Romy spense la sigaretta. Il bagliore la rendeva un bersaglio facile nel buio. Prese a passeggiare avanti e indietro nella piazza centrale di Santa Casilda, sulle spine, all’erta.
Dicevano che era sicuro. Dicevano che nessuno era informato della loro presenza. Ma cosa ne sapevano? Cosa ne sapeva chiunque, in quella brutale guerra civile? Le informazioni erano una merce, acquistata e venduta con la medesima prontezza con cui si vendevano le armi. Venire a conoscenza di un attacco a sorpresa poteva strappare la vittoria dalle fauci della sconfitta, il tradimento era moneta sonante che passava di mano in mano.
Martel, stai attento.
Romaine scrutò la valle sottostante. Era scesa la notte, un fitto manto nero che celava i frastagliati spuntoni di granito e gli infidi crepacci dove potevano nascondersi i cecchini. Erano rintanati sulle pendici dei Pirenei, appena di là dal confine spagnolo, in Catalogna, dove si era trincerata un’unità dell’esercito repubblicano. L’avanguardia dell’esercito fascista continuava ad avanzare verso la costa e Barcellona, nel tentativo di dividere le forze nemiche in due metà più deboli.
Di colpo, Romy si irrigidì: un camion si avvicinava al paese. I fari scavavano gallerie in quel buio solido mentre il mezzo serpeggiava su per la valle, diretto proprio a Santa Casilda. Ora si sentivano anche il ronzio del motore, le marce che gracchiavano per l’arrampicata. Nel silenzio della notte, i rumori riecheggiavano contro le pareti montuose.
Uno dei nostri, disse qualcuno. Da giù, da Berga, dove stanno combattendo.
Come facevano a esserne tanto sicuri?
Romy si tirò indietro e si appiattì contro l’edificio in cui da tre ore Martel era in riunione a porte chiuse.
Di cosa stavano parlando, lì dentro? Perché ci mettevano tanto?
Lì tra le montagne l’aria della notte era gelida, il vento soffiava direttamente dalle vette. Romaine infilò le mani in tasca. Aveva un gran bisogno di bere, era l’unico modo per combattere quel freddo. Per bloccare i pensieri, allontanare lo spettro della morte. All’angolo della piazza c’era una minuscola osteria con la luce ancora accesa. Si avviò. Un bicchiere. Tutto lì. Un unico bicchiere non avrebbe…
All’improvviso un rimbombo di stivali sull’acciottolato. Un gruppo di soldati la superò di corsa facendosi largo di prepotenza nel buio, tra grida concitate. Cosa succedeva?
Il cuore di Romaine prese a battere come una furia. Non parlava lo spagnolo. Gettò un’occhiata preoccupata verso l’estremità del paese, dove aveva parcheggiato il Gipsy Moth, ma sapeva che non sarebbe mai riuscita a decollare nel buio, non lì. Le ci era voluta tutta la sua abilità per atterrare in quella gola angusta senza lasciarci un’ala, e questo in piena luce.
Un repentino deflagrare di luci segnalò l’ingresso del camion nella piazza. Il portellone sul retro venne subito spalancato, e dal mezzo si trascinò fuori una massa scomposta di uomini zoppicanti, malfermi, uomini con i visi contratti dal dolore, impietriti dalla paura. Le loro bende erano insanguinate. Il veicolo arrivava dalla prima linea, dritto dalla battaglia, e Romy ne riconobbe l’odore, lo conosceva bene. Trasudava dai feriti come un alito acre, era intessuto nelle fibre dei loro abiti, impastato nella peluria. Era il fetido tanfo della morte.
La mente cercò di fuggire, ma il fetore la catturò e la riportò indietro. Ricordò uno spiazzo lastricato alla luce fioca dell’alba. Il viso di Karim Abed era devastato. Era una giornata gelida, si sentiva la neve nell’aria. Il vento mordeva. Romy era arrivata decisamente troppo presto davanti al carcere Saint-Pierre, appena fuori Versailles, e per ore era rimasta ferma sul selciato nel buio che precede l’alba, il freddo che le cesellava i lineamenti. Era una forma di autopunizione. Autolesionismo, più che meritato. Farsi sferzare da quel gelo atroce mentre il rimorso le imperversava rovente e sulfureo nello stomaco. Costringere gli occhi a indugiare su quella nera mostruosità che era la ghigliottina, prefigurarsi il collo di Karim imprigionato nella lunette di legno, il collare che immobilizzava la testa del condannato. La lama che vi pendeva, sospesa. Pronta a calare.
Era vagamente consapevole della folla sgomitante che le si andava radunando intorno con l’approssimarsi dell’alba e dei gendarmi che la trattenevano, contenendola. Lo spazio immediatamente circostante il letale marchingegno veniva mantenuto sgombro, troppo pericoloso perché gli astanti vi mettessero piede. “Il rasoio nazionale della Francia”, così la chiamavano. Ciascuna macchina era costruita a mano, con amore: un’alta e snella impalcatura di legno, una bascule, la tavola basculante su cui veniva fatto stendere il detenuto, cinghie di cuoio per tenerlo fermo, una puleggia per la corda. E la lama. Gli occhi dei presenti non facevano altro che tornare a quella mannaia angolata. Romy l’aveva guardata una volta sola. Era stato sufficiente. Più che sufficiente.
Fatta d’acciaio, era fissata a un mouton, un grosso pezzo di piombo il cui compito era darle velocità. Peso: quaranta chilogrammi. Corsa: quasi due metri e mezzo. Romaine conosceva le cifre, conosceva ogni particolare. Aveva familiarizzato con i dettagli, sapeva come la flebile luce del lampione avrebbe gettato la sua ombra sul selciato.
Era successo in fretta, troppo in fretta. Il massiccio portone ad arco del carcere si era spalancato e il boia e i suoi tre aiutanti avevano condotto il detenuto verso Madame Guillotine.
«Karim!»
Il nome era riecheggiato al di sopra del boato della folla.
«Karim!»
Era la sua stessa voce? Le sembrava irriconoscibile.
Su un lato, una donna araba in prima fila strillava, ululava come un cane ferito. Si batteva il petto. Stringeva la mano di un bimbetto sui cinque anni, gli occhi turbati, colmi di terrore.
Karim era scosso dai tremiti, sussultava. Paura o freddo? Indossava solo una sottile camiciola bianca, il colletto spinto indietro a lasciare il collo bruno esposto alla lama. Gli occhi trovarono la donna araba e il ragazzo e per un istante le ginocchia gli cedettero, ma un secondino lo strattonò rimettendolo dritto, e in quel breve istante di disperazione lo sguardo di Karim allacciò quello di Romy. Gli occhi scuri si sgranarono per la sorpresa, e poi si riempirono di un cordoglio senza fine.
Non odio. Cordoglio.
Odiami, Karim. Odiami.
Finì tutto in pochi secondi. Il boia – un tipo tarchiato, Romy si era studiata perfino il suo nome, Anatole Deibler, e sapeva che aveva già condotto a morte trecentonovantacinque criminali nel corso della sua lunga carriera – fece un movimento fluido, esperto. Karim era a faccia in giù sulla bascule, la metà superiore della lunette gli venne calata sul collo e la lama la seguì in un lampo, separando la testa dal corpo in una frazione di secondo.
I guardoni esultarono.
Esultarono.
Romy desiderò solo crollare in ginocchio, piangere tutte le sue lacrime. Buon Dio, perdonami. Il corpo ruzzolò in una grossa cassa, la testa ricadde nel panier. La vista le si annebbiò, la cesta andò fuori fuoco attraverso il velo di lacrime. Nella mente, continuava a sentire la voce dolce di Karim. «Perché mi fa questo, Mademoiselle Romaine?»
Perché? Perché?
Perché non voglio morire.
Fu l’ultima ad andarsene. Nauseata e tremante e piena d’odio, si avviò senza un’intenzione precisa, ma poco avanti ravvisò la donna araba e il ragazzino. La donna che ancora gemeva esternando il suo immenso dolore. La moglie e il figlio. Accelerando il passo, Romy li seguì in silenzio per le vie di Parigi.
«Dove sei stata?»
«All’esecuzione.»
«Di Karim?»
Romaine annuì. La sorella la stava aspettando nell’atrio, la trascinò in sala da pranzo prima che la madre si accorgesse che era tornata. Le guance di Florence erano arrossate, gli occhi azzurri troppo luminosi.
«Non saresti dovuta andare.»
«Dovevo.»
Florence stava bene in nero. Le si addiceva, il contrasto con la giovane pelle nivea e i capelli biondo chiaro, ma non era in lutto per Karim Abed. Oh, per quello non c’era pericolo! Era appena morto il padre di Roland, un colpo apoplettico, e le gramaglie erano un modo per mostrargli rispetto.
«Hai un aspetto orrendo, Romy. Metti un abito decente, ti dispiace? Sembri una stracciona.» La giovane si diresse velocemente al mobile bar in palissandro e versò un doppio cognac. «Sta per arrivare Roland. Vuole parlarti.»
Romaine si sentì gelare il sangue nelle vene. Roland era l’unico, a parte sua sorella, che sapesse cosa aveva fatto. Non voleva parlargli mai più.
«Perché, Florence? Cos’è successo?»
L’altra le cacciò in mano il bicchiere. Romy detestava l’alcol.
«Bevi, sorella.»
Ubbidì, ingollandolo in due sorsate. Il liquore le bruciò le viscere, fu come avere ingerito fiamme vive. Florence la esaminò da vicino. Le piazzò una mano su ciascun lato della testa, come se volesse spremerne fuori il dolore.
«È andata, Romy. È finita. Adesso dobbiamo procedere con il resto delle nostre vite. Scorda Karim. Non esiste più. Non ne parleremo mai più.»
«Come può importarti così poco di lui?»
«Se mi stai chiedendo se avrei preferito vedere la tua testolina in quel panier al posto della sua, ebbene no. La risposta è no.»
Negli occhi della gemella c’era una ferocia che spaventò Romy. Si scostò. Andò a rabboccarsi il bicchiere e cacciò giù, sentendo che cauterizzava i bordi slabbrati del dolore.
«Cos’è successo, Florence? Cos’hai fatto?»
Il rossore sulle guance della sorella si intensificò. «Roland mi ha chiesto di sposarlo, e ho accettato.»
Una strana cortina, una sorta di nebbia, scese sugli occhi di Romaine. Fu travolta da un conato di vomito.
«Oggi? Te l’ha chiesto oggi? Di tutti i giorni possibili?»
«Sì.»
Romy attirò a sé la sorella e la cinse tra le braccia, cullandola dolcemente. La implorò in un sussurro. «Non sposarlo, Florence, ti prego. Ti prego, non sposare quell’uomo.»