I raggi del sole riverberano sulle ali dell’aereo tingendole di un tremulo giallo ranuncolo mentre vola tranquillo sopra un filare d’alberi. Si alza il vento, però, il caldo respiro polveroso del Sahara, e una folata si impadronisce della deriva di coda mandando in vite il fragile velivolo e spedendolo in una brusca picchiata.
Trattengo il respiro. Stringo le mani. Da dietro gli occhiali da sole lo vedo precipitare a terra e una parte di me ne è felice.
Ma sento il grido d’allarme. Sono testimone dell’istante in cui si schianta al suolo. Vedo le ali strapparsi per l’impatto come quelle di un insetto, lo osservo mentre si cappotta. Vorrei correre sul posto, ma mi impongo di rimanere seduta sulla coperta. Il viso impassibile, in questo sono un asso. I denti mi si chiudono sulla lingua per impedirmi di urlare.
Lascio che se la sbrighi lei. È quello che vuole.
«Maman, guarda! Tante Romy l’ha aggiustato.»
La voce di Chloé gronda ammirazione, le sue parole scoppiano d’amore per la zia. Sorrido deliziata e nascondo il brivido che mi corre dentro.
«Non è bravissima? Cosa faremmo senza di lei?»
La mia lingua è intinta nella bile.
Mia figlia alza il modellino d’aereo per farmene rimirare la perfezione, ora che Romy ha rimesso le ali al loro posto dopo l’incidente. Persino io devo riconoscere che si tratta di un giocattolo davvero notevole. Con appena un metro di corsa al decollo riesce a salire più in alto degli alberi e avanza in volo rettilineo sopra il maestoso viale centrale del giardino delle Tuileries, muovendosi elegante oltre le lunghe file di castagni ben cimati. Si direbbe deciso ad arrivare fino al Louvre. Il tetto grigio del museo sembra osservarci da lontano, come fossimo l’ennesima conoscenza che si dispone a stivare nelle sue viscere.
Mi piacciono questi giardini. La pianta geometrica, l’ordine. Un giardino all’italiana, che il suo architetto ha impostato su una simmetria perfetta. Già nel XVII secolo, André Le Nôtre aveva compreso l’importanza di insegnare al popolo la struttura. La disciplina. L’autocontrollo. La calma. So che se l’avessi conosciuto mi sarebbe piaciuto, avremmo parlato la stessa lingua. Da place de la Concorde al Louvre ha creato una sinfonia di viali, terrazze, rampe a ferro di cavallo, il tutto abbellito da statue, prati e aiuole posizionati con precisione millimetrica. E un laghetto di sessanta metri di diametro. Non il classico, ordinario stagno, ma un bacino ottagonale. La sua bellezza rigorosa mi placa l’anima. Mi piace camminargli intorno, contando i miei passi.
Romaine viene a sedersi sulla coperta accanto a me, ma gli occhi sono ancora su mia figlia, il cui sorriso raggiante è una pozza di sole nell’ombra.
«Ti sei divertita, Chloé?» le chiedo.
La piccola annuisce vigorosamente, facendo danzare i lunghi riccioli. Mi colpisce l’idea che, se mia sorella non se li fosse tagliati tanto corti, avrebbero lo stesso colore e la stessa trama. Non come i miei, che da soli non sanno stare da nessuna parte. Devo litigarci ogni giorno per sottometterli all’ordine.
«Tante Romy dice che ha una velocità di volo di duecento metri al minuto.» La bambina si posiziona sull’erba di fronte a noi, il modellino tenuto bene in alto per ammirare le coccarde della RAF sulla fusoliera argentata e sulle ali. Indossa un abito bianco di sangallo. Sembra un angelo.
Le sorrido. «Niente male!»
«Rientra nella scatola in assetto di volo. Mi piace azionare l’elastico per farlo volare.»
«Sei bravissima a farlo, chérie.» Il che è vero.
«Ha un angolo di salita eccezionale, una planata piatta e una velocità di atterraggio sicura» mi informa lei.
Sbatto le palpebre.
«Me l’ha detto zia Romy» aggiunge.
Romaine scoppia a ridere, e mi rendo conto di non ricordare l’ultima volta che l’ha fatto.
«Zia Romy sembra dire un sacco di cose.»
Mia sorella ha la buona grazia di arrossire. Perché nessuna bimba di sei anni dovrebbe saperne così tanto di angoli di salita, planate e velocità di atterraggio. Non sta bene.
Chloé comincia a correrci intorno, tra le mani il modellino che spinge su e giù nell’aria, ma invece di guardare lei, osservo Romaine. È tutta arruffata, anche se sospetto abbia fatto uno sforzo in mio onore. Indossa una camicia bianca con le maniche ad aletta e una gonna color sabbia, ma sono entrambe vecchie e bisognose di una passata di ferro. Rotola sulla pancia, si puntella sui gomiti, appoggia il mento sulle mani. I suoi movimenti sono sempre fluidi e naturali, come fosse fatta d’aria.
«Verrai al club Monico questa sera, mi auguro. Un’auto passerà a prenderti alle otto. Horst vorrebbe tanto che ci fossi. È passato un secolo dall’ultima volta che abbiamo trascorso una serata insieme, non vedo l’ora.»
Gli occhi ambra si girano a studiarmi, il sole riverbera su quelle ciglia dorate tanto più lunghe delle mie.
«Perché?»
«Sarà divertente. La banda delle sorelle riunita.»
Non risponde. Gli occhi mi restano addosso.
Le sorrido. «Ti divertirai.»
Torna a guardare mia figlia, che ora si è seduta sull’erba, il modellino in grembo come un animale da compagnia.
«Chi è Horst Baumeister?»
«Te l’ho detto, Romaine. È un rappresentante molto importante della Germania, l’hanno mandato qui per giungere a un patto di non belligeranza con la Francia. Roland rappresenta il ministero della Difesa – proprio come faceva papà – e vuole garantire la pace tra i nostri due paesi. È quello che vogliamo tutti, no?»
«Non alle condizioni di Hitler, no. Non a quelle di Mussolini in Italia. Non a quelle del generale Franco in Spagna. No, non alle loro condizioni. Sono mostri fascisti, sono dittatori, tiranni che strappano il cuore alle persone.»
È appassionata. Convinta. Dovrei lasciar cadere l’argomento, ma non lo faccio. Non sopporto che mia sorella viva con il paraocchi, e uno spasmo di rabbia ha la meglio su di me. A volte ho l’impressione che assuma posizioni tanto intransigenti solo per dimostrare di avere una mentalità tutta sua, indipendente da papà.
«Romaine, ma non ci vedi? Sul serio vuoi che il comunismo spazzi le nostre nazioni trasformandoci nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche d’Europa? È questo che vuoi? Perché è esattamente quello che succederebbe se non ci fossero uomini come Hitler, Mussolini e Franco a tenere a bada la marea.» Riduco la voce a un sussurro. Non voglio farmi sentire da Chloé. «Guarda la Russia, Romy. Guarda come Stalin sta azzoppando il paese, guarda quei poveri sovietici costretti a vivere nel terrore. È questo ciò che vuoi per noi?»
La bocca di mia sorella si incurva nell’ombra di un sorriso. «Mi piace quando ti preoccupi di qualcosa di diverso dai soliti cappellini e abiti da sera. Anche se ti sbagli.»
Lascio perdere. Ho bisogno che ci sia, questa sera.
I giardini stanno cominciando a riempirsi di parigini che vanno a passeggio sui viali prima che faccia troppo caldo, incedono a braccetto per sfoggiare il più recente tailleur blu scuro di Chanel o una nuova amante. Chiamo Chloé e ripiego la coperta mentre mia sorella sgancia le ali al FROG (è un acronimo, le spiega, in inglese sta per “vola rasoterra”). Mentre lo ripone per benino, le dico finalmente ciò che ero venuta a dirle.
«Mamma vuole vederti.»
Si impietrisce. Gli occhi diventano due fessure. «Perché?»
«Non lo so. Non me l’ha detto. Mi ha solo chiesto di riferirti il messaggio.»
«Al momento sono occupata. Ho un volo ogni giorno.»
«Devi andarci, Romaine.»
«Perché devo?»
Non le rispondo. Sa benissimo perché.
Entro nell’appartamento di avenue Kléber, getto cappellino e guanti di pizzo sul tavolino in marmo dell’atrio con un gesto brusco e irritato e vado dritta al telefono. Non è una chiamata che desideri fare. Eppure, la delicata fragranza delle rose bianche mi raggiunge mentre sollevo il ricevitore dalla forcella e la inspiro con un brivido di sollievo. Succede sempre. Il loro profumo mi calma. Placa il subbuglio che mi ha lasciato addosso l’incontro con mia sorella. La tata, Amélie, saggiamente porta via Chloé per lavarla e darle da mangiare. La piccola parte subito a raccontarle che ha fatto volare il suo prezioso aeroplano con la zia Romy.
Che ne è della bambola che ti ho regalato, Chloé? Quella con i capelli veri – biondi, setosi – e una pelle di porcellana proprio come la tua. Che ne è di quella? Lo sappiamo entrambe, è ancora nella sua scatola.
Compongo il numero, prefisso di Chantilly.
«Maman?»
«Florence, aspettavo giusto la tua telefonata.» La voce di mamma è pacata e controllata come sempre, ma percepisco il fremito di un’emozione che non riesco a identificare, una sottocorrente che mi stringe il cuore a dispetto dell’indifferenza del tono. «L’hai vista?»
«Sì, mamma. Te l’avevo detto che avremmo portato insieme la piccola al parco.»
«È un’idea saggia?»
Faccio una risatina. «Fidati di me, mamma.»
«È diversa? È…» Un lungo, incisivo silenzio. «È migliorata?»
«No.»
Uno sbuffo d’aria mi fa tremare il ricevitore in mano.
«Porta pazienza, mamma.»
«Tu sei paziente con lei?»
«È la mia gemella. Le voglio bene, quindi certo, sono paziente.»
«Hai fatto quel che ti avevo chiesto?»
«Sì. Le ho detto che vuoi vederla.» Mi costringo a sorridere per addolcire il tono. «Non ne sembrava troppo felice, ma le ho fatto capire che era una convocazione ufficiale.»
Ripenso all’espressione tesa con cui ha accolto la notizia, gli occhi d’ambra ostili e concentrati come quelli di una leonessa messa alle strette.
«Verrà?»
«Verrà.»
«Cosa ti rende tanto sicura?»
«Perché le ho detto di farlo.»
«Quando?»
«Devi avere pazienza, mamma.»
«Chiamerà? Sarebbe cortese da parte sua telefonare per prendere appuntamento.»
«È tua figlia, mamma, non la parrucchiera.»
«Allora che si comporti da figlia!»
Le parole escono rabbiose. Con gli artigli. Mi colgono di sorpresa, ma non mi permetto di mostrarlo.
«Questa sera verrà a una delle serate di Roland, per fargli un piacere. Ci sarà anche Horst Baumeister.»
La sento trattenere il fiato. «Perché?»
«Vuole vederla.»
«E questa, la ritieni una mossa saggia?»
«Non mi ha lasciato scelta.» Cambio argomento. «Le ricorderò di chiamarti. Però mamma…» La gola mi si chiude all’improvviso e dalla mia bocca non esce altro che il sussurro di un sospiro.
«Cosa c’è, Florence?»
«Non essere troppo dura con lei.»
«Perché no? Se lo merita.»
«Io ho bisogno di lei, mamma. Non dimenticarlo.»
Non appena riaggancio, il telefono prende a squillare, stridulo e insistente. So che sarà di nuovo mamma. Guardo male l’aggeggio di bachelite nera, tentata di lasciarlo suonare, ma alla fine lo agguanto con una scrollata di spalle.
«Verrà?» È Roland.
«Sì.»
«Ottimo. Ben fatto.»
«Le ho detto che le manderai un’autovettura alle otto.»
«Organizzo subito.»
Percepisco la sua impazienza, il desiderio che venga sera e la faccenda si chiuda in fretta. «Roland.» Scelgo con cura le parole. «Non era per niente contenta.»
«Chissà perché non mi sorprende.»
«Potrebbe tirarsi indietro.
«Assicurati che non lo faccia.»
C’è una pausa. Siamo entrambi in debito d’ossigeno.
«Siamo andate al parco.»
Sospira. «Ti ha chiesto altri soldi?»
«Sì.»
«Glieli hai dati?»
«No.»
«Bugiarda.» Riattacca.