Romy era nervosa. Nervosa da morire. Come se fosse il suo primo volo in solitaria. Torace chiuso. Dita di gelatina. Denti che mordevano via mezza guancia per volta. Stava facendo i controlli prevolo.
Assetto. Una manetta sulla sinistra dell’abitacolo, per azionare il timone di profondità, disposta in posizione centrale per il decollo. A posto.
Valvola della frizione: a posto.
Miscela: ricca.
Magneti: funzionanti.
Carburante: più che sufficiente.
Leve varie: a posto, a posto, a posto. Pressione dell’olio: a posto. Altimetro: a posto.
Imbracatura e portelli: fissati e ben saldi.
Comandi del motore. A posto.
Era assurdo essere nervosa, avrebbe saputo far volare quel piccolo biplano a occhi chiusi. Ma non le era mai capitato di avere con sé Léo Martel a stagliarsi torreggiante nell’abitacolo anteriore, quello destinato al passeggero. Non solo Léo era un pilota, ma era uno dei migliori piloti acrobatici al mondo. In grado di far volare un aereo a testa in giù attraverso l’Arc de Triomphe. La faceva sentire vulnerabile, sensazione che mai aveva provato a bordo di un velivolo. Vulnerabile ed esageratamente insicura.
Era stata una faticaccia per lui arrampicarsi su una delle ali per montare nell’abitacolo anteriore, ma Romy si era guardata bene dall’offrirgli aiuto. A Parigi era quasi l’alba. Il giorno era appena una striscia d’oro all’orizzonte, ma la brezza già aveva il sentore oleoso della conceria ubicata a sud del campo d’aviazione. Gli occhi grigi di Martel erano scuri come il cielo notturno a ovest. Mentre azionava interruttori e leve, Romaine si domandò cosa gli passasse per la testa. Era il suo primo volo dall’incidente.
Era spaventato?
E, soprattutto, si fidava di lei?
Non riusciva a immaginare Léo Martel spaventato. Eppure, di nuovo strizzato in un abitacolo per la prima volta da allora, le ginocchia schiacciate contro i serbatoi di riserva, chissà che non gli stesse tornando tutto in mente. In brevi frammenti brutali.
Come succedeva a lei con Karim. Il suo, di passato, era costellato di errori. Violenza. Menzogne. Non poteva sfuggirgli volando, per quanto ci avesse provato con tutte le sue forze.
Cominciò a rullare. A terra, il pilota di un Gipsy Moth è cieco, la vista a prua pessima. Il lungo muso del biplano nasconde qualunque cosa si trovi davanti, perciò l’aviatore è costretto a procedere a zigzag, guardando lungo la fusoliera per assicurarsi che la pista sia sgombra. Stringendo la barra di comando nella mano destra, Romy usò la sinistra per dare e togliere gas. Eccolo. Ciò per cui viveva.
Si allineò al vento in modo da averlo in coda, dando gas per un attimo per aiutare la virata. Piano ora, liscia come seta, spinse avanti la manetta. In quell’istante scordò il casco di Martel davanti a lei, scordò il sanguinante terzo occhio sulla fronte pallida di Grégory, scordò la paura che aveva costretto a ritirarsi in un angolo buio della mente. Tutto ciò che provava era la gioia pura del momento. L’adrenalina le scorreva rapida nelle vene, più seducente di cinquanta bottiglie di whisky, tutte aperte e in fila ad aspettarla.
Il tachimetro accelerò fino a 1800 giri al minuto e automaticamente i suoi piedi fecero quel che dovevano, tenendo in assetto il velivolo grazie ai pedali di direzione. Attenzione, ora. Minuscoli aggiustamenti per controbilanciare oscillazioni e imbardate. Nelle orecchie le risuonava il rombo regolare del motore de Havilland, sicuro del fatto suo mentre si riappropriava di quel territorio che gli apparteneva. Romy sorrise. Impossibile trattenersi. Ogni sua fibra si fuse con le vibrazioni di motore e cellula, che si scuotevano come cani agitati mentre le ruote acceleravano sull’erba, impazienti che lei portasse avanti la barra a trenta chilometri orari, permettendo alla coda di alzarsi.
Il vento le sferzava la faccia, le schiaffeggiava le guance, le strattonava il casco, ma all’improvviso il mondo cambiò. I sobbalzi cessarono. Il Gipsy Moth saggiò l’aria, sempre più vicino alla sua velocità di salita, novanta chilometri orari. Non fu semplice, gravato com’era dai serbatoi ancora pieni e dal peso di Martel nell’abitacolo anteriore, ma finalmente si librò. Una volta in cielo, la mente di Romy parve ribaltarsi, rovesciarsi. I pensieri precipitarono a terra, e fu libera, libera dal passato.
Frugò velocemente l’abitacolo con lo sguardo, controllò che la pressione del lubrificante fosse ancora corretta, quindi tirò appena indietro la manetta per evitare che la testa del motore si surriscaldasse.
Stava volando.
Fecero rifornimento a Limoges, ai confini del Massiccio Centrale. Il caldo era opprimente. Il terreno tremolava come fosse sott’acqua mentre rabboccavano la tanica situata tra le ali superiori del Moth. Dopo cinque ore negli abitacoli erano entrambi anchilosati e irrequieti, perciò fecero una passeggiata lungo il perimetro del campo d’aviazione per sciogliere i muscoli.
«Perché devi andare in Spagna, Martel?»
«Te l’ho detto. Una riunione.»
«Dev’essere una riunione parecchio importante per trascinarti tanto a sud.»
«Lo è.»
Si erano fermati per permettergli di far riposare la gamba, anche se fingevano che la ragione fosse accendersi un paio dei puzzolenti sigari neri di Romy mentre guardavano un nibbio volteggiare nel terso cielo blu cobalto verso una povera preda ignara. Martel si appoggiò a un albero. Si era tolto il giubbotto da aviatore, e Romaine notò che sotto indossava un abito grigio. La severa eleganza del completo esprimeva buon gusto, qualcosa che prima non aveva mai associato a lui.
«Capo, ho diritto di sapere perché ci troviamo qui.»
«Più sai, più sei in pericolo.»
«Se devo beccarmi una pallottola in testa o una coltellata tra le costole, voglio sapere chi sta premendo il grilletto o impugnando la lama. Non voglio che mi trovino impreparata come Grégory e François.»
Ma lui non la ascoltava. Le labbra gli si erano rilassate in un sorriso. «Sei brava a pilotare.»
«Ovvio che sì. Ma non è questo il punto, ora.»
«Dimmi perché ti rechi nel quartiere arabo all’inizio di ogni mese.»
«Non sono affaracci tuoi.» Gli voltò le spalle, irritata da quello sguardo indagatore. «Come hai osato seguirmi?»
«Non l’ho fatto. Mi piace usare le spezie arabe per cucinare, quindi vado regolarmente al mercato Barbès. Ti ho vista lì.»
Come ho potuto essere tanto cieca?
Romy gettò a terra il sigaro e lo schiacciò sotto lo stivale da aviatore. Riprese la passeggiata, Martel che si affrettava a seguirla.
«Ti sta piacendo il volo?» gli chiese bruscamente.
Gli ci volle un pezzo per rispondere. «Sì, grazie. Anche se è un po’ noiosetto.»
Noiosetto?
Come poteva volare essere noioso?
Aveva pilotato con grande scrupolo, così che l’altro non trovasse niente da ridire. Forse era stata troppo meticolosa. Troppo attenta. Non aveva corso neanche mezzo rischio. Era il suo primo volo dopo l’incidente, ed era deluso? Romy sentì di avere tradito le sue aspettative.
Lo prese a braccetto. «Potresti pentirti di queste parole.»
Il Gipsy Moth piombò giù in picchiata. Veloce come il nibbio.
Il motore rombò. Le ali tremarono. I montanti interalari cercarono di uscire dalle rispettive sedi. Il vento ululò tra i tiranti di rinforzo e scorticò le guance di Romy. L’adrenalina le pompò nelle vene mentre la terra le si precipitava incontro e la morte le spalancava le braccia.
Romaine lanciò un urlo, elettrizzata. Faticava a respirare, gli occhi inchiodati sul luccichio metallico di sotto, una doppia striscia di argento fuso che fendeva il paesaggio dai toni color miele.
Era questa? Era questa la volta? Si sarebbe gettata tra quelle braccia che la attendevano spalancate? Era già stata tentata, un centinaio di volte.
E invece, proprio quando ormai l’oscurità era in procinto di ghermirla, all’ultimissimo minuto, Romaine tirò indietro la cloche. Il suo corpo stava ancora spingendo verso terra con tutto il suo peso, ogni giunto e snodo del Gipsy Moth si oppose stridendo alle sue dita che osavano ricalibrare leve, reindirizzare alettoni. I piedi dovettero litigare con i pedali, le mani con la barra di comando.
Ma il muso si rialzò. A pochi metri dai binari d’argento, il Gipsy ritrovò l’assetto, riallineandosi con un sospiro. La terra era così vicina che Romaine quasi avrebbe potuto far correre le dita sulle traversine in legno, come fossero i tasti di un pianoforte. C’era un treno poco più avanti, eruttava vapore. Con il cuore che le tamburellava in petto, l’aviatrice aumentò la velocità. Il vagone di coda si approssimava, lo raggiunse agevolmente. Ci sarebbe potuta atterrare, da quanto volava bassa. Un tocco del pedale. Troppo leggero, e avrebbero virato; troppo forte, e il biplano avrebbe derapato. Scese ancora di più tenendolo in assetto, l’elica del Gipsy che falciava l’erba mentre la sorvolava. Stava volando accanto al treno, ma l’aereo era più veloce. Fece ciao ciao. Ai finestrini vide facce sbalordite, bocche che ridevano, mani che salutavano mentre rischiava la vita davanti ai loro occhi. Il biplano balzò avanti per superare la locomotiva e al povero macchinista dalla faccia paonazza prese un colpo.
Romy rise di cuore, felice. Nel sedile del passeggero davanti a lei, il casco di cuoio si girò e la ragazza colse un ghigno soddisfatto sul viso di Martel.
«Non più tanto noioso adesso, eh, capo?»