi nell’atrio, il sole che si riversa dentro dalla porta d’ingresso aperta e reca con sé profumo di prati rasati di fresco. La voce di mamma che chiama dalla cucina, chiedendo che qualcuno vada a raccogliere le rose in giardino. E l’ombra di un uomo sulla soglia.
Sparisce in un lampo. La ferita che ho sulla testa pulsa.
È come se Florence riuscisse a leggermi nel pensiero. «C’era Roland. Lui e io siamo andati in giardino a raccogliere le rose per Maman. Lo ricordi?»
Mi raddrizzo. «Sì.»
«Nient’altro?»
«No, dopo questo, niente. È tutto…» Batto forte le palpebre. «Andato.»
Mi guardo in giro per la stanza. È sobria. Molto più di quella di mia sorella, che è un tempio dedicato al Balletto dell’Opéra di Parigi nonché il regno del tulle rosa. La mia è disadorna. Chiari mobili moderni, con gran disgusto di mamma, una semplice spazzola in legno sulla toeletta e un’unica fotografia incorniciata sulla parete. Immortala la prima donna al mondo che ha pilotato un aereo, Raymonde de Laroche, ai comandi del suo traballante Voisin nel 1909, a Parigi. Osservo intensamente ogni particolare, mi imbevo dei colori e delle forme, la lucentezza della coperta in raso, il modo in cui la maniglia d’ottone della porta cattura la luce. Potrei non rivederli mai più.
Florence mi prende la mano e la accoglie tra le sue, la tiene stretta in grembo, sull’elegante gonna color crema. La sento inspirare a fondo, come fa quando sta per compiere uno dei suoi tuffi in piscina. Inspirazioni brusche, rapide.
«Romy.» Gli occhi sono accesi, mi guizzano addosso. «So cosa fare. Diremo che eri in giardino con noi. Tutti e tre, Roland, tu e io. A raccogliere fiori.»
Sono impietrita. Dalla menzogna. Lo sfacciato imbroglio che le cola dalle labbra, lo sento attorcigliare le dita intorno alle volute della mia mente, dolci e seducenti viticci che mi paralizzano. Non posso muovermi, non riesco neppure a batter ciglio.
«Allora?» Mi porge un sorriso, ma è sghembo.
Strappo via i viticci e prendo il suo dolce viso tra le mani.
«Saresti disposta a farlo? Per me?»
«Naturalmente.»
«Se ci scoprono, finirai in carcere come complice.»
«Non ci scopriranno.»
«E Roland?»
Leva al cielo i bellissimi occhi azzurri. «Oh, Roland farà qualunque cosa gli chieda.»
Il cuore mi batte forte in petto. Apro la bocca per gridare sì, sì, sì. Menti per me. Salvami la vita. E invece ne escono parole diverse. «E il giardiniere?»
«Scusa?»
«Il giardiniere, Karim. Vi ha visto?»
La lingua le saetta tra le labbra, e so che sta pensando di mentire, ma non lo fa. Non con me.
«Sì. Ci ho parlato. Stava potando la siepe.»
«Allora niente da fare. Sa che non ero lì. La mia testa rotolerà.»
Mi sfioro il collo, una bianca colonna affusolata che la lama obliqua della ghigliottina affetterà come sedano. Ho le punte delle dita gelate, ma me ne servo per tracciarmi una linea sulla gola.
«Povero papà. Povera mamma. Mi dispiace.» Parlare mi sfianca.
Florence mi schiaffeggia. Non forte. Quanto basta. «Ascoltami, Romy. Siamo andate insieme a prendere le rose per Maman, e poi io gliele ho passate dalla finestra della cucina. Sei stata con me in ogni istante. Poi, tutti e tre insieme…»
Tace, la fronte aggrottata, pensando a un alibi.
«Ci siamo stesi sull’erba all’ombra del salice» propongo.
«E abbiamo parlato di…?»
«Joséphine Baker.»
Florence sorride a denti stretti. «Sì, certo. Va bene. Del suo sensuale balletto nella Sirena dei tropici.» Due fiamme scure le si sono accese sulle guance, gli occhi sfavillano. «Mi hai sentito, Romy?» È tutta grinta. «Hai sentito cosa ho detto? Sei rimasta con noi tutto il tempo, poi Roland se n’è andato e tu e io siamo venute su a ripulirci dalle macchie d’erba.»
«E Karim? Dov’era?»
«A lui non pensare.»
«Dirà ai poliziotti che non ero con voi.»
«Non gli crederà nessuno.» Florence scivola giù dal letto. «Andiamo, dobbiamo seppellire i vestiti sporchi di sangue prima che arrivino.»
Le afferro un braccio e la ritrascino giù. «No, Florence. Roland forse mentirà anche, per te, ma Karim non lo farà.»
Un urlo lacera il silenzio della casa e sfreccia su per le scale. Mi si rizzano i peli delle braccia, la pelle del collo comincia a formicolare, basta, ci siamo.
«Karim non mentirà alla polizia per salvarmi. Dirà loro che non ero con voi.»
«Ma la sua testimonianza sarà irrilevante. Perché io giurerò che da dov’era non poteva vederti.»
«Ma hai appena detto che stava potando la siepe.»
«Ah, sì? Devo essermi sbagliata.»
«Cosa?»
«Non l’ho visto. Ora che ci penso, Karim non era in giardino.»
Mi acciglio, a disagio. Lo chiedo con crescente circospezione. «E dov’era?»
«Nello studio. Con papà.»
La fisso. Per un lungo istante, non capisco. O è solo che non voglio capire? Florence affonda gli occhi nei miei e mi scuote forte la spalla.
«Capito, Romy?»
Le afferro il polso e sento che il suo cuore pulsa rapido quanto il mio. Una pozza del sangue di papà sembra spalancarsi ai miei piedi, e io la scavalco senza la minima esitazione. Ci vedo fluttuare il volto di Karim, un viso allungato, scuro, occhi tristi e bocca cortese, ma distolgo lo sguardo.
«Sì.» È un bisbiglio, destinato unicamente alle orecchie di mia sorella. «Ho capito. Ero in giardino. Con te. E Roland. Adesso ricordo. Karim era rientrato in casa.»
Ormai è chiaro: finiremo all’inferno.