Inginocchiata nella chiesa di Santa Casilda, Romy si protese su un soldato e prestò ascolto ai suoi lamenti. Tanto dolore, tutto in spagnolo. Non lo capiva, ma era in grado di mormorare dolci parole di conforto. Dal camion, i feriti erano stati trasportati nella sicurezza offerta da quell’antica casa di Dio per recare sollievo all’anima, mentre nel contempo si prestavano cure mediche al corpo. Dodici brandine di metallo erano state allineate lungo le pareti con precisione militare sotto lo sguardo attento dei santi, e un profluvio di letti improvvisati era stato sparpagliato ovunque sul lastricato. Fagotti di lenzuola, pagliericci, perfino le coperte da cavallo erano state precettate.
Romaine aveva lavato ferite con l’antisettico. Fasciato membra, ripulito vomito ed escrementi dal pavimento, tenuto mani. Più di tutto, aveva tenuto mani.
«Non lasciarmi.»
«Non ti lascio.»
Questo era inglese. Giovanissimo. Un membro delle Brigate internazionali, quei trentamila e rotti volontari da tutto il mondo che riponevano una fede così travolgente nel fronte popolare spagnolo e un’avversione così feroce per l’oppressione fascista da essere venuti fin lì a combattere per la libertà, rischiando la vita in suo nome. Romy avrebbe voluto stringere quel ragazzino ferito, abbracciare lui e i suoi ideali e dirgli di andare a casa dalla madre, nelle verdi lande dell’Inghilterra.
«Sei coraggioso» gli disse invece. «Un eroe. La Spagna è orgogliosa di te e ti è molto, molto riconoscente.»
Le sorrise. Un sorriso tanto debole che le colmò gli occhi di lacrime. Era in un bagno di sudore, i capelli scarmigliati, appiccicati alla testa. La gamba destra era ridotta in brandelli. Il dottore aveva quasi esaurito la morfina, i gemiti degli uomini si propagavano per la chiesa andando a fondersi con le preci trattenute dalle travi a vista del soffitto a volta.
«Non ti lascio» ripeté Romy, tamponandogli la pelle. Scottava, povero piccolo. Il ragazzo chiuse gli occhi, il respiro affaticato, le labbra morbide tese per il dolore. Per un lungo istante parve essersi addormentato, ma di colpo riaprì gli occhi e li fissò dritti nei suoi.
«Vedo un angelo.»
«Cosa accidenti ci fai qui dentro, Romaine? Ti ho cercato ovunque!» Era Martel.
Lei neppure alzò la testa.
«Per l’amor del cielo, Romaine, hai bisogno di dormire.»
Non gli rispose.
Una mano pesante le si abbatté sulla spalla, ma il tocco era affettuoso.
«Vieni, fuori di qui.» Una pausa. «Merde, Romaine, questo ragazzo è morto!»
Certo che era morto. Intorno a lei la gente moriva.
«Basta così, ragazza. Ti rendi conto di che ora è?»
Romy taceva. Stava pensando alla madre del soldato, in Inghilterra, che beveva il suo sherry, che indossava le sue perle. Che aspettava il figlio.
La voce di Martel la incalzò, impaziente. «Sono le due del mattino. All’alba devi volare.»
Romy giaceva su un pagliericcio in una stalla, un pastrano militare a proteggerla dal gelo. Dove l’avesse rubato Martel, non aveva idea. Era distrutta. Le faceva male tutto, dentro e fuori. Però non riusciva a dormire. Il suono dell’oscurità nella sua testa era troppo forte.
A due metri da lei, sulla destra, Léo Martel se ne stava a sua volta sul suo nido di paglia. Per quanto giacesse immobile, Romy sapeva dal suo respiro irregolare che neanche lui dormiva. Nella stalla non c’erano cavalli – li avevano requisiti i soldati? – e il buio era fitto, troppo per vedere qualcosa all’infuori delle esili strisce di nero più pallido che filtravano qua e là dall’assito che costituiva le pareti. L’aria della montagna aveva un profumo dolce, ma era ghiaccio nei polmoni. Tutto dentro Romy era ghiaccio.
«Martel?»
La risposta si fece attendere. «Dormi.»
«Perché la riunione è andata tanto per le lunghe? Cosa succede?»
«Non chiedere, Romaine. Te l’ho già detto, meno ne sai, meno sei in pericolo.»
Romy spinse da parte il pastrano. Sentiva dei sorci correre lì intorno. O erano ratti? Trascinandosi sul pavimento, andò ad accovacciarsi accanto a Martel.
«Non mi accontento di questa risposta.»
Impossibilitata a vederlo, si protese verso di lui nell’oscurità e gli strinse il braccio. I muscoli dell’uomo erano duri, tesi.
«Ho messo in gioco la mia vita portando qui te e i tuoi aerei.» Tenne la voce bassa, consapevole che tra quelle montagne il suono arrivava lontano, la notte. «Ho rischiato mille volte che un caccia Heinkel o uno di quei Fiat G50 italiani mi tirasse giù, e lo sai benissimo.»
Era qualcosa di cui non avevano mai parlato apertamente prima di allora.
«Ti ho portato informazioni. Pacchi dalla Spagna. Ho visto due uomini con una pallottola in testa. La nostra cellula decimata, altre costrette alla macchia. Ora due tedeschi d’alto rango mostrano un interesse decisamente poco sano nei miei confronti, per motivi che posso solo tirare a indovinare.» Gli scrollò il braccio. «Perciò, Léo Martel, non dirmi che non mi è consentito sapere cosa sta succedendo. Per la mia sicurezza. Al diavolo la mia sicurezza.» Si girò a sputare la sua rabbia nel buio. «Ho diritto a una risposta. Chi sta facendo tutto questo? Cos’è successo a quella tua riunione? Da chi devo guardarmi le spalle? Dimmelo. Cosa succede?»
Tacque, infine. Tirò il fiato. Sentiva una pulsazione sorda dietro gli occhi.
«Dimmelo, Martel. Me lo devi.»
Lui esalò un lungo sospiro, l’oscurità che celava quel che aveva negli occhi. Se ne stavano impietriti, quasi che l’immobilità potesse in qualche modo alterare il corso del tempo. Accelerarlo in avanti. O riavvolgerlo indietro. Qualunque cosa pur di uscire da quell’istante, da quel luogo, dalle parole non dette che si sfilacciavano tra di loro.
Alla fine l’uomo si alzò e andò in fondo alla stalla, dove un lucernario creava un rettangolo di buio un po’ meno buio.
«Vieni qui, Romaine.»
Gli ubbidì, e i visi divennero pallidi ovali. L’odore dei cavalli lì era più forte. Martel le mise le mani sulle spalle, come temesse di vederla scappare.
«Romaine, comprendo il tuo bisogno di saperne di più, perciò ti dirò almeno questo.» La voce era bassa, il viso incollato al suo, l’alito impregnato di nicotina. «Il colonnello Méndez ha scoperto che a Parigi qualcuno si è votato a eliminare i simpatizzanti della causa repubblicana spagnola. Simpatizzanti attivi.»
L’immagine di un terzo occhio, un occhio di sangue, le si affacciò alla mente.
«Grégory e François.»
«Così sembrerebbe. Il nome in codice dell’assassino è Cupido. È efficiente e letale.» La presa sulle sue spalle si rafforzò, e Romy capì che stavano per arrivare altre brutte notizie.
«All’alba leviamo le tende. Torniamo a Parigi, e quello sarà il tuo ultimo lavoro. Cesseremo ogni contatto. Farai armi e bagagli chiudendo quel buco che definisci casa e ti trasferirai in un posto nuovo. Ti fornirò io il denaro necessario per tirare avanti finché non troverai un altro impiego…»
Romy stava scuotendo la testa.
«Sì, Romaine. Non accetterò un rifiuto da parte tua. Sei fuori. È un assassino professionista, non un agente improvvisato che agisce come un cane sciolto.»
«No.»
«Sì. Devi starne fuori.»
«No. Sono parte di questa operazione.»
«È troppo pericoloso.»
«Lo è altrettanto per te.»
«Romaine Duchamps, non voglio la tua morte sulla coscienza.»
«Perché adesso, Martel? Perché tagliarmi fuori adesso? È la mia causa, proprio quanto è la tua. Voglio affossare il fascismo.»
L’altro la lasciò andare bruscamente ma lei lo bloccò, gli si aggrappò al giubbotto da aviatore. Un capo vecchio, familiare, che in qualche modo compensava la distanza che il suo proprietario stava cercando di frapporre a forza tra di loro.
«Cosa c’è? Cosa mi stai nascondendo?»
«Non c’è bisogno che tu sappia altro.»
«Sì, invece.»
Nella semioscurità, Romy vide le sopracciglia scure abbassarsi. Senza dire una parola, l’altro le cinse le spalle con un braccio e se la strinse al petto. La tenne lì, zitto e rassicurante, la guancia di lei premuta contro il vecchio giubbotto da aviatore. Odorava di spazi aperti, orizzonti infiniti e un’aria così pulita da scorticare i polmoni.
«L’assassino.» Martel parlò a voce tanto bassa che Romy dovette tendere l’orecchio per sentirlo. «Cupido. Pensano che sia tedesco.»
Tedesco?
C’erano miriadi di tedeschi a Parigi. Centinaia. Eppure, Romy sentì un brivido correrle lungo la schiena. Era assurdo anche solo pensare che Cupido potesse essere uno dei due tedeschi in cui era incappata di recente. Ma era chiaro che Martel non lo riteneva tanto assurdo. Ecco perché la voleva fuori. Per allontanarla dalle loro grinfie.
Cupido. Il dio dell’amore. Del desiderio.
Romaine si rivide danzare tra le braccia di Horst Baumeister.
Romy si rannicchiò sul suo lato di pagliericcio in posizione fetale. Martel la ricoprì un’altra volta con il pastrano, rincalzandoglielo intorno alle spalle, avvolgendocela. Poi vi affastellò sopra dell’altra paglia. La temperatura stava scendendo in fretta. Le accarezzò la testa, levando fili di paglia dai capelli, il pollice preoccupato per la rapida pulsazione alle tempie. Con dolcezza vi tracciò dei cerchi, quasi a volerne estrarre il dolore come fosse una scheggia.
Di fuori si era alzato il vento. Romy pensò all’aereo. Pensò al decollo in quella gola angusta e si rese conto che sarebbe stato come cercare di infilare il Gipsy Moth nella cruna di un ago.
«Adesso dormi. Dormi, accidenti a te!»
Impartito l’ordine, Martel si ritirò nel suo ricovero di paglia e presto scese il silenzio, ma la pelle di Romaine conservò l’impronta del suo pollice e, in un modo che non comprendeva, le fu di conforto. Nel corso degli anni gli uomini l’avevano toccata ovunque, ma mai lì. Mai così.