8

Il sesso fu furibondo. Con uno sconosciuto le piaceva così, selvaggio, sfrenato. Con uno sconosciuto non aveva niente da perdere.

Nell’istante in cui entrarono incespicando nell’appartamento di lui, di fronte alle Galeries Lafayette, su boulevard Haussmann, le mani erano già in azione. A strappare vestiti di dosso, a cercare la pelle. Le labbra di lui dure sulla sua bocca, le dita che le cingevano la gola, forte, facendole male. Anton maledisse i pantaloni di Romaine che ostacolavano il suo desiderio, ma lei non gli permise di strapparli. Ne uscì con calma, ormai nuda.

Subito quelle stesse mani dalle lunghe dita che si erano dimostrate tanto capaci con le carte iniziarono a occuparsi di lei con pari abilità. Là dove toccavano, accarezzavano, stuzzicavano, la pelle bruciava. La bocca di Anton le si chiuse sul seno facendole scorrere dentro il fuoco, le dita si tuffarono tra i capelli. Bloccandola. La lingua dell’uomo le lambì il capezzolo in cerchi concentrici, seguì la curva di una mammella fino all’incavo della gola. Le affondò i denti nella clavicola e Romy sentì il proprio urlo, non avrebbe saputo dire se di dolore o desiderio.

Romaine si alzò dal letto, gettò i cuscini sul pavimento e lo attirò a sé, per poi metterglisi a cavalcioni. Il sangue le rimbombava nelle orecchie, tacitando le voci che le avevano sussurrato per tutta la giornata. Senza la minima inibizione, lei e Anton si baciarono, si graffiarono, si divorarono, incollati dal sudore e dal bisogno, quasi cercassero di scorticarsi a vicenda.

Alla fine, i corpi tremanti e in debito d’ossigeno, il piacere che ancora le pulsava nelle vene, Romy alzò la mano e con dolcezza gli accarezzò la guancia. Sentiva il raschio della barba contro il palmo, l’odore di tabacco nero nel suo alito. Era una persona. Non solo un baro a carte. Non solo una droga di cui aveva bisogno per tirarsi fuori dal mondo, anche solo per pochi frenetici minuti. Si riarrampicò sul letto e lui la seguì. Sorprendendola, le cinse la vita con le braccia e la tenne stretta.

«Sei una pessima pokerista.» Con una risatina, le baciò l’orecchio e crollò addormentato all’istante.

Romaine rimase ad ascoltare il ritmo pacato del suo sonno e sorrise nel buio. Si sentiva riconoscente. La pelle ancora calda e morbida, il battito che rallentava, si ripeté le parole che si era già detta un migliaio di volte.

Di sicuro, questa notte dormirò. Di sicuro, questa notte i sogni non verranno.

Il sogno la raggiunse, violento come una bufera in montagna. La flagellò. La sferzò. La lasciò senza un posto in cui andare a nascondersi. I libri la fissavano, la fissavano sempre, muti e polverosi testimoni del suo crimine. Lo studio di suo padre era più piccolo, più soffocante, così angusto che sembrava stritolarla. Le ossa le facevano male, le sentiva scrocchiare e scricchiolare a ogni movimento, come se ci fosse ghiaccio al posto del midollo.

Il tappeto era lì, identico.

La pozza di sangue era lì, identica.

Lei però era nuda e tremava. In ginocchio. Sette figure in uniforme incombevano su di lei, togliendole l’aria, bloccando la luce, e le loro accuse la tempestarono fino a quando comprese che i timpani le si sarebbero sfondati e il rimorso nascosto nella sua mente si sarebbe rovesciato di fuori riversandosi sul tappeto sotto forma di cenere grigia e allora l’avrebbero visto tutti. Già aveva frammenti rivelatori sulle braccia, sulle cosce. Sulle labbra. Cercò di spazzarli via.

«L’hai ucciso.»

«No!»

«Sgualdrina.»

«No!»

«Macellaia.»

«Cagna.»

«Putain

Nel sogno scosse freneticamente la testa, i pensieri che andavano a sbattere contro le pareti del cranio.

No. No. No.

Le tenebre intorno a lei si erano addensate. Gli uomini in uniforme avevano risucchiato anche l’ultimo raggio di luce dalla stanza. Qualcuno singhiozzava. Abbassò gli occhi per nascondere la propria colpa agli ufficiali, ma nel buio vide che la sua pelle nuda luccicava di freghi scarlatti. E una mano – la sua – si alzava e si abbassava. Si alzava. Si abbassava.

Davanti a lei giaceva il corpo del padre, le orbite nere e vuote, e lei lo stava pugnalando in petto con una baionetta. Ancora e ancora. Non riusciva a smettere.

Romy si districò a forza dal sonno, ansimando e tremando, il cuore in gola. Per un terribile istante non capì dove si trovava, chi era la figura accanto a lei nel letto. Aveva la mente in subbuglio. Il chiaro di luna filtrava tra le stecche delle persiane dando vita a lingotti d’argento sulle lenzuola aggrovigliate, se avesse allungato la mano se ne sarebbe potuta appropriare.

Scattò su a sedere, piegò le gambe e nel buio si abbracciò gli stinchi, il mento calcato sulle ginocchia per impedire ai denti di battere. Era furibonda. Furibonda con se stessa. Con quell’odioso sogno. Persino con l’uomo al suo fianco, per non essere stato capace di tenere a bada l’incubo.

Scivolò fuori dal letto e a passo felpato si avvicinò ai vestiti, un mucchio nero sul pavimento, accanto alla finestra. Li raccolse, e alla luce gelida della luna vide il sacchettino di cuoio che Anton portava sotto la camicia. La pelle di Romy era madida di sudore ma la bocca le si seccò alla vista del sacchetto. Gettò un’occhiata al letto. Nessun movimento.

Con un guizzo rapido della mano sciolse i legacci, sfilò i suoi duecento franchi – non uno di più, non uno di meno – dal rotolo di banconote e, tenendo i vestiti stretti sotto il braccio, si affrettò a uscire dall’appartamento. Sul pianerottolo l’aria le morse la pelle, insieme a un lievissimo bagliore che si irradiava dalla lampadina del piano di sotto e a un vago fruscio che non riuscì a identificare. Era come se le pareti stessero sussurrando. Non aveva idea di che ora fosse. Infilò i pantaloni, la camicia e le scarpe, si passò una mano tra i capelli e solo allora si accorse dell’uomo appoggiato alla ringhiera del pianerottolo del piano di sopra. Era al buio, ma Romaine riuscì a ravvisare l’ovale pallido del viso. Era voltato verso di lei. L’aveva guardata mentre, nuda, si rivestiva.

Le lanciò una voce. «Posso pagare. Ho i soldi.»

Una banconota svolazzò giù per la tromba delle scale, come un uccello colpito in cielo.

«Va’ all’inferno.»

La ragazza corse giù per le tre rampe malamente illuminate e si precipitò di fuori nella gelida aria notturna. Da qualche parte, l’orologio di una chiesa batté le tre. Romy si avviò sull’acciottolato a passo rapido, quasi sperasse di riuscire a lasciarsi alle spalle le voci che aveva in testa.

Il poliziotto mi fa accomodare sulla poltrona rivestita in velluto nella stanza della musica di Maman. Con delicatezza, neanche fossi fatta di fragile porcellana. Lui si appollaia sullo sgabello del pianoforte, le mani sulle ginocchia. La voce è gentile. Chissà, forse ha una figlia anche lui. Non guardo l’altro gendarme dal viso truce, bruchi ispidi per sopracciglia, in piedi presso la finestra a prendere appunti.

«Mademoiselle Romaine Duchamps, ha dichiarato di non avere visto Karim Abed in giardino, questa mattina. È esatto?»

Annuisco.

«Lei si trovava con sua sorella e Monsieur Roussel, dico bene?»

Altro cenno d’assenso.

«Ha visto Karim Abed entrare in casa?»

Ritrovo la lingua, troppo grande per la mia bocca. «No.»

L’agente tace, perciò offro di più.

«Non ho visto Karim entrare in casa.»

«Sua sorella dice di averlo visto entrare dalla porta di servizio quando è andata nel frutteto per cogliere una mela.»

Oh, è temeraria, mia sorella.

«Io ho visto la carriola. Piena di rami potati dalla siepe. Ma non il giardiniere.»

Siedo sulle mani per fermarne il tremito, ma subito le ritiro fuori. Non voglio dare l’impressione di nascondere qualcosa. Come si comporterebbe una figlia innocente, cosa farebbe? Piangerebbe.

Non ci riesco.

«Mi rendo conto che è parecchio turbata, Mademoiselle, ma ho bisogno che ci pensi bene. Ha visto qualcosa di insolito questa mattina?»

«Sì.»

Si protende verso di me, all’erta come un cane da riporto. «Ovvero?»

«Camminavo davanti alla finestra dello studio di papà. Stavo portando le rose appassite alla compostiera.»

È come se gli avessi acceso sotto un fuoco. Il poliziotto salta in piedi. Mi si mette proprio di fronte.

«Cosa ha visto?»

Lo guardo dritto negli occhi penetranti, intensi. Non batto ciglio. «Ho visto Karim alla finestra. Nello studio di papà.»

Fatto. La menzogna è detta. Le guance mi bruciano ma non distolgo lo sguardo. Se ce la può fare Florence, ce la posso fare anch’io. Non voglio che una lama gelida mi mozzi la testa. Lascio che la sofferenza mi si stampi in viso e l’agente mi mette in mano un fazzoletto candido, immacolato. Con sollievo, vi seppellisco il volto e fingo di piangere.

Il chiaro di luna filtrava nella sua stanzetta nel sottotetto tingendo le pareti di un argento così luminoso che non ebbe bisogno di accendere la candela. A piano terra, Romy aveva riempito d’acqua fredda un catino smaltato e l’aveva portato su per cinque rampe di scale. Una volta in stanza, si spogliò, si lavò e indossò una gonna e una camicia pulite. Erano le più eleganti che avesse. Non voleva mettere di nuovo in imbarazzo la sorella, né voleva arrivare da Chloé puzzando di whisky, sigarette e sesso. Soprattutto non sesso.

Si inginocchiò di nuovo accanto al materasso e di nuovo sciolse la stringa che teneva chiusi i lembi dell’apertura nel tessuto. La mano si fece strada tra il crine fino ad afferrare il sacchetto di tela. Questa volta, però, invece di infilarci i duecento franchi che aveva recuperato da Anton, ne estrasse altri trecento. Cinquecento in tutto. I raggi di luna li trasformarono in merletto fra le sue dita, con Mercuri alati a osservarla.

Prelevata una busta da una scatola che teneva sotto il letto vi introdusse le banconote. A matita, vergò un nome. Aya. Niente cognomi.

Era il primo del mese.

L’alba aveva sospinto a ovest il buio delle ore notturne, in direzione di Versailles. Al loro posto, un velo rosato si era allargato su Parigi trasformando la graziosa cupola del Sacré-Coeur in una goduriosa, gigantesca coppa di glace à la fraise. I sudici vicoli fatiscenti del Goutte d’Or, il vivace quartiere situato nella parte meridionale del XVIII arrondissement, sembravano quel porto variopinto cui la sua popolazione nordafricana anelava. Un sussurro del vento che soffiava nei deserti della madrepatria.

A Romy piaceva, lì. L’odore di spezie e oli ed erbe sconosciuti aleggiava nell’aria. Abiti dalle fogge esotiche e lingue da altri angoli del mondo saturavano le stradine. La rendevano irrequieta, impaziente di montare a bordo del suo Gipsy Moth e volare a sud verso terre sconfinate. Perfino a quell’ora così mattutina, il coloratissimo mercato Barbès ronzava di vita mentre dita scure tastavano le squame argentate dei pesci per saggiarne la freschezza e riempivano borse tessute a mano di mazzetti di peperoncini ultrapiccanti. L’intera zona riverberava di urla e scambi in ignote lingue gutturali e, di tanto in tanto, del rombo della metropolitana che in quel punto correva sopra le teste.

Era il mondo da cui aveva strappato Karim Abed. Un giardiniere gentile, un padre di famiglia. Un uomo che le aveva dato fragole fresche e mature ogni estate e tagliato legna per il camino della stanza da letto ogni inverno. Romaine si fermò in un vicoletto, nell’ombra odorosa di muschio, e osservò la porta della casa in rue d’Oran dove Karim aveva vissuto. Ignorando le occhiate incuriosite che la bersagliavano – una donna bianca, presenza insolita nel quartiere arabo – tenne gli occhi fissi sull’uscio. Era rosso. Con la vernice che si staccava a nastri, strisce di pelle scorticate a suon di frusta dalla schiena di uno schiavo.

Non dovette aspettare a lungo. La porta si aprì e una donna si immise silenziosa nel flusso di umanità che scivolava sull’acciottolato. Dava l’aria di essere sui quaranta, piccola e discreta nella lunga veste nera, la testa coperta da un velo dello stesso colore. I suoi minuscoli piedi si muovevano veloci, impazienti di arrivare dovunque stesse andando, ma gli occhi erano bassi, restii a immischiarsi con il mondo frenetico che la circondava. Romy conosceva la sua destinazione. Uno dei grandi hotel vicino all’Opéra. Faceva la sguattera, ore e ore di lavoro in cambio di una miseria. Si chiamava Aya. Aya Abed. Romaine pronunciò il nome ad alta voce, non una ma due volte, quasi che così facendo potesse levarselo dalla testa.

Tornò a rivolgere l’attenzione alla porta, ma ci volle un’altra mezz’ora prima che si aprisse di nuovo. Questa volta ne sbucò un ragazzo, in quella fase dinoccolata che sta a metà tra l’infanzia e la maturità. Romy ne conosceva l’età esatta: tredici anni. Ne conosceva il nome: Samir. Samir Abed. Sapeva dove andava a scuola. Perciò la sorprese vederlo indossare una salopette tutta macchiata e avviarsi nella direzione opposta alla scuola.

Cosa stava facendo?

Avvertendo un moto di inquietudine, gli si mise alle calcagna. Samir era più alto del padre, così che la sua testa scura era facile da individuare tra la calca, ma ne aveva ereditato le spalle curve e la concentrazione con cui si muoveva. Era come se fossero consapevoli che ogni passo rivestiva una sua importanza nel viaggio della vita. Varcò rapido il cancello della pestilenziale fabbrica di candele di sego, ma proprio mentre spariva alla vista si girò a guardarsi alle spalle. Dritto oltre gli operai che si accalcavano all’ingresso. Dritto verso di lei.

Aveva gli occhi di Karim. Scuri e umidi d’accusa.

Romy si voltò e fuggì via.

La serratura scattò. La porta rossa si aprì. Romaine estrasse grimaldello e tensore dalla serratura e li fece scivolare di nuovo nella tracolla senza farsi notare. Ne aveva vinto un set completo anni prima – una partita di poker contro uno scassinatore professionista – e aveva imparato in fretta a usarli. Ormai li maneggiava con una notevole dose di perizia. Conosceva il temperamento testardo di quella serratura in particolare, sapeva bene della sua tendenza a puntare i piedi se applicava troppa pressione. Gentilezza, gentilezza. Ci aveva messo meno di dieci secondi a farla cedere. Entrò nell’edificio.

Odorava di troppi corpi e troppa poca acqua corrente. Un dedalo di corridoi bui si addentrava nel casamento, curvando e girando intorno a un tetro cortile dove di rado si vedeva il sole. Romy si mosse rapida, sicura della meta. Nessuno la fermò. In posti come quello, era meglio non fare domande.

Le risposte potevano essere pericolose.

Si fermò al centro della stanzetta dall’aria viziata, gli occhi che dardeggiavano intorno in cerca di cambiamenti. E uno c’era. Grosso. Di norma, i libri di scuola erano ordinatamente disposti sul tavolo con a lato una matita appuntita, pronta all’uso. In quel momento, invece, giacevano a terra, in un angolo, sepolti sotto una pila di camicie. Come fossero uno sgabello.

No, non poteva essere.

Non era ciò che sembrava. No. Un rifiuto dell’unica via d’uscita da quella fetida topaia. Ripensò a Samir con la salopette. I cancelli della fabbrica di candele. I passi grevi degli uomini che vi sciamavano. E le venne voglia di correre a fermarlo, trascinarlo fuori di là prima che il danno fosse fatto.

Perché Samir?

Perché ora? Per otto anni si era recata lì con il suo grimaldello e la sua busta, il primo di ogni mese, e per otto anni era riuscita a tenerlo a scuola anziché vederlo finire a lavorare al mercato o a intrecciare tappeti come la maggior parte dei bambini algerini era costretta a fare nei vicoli di Parigi.

Cos’è successo, Samir?

Romaine esaminò più attentamente il locale. Non aveva mai toccato nulla. Mai aperto un cassetto o frugato in una credenza. Mai. Una volta, solo una, aveva portato un secchio di vernice, e il mese successivo i muri erano di un candore accecante e, al suo arrivo, sul tavolo c’era un piatto di datteri freschi. Erano per lei? Ne aveva mangiato uno. Era stata l’unica volta in cui tra loro si era stabilita una sottile connessione. Riusciva ancora a sentire il sapore di quel dattero, dolce e profumato. Una parte di lei – primordiale, animalesca – aveva sospettato che potesse essere avvelenato, eppure l’aveva inghiottito lo stesso, e no, non lo era.

La stanza era ordinata, sempre, pulita e ordinata. Ma spoglia. Un mucchio di cuscini consunti sul pavimento, un tavolino, due sedie. Riparato dietro una tenda sbiadita che un tempo doveva essere stata di un vivido magenta, un lettino, e in un angolo un sottile materassino arrotolato, con alcuni abiti ben ripiegati. Tutto come al solito. Eppure qualcosa mancava. Le ci volle un attimo per capire. Era l’anfora. Quella di ottone. Con gli elefanti a sbalzo e le anse a guisa di cobra. Era sparita. Quella che suo padre aveva accusato Karim di avere rubato dalla serra, mentre lui negava. Eppure era lì. In piena vista. Fino a oggi. Ma fu solo quando sbirciò dietro la tenda che Romy vide il flacone di medicinale accanto al letto e capì dove finiva il denaro. Aya Abed era ammalata.

Era troppo.

Rapida, posò la busta sul tavolo e si affrettò alla porta, impaziente di tagliare la corda. Fu quello il suo errore, la fretta. Se ne scordò. Scordò di tenere lo sguardo lontano dalla fotografia appesa presso l’uscio in una cornice di bambù. Il lungo viso gentile di Karim, gli occhi scuri che fissavano i suoi, proprio come avevano fatto dal banco degli imputati in tribunale. Romaine sentì di nuovo lo sferragliare delle manette mentre lui le sollevava in aria, mostrandogliele, e udì di nuovo i deboli singhiozzi della moglie, il fruscio degli incartamenti che contenevano quelle accuse incriminanti. Nell’aula si respirava l’acre lezzo della paura, e lei sapeva bene che era la sua.

Si costrinse a distogliere lo sguardo e uscì dalla stanza, ma mentre imboccava il corridoio una figura si profilò tra le ombre, come fosse stata lì ad aspettarla. Il cuore le balzò in gola e per un terribile istante pensò che fosse Karim. Ma no. Era una donna.

«Cosa accidenti ci fai qui? Non hai alcun diritto di starci.»

Era un donnone enorme, con un numero esagerato di scuri rotoli di grasso e lunghe collanine sgargianti che tintinnarono mentre agitava il braccio verso la stanza di Aya Abed. Sulla testa, un nido di stoffa turchese acceso le dava l’aspetto di un pappagallo, con grandi occhi rotondi e una bocca scarlatta pronta a beccare.

Romy contrattaccò. «E tu chi saresti?»

«Io sono Leilah. Ma, quel che più conta, chi cavolo sei tu? Una ladra, ecco cosa sei, tu…»

«No che non lo sono. Sono un’amica di Samir.»

Le grosse mani muscolose dell’altra – le mani callose e spellate di una lavandaia – la afferrarono per le spalle e quasi la sollevarono da terra mentre la sbattevano contro il muro, con tanta forza che la botta del cranio contro l’intonaco riecheggiò come uno sparo. Per un istante, Romy vide tutto nero.

L’altra cacciò un urlo. «Tu non sei amica di Samir.» Teneva il viso a pochi millimetri dal suo, le narici immense gallerie nere. «Ti farò parlare a suon di sberloni…»

Ma Romaine sapeva come azzuffarsi. Non si bazzicano i bar a tarda notte senza imparare un paio di dritte sui combattimenti. La punta della sua scarpa incontrò uno stinco ben imbottito mentre il gomito si piegava a scattare all’insù verso un mento che non se l’aspettava.

Un dente si spezzò, e gli occhi di Leilah presero a roteare come biglie impazzite. Le mani mollarono la presa.

Romy si eclissò. Non si poteva dire che la giornata fosse iniziata bene.