Romy dovette attendere un’ora intera. Solo allora una chiave girò nella toppa, ma non era Florence. Le giunse un chiacchiericcio di bimba, e subito Chloé volò nella stanza e tra le sue braccia. Fu come se una mano si fosse allungata a sollevare il drappo nero che impediva al sole di illuminarle la giornata. Romaine inspirò il giovane, caldo profumo della nipote e le stampò due baci sulle dolci guance rosate. La bambinaia bretone, ferma sulla soglia con un sorriso timido, le lasciò giocare da sole. Fecero aeroplanini di carta e li spedirono fino al soffitto al grido di «Contatto!» e «Metti i tacchi alle ruote!» mentre Chloé sgambettava sulle sedie, le braccia protese per riprendere al volo i modellini. Romaine adorava osservare la sua determinazione, le sue movenze e i suoi pensieri a cui era estranea la paura.
Il gioco si interruppe bruscamente quando, artigliando uno di quei dardi bianchi, Chloé lo accartocciò in una pallina. Restò a fissare la devastazione che aveva in mano, stretta tra le dita.
«Zia Romy, nella mia classe c’è un bambino che si chiama Daniel. Gli altri lo prendono in giro. È ebreo. Dicono che in Germania tutti gli ebrei sono tenuti in gabbia.»
La risata di Romy si accartocciò come l’aeroplanino.
«No, Chloé, non è vero, ma chérie. Ovvio che non li tengono in gabbia. Gli ebrei in Germania stanno attraversando un brutto momento, ma non ci sono gabbie. Te lo giuro.»
Cittadinanza revocata, sì. Diritti politici negati, sì. Esclusione da qualunque professione ed esercizi commerciali chiusi, sì. Vetrine infrante. Persone – bambini compresi – che si vedevano sputare addosso. Picchiare. Imprigionare, se avevano rapporti sessuali con gli ariani. Sì. Sì. Trattati peggio di animali infetti. Sì. Ma niente gabbie. Non ancora.
La bambina sembrava scossa. Scossa da quello scorcio di un mondo adulto che infieriva sui propri simili. La mano si strinse ancora di più sull’aeroplanino. «Dicono che in Germania agli ebrei non è consentito pilotare gli aerei. È proprio una merde.»
Romy lasciò correre la parolaccia. L’aveva imparata da lei? Continuò a rassicurarla, inginocchiata sul pavimento, la bimba ora sul suo grembo mentre la abbracciava forte.
«È sbagliato fare queste cose a un altro essere umano, Chloé.» Le baciò la testolina, appoggiata alla sua clavicola. «Ed è importante che tutti noi prendiamo posizione contro i prepotenti. Perciò assicurati di far capire a Daniel che tu sei sua amica, anche quando…»
Un rumore le raggiunse. Era la porta d’ingresso che si richiudeva. Dei passi riecheggiarono sul pavimento piastrellato dell’atrio, ma a comparire non fu Florence.
«Romaine! Cosa diavolo ci fai qui?»
Suo cognato. Furibondo. Irritato. I capelli neri che luccicavano. La camicia bianca incollata alla pelle. Sembrava fuori posto in quel salone tranquillo ed elegante, ma del resto non più di lei.
«Aspettavo Florence.»
«Non ti è bastata ieri sera? Lasciala in pace.»
«Ho bisogno di parlarle.»
Roland si guardò intorno come se la moglie potesse essere nascosta da qualche parte. Il sottinteso fece avvampare Romy.
«No. Direi proprio che non c’è.» La voce dell’uomo era gelida, ma cortese. «Ciao, Romaine. Le dirò che sei passata.» Protese una mano verso la figlia. «Vieni, Chloé.»
La bimba trotterellò dal padre, che si chinò a baciarla tenendo lo sguardo fisso su Romy. Le aveva sottratto la piccola, e negli occhi gli apparve un lampo di trionfo. Era raro che Romaine si trovasse in compagnia del cognato senza che ci fosse anche la sorella. A dire il vero, non ricordava quando fosse accaduto l’ultima volta. Era qualcosa che entrambi evitavano. Alzandosi, gli si avvicinò sino a quando a separarli non ci furono che un paio di metri di lucido parquet.
«Devo chiederti una cosa.»
La guardò scocciato. «È proprio necessario?»
«Sì.»
«Vedi di fare in fretta.»
Gli occhi curiosi della bambina si inchiodarono sul padre.
Romy si sforzò di usare un tono lieve, pacato. «Perché Horst Baumeister è tanto interessato a me?»
«E io che accidenti ne so?» L’altro fece uno sbuffo, presumibilmente doveva essere una risata. «Forse ha gusti strani in materia di donne.»
Romy ignorò l’insulto. «Perché Müller e Horst sono qui?»
«Non essere così ottusa, Romaine. Florence te l’ha detto. È un momento difficile per il nostro primo ministro e per il governo socialista. Daladier sta facendo il possibile per preservare la pace ed evitare un’irruzione tedesca in Cecoslovacchia, anche se di fatto i Sudeti sono abitati per lo più da cittadini tedeschi. Per l’amor del cielo, erano parte dell’Austria fino a quando il trattato di Versailles non li ha sottratti alla Germania per regalarli alla Cecoslovacchia. In realtà appartengono alla Germania.»
«Come la Renania e l’Austria?»
«Esatto. Che è il motivo per cui Hitler se le è annesse. Baumeister e Müller sono qui in quanto parte di una delegazione inviata dalla Germania per…»
«Per negoziare. Sì, così mi ha detto Florence. Ma perché sono qui davvero?»
«Mi stai forse accusando di mentire?»
Gli occhi sgranati di Chloé saltarono sulla zia.
Romy le rivolse un sorriso, nascondendo ogni traccia d’ira. «Roland, tu parli tedesco?»
L’uomo strizzò gli occhi. Di colpo si era messo sul chi va là. «Sì, certo che lo parlo. Anche inglese. Ho studiato sia a Cambridge che all’università di Heidelberg. E allora?»
«Hai mai parlato tedesco con mio padre?»
«Non essere assurda. Certo che no. Perché avrei dovuto?»
Le spalancò la porta del salone, sempre tenendo stretta la manina della figlia.
«Au revoir, Romaine. Dirò a tua sorella che sei passata.»
Lei non si lasciò cacciare. «Hai visto qualcuno, Roland? Quel giorno. Nello studio di mio padre.»
L’altro ebbe un moto d’impazienza. «Ho reso testimonianza in tribunale, sotto giuramento. C’eri anche tu. Quindi sai che non ho visto nessuno. Ora basta sciocchezze» concluse voltandole le spalle.
Romy si avviò alla porta d’ingresso dell’appartamento, ma una volta lì si rese conto che Chloé l’aveva seguita.
«Ci vediamo domenica come sempre, chérie.» Si chinò ad abbracciarla, si rialzò.
Roland le fissava in silenzio.
Una volta sull’ascensore, con le lampade di Lalique e il ronzio sommesso degli ingranaggi in sottofondo, Romy ripensò al viso arcigno del cognato. Erano legati da un filo sottile, Roland e lei, un filo che non avrebbero mai potuto spezzare.