«Un aereo!» Romy prese a urlare. «Svegliati! Martel, sveglia!»
Gli assestò una pacca sul torace.
L’altro reagì immediatamente. Balzò in piedi imprecando, raggiunse le porte della stalla prima di lei. Non appena le spalancò, il ronzio del motore si fece più forte. Il velivolo era spuntato dal nulla, lacerando il sonno agitato di Romaine e facendola svegliare di soprassalto. Aveva ancora il fiato corto per il sogno, ma riconosceva il suono del motore di un aereo quando lo sentiva, anche se si trovava ancora sull’altro versante della montagna.
Romaine uscì nel grigio di quell’istante che precede l’alba di un soffio, quando il giorno comincia a sgomitare via la notte.
«Sono due.»
Martel annuì. «Già. Messerschmitt 109, a giudicare dal ronzio.»
Caccia tedeschi. La legione Condor.
Non c’erano aerei da abbattere da quelle parti. E allora perché…? Nessun aereo. Tranne il mio.
Un brivido di terrore le fece accelerare il cuore. Non perse tempo a parlare. Si avviò di corsa, filando a rotta di collo nella foschia grigia, derapando sull’acciottolato. Sentì Martel chiamarla ma non si fermò. Sfrecciò giù per la via centrale del paesino i cui abitanti ancora giacevano nei letti, a dormire o amoreggiare con le mogli, inconsapevoli di quel che stava per piombargli addosso.
«Alto!»
Davanti a lei un soldato di ronda si stagliò all’improvviso nel buio, il fucile armato e puntato dritto al suo cuore.
«Presto!» gli urlò di rimando. «Vite! Sta arrivando. Senti l’aereo? Bisogna avvisare tutti, dirgli di rimanere al coperto oppure…»
Il soldato le rispose in spagnolo. Buon Dio, non la capiva! Romy si scervellò in cerca del termine spagnolo.
«Rápido!» Indicò il cielo. «Messerschmitt.»
Il ragazzo alzò lo sguardo. Le sclere luccicarono e si sgranarono mentre scandagliava il firmamento. E di colpo lo sentì. Il rombo cupo di un motore Daimler-Benz, una sorta di tuono basso che riecheggiava tra le cime delle montagne. Senza indugio il soldato sparò tre colpi in aria per avvertire i compagni. E scoppiò il finimondo.
Romy appoggiò la mano sulla fiancata del Gipsy. La stoffa era gelida al tocco. Si poteva persino pensare che fosse spaventata. Il biplano era posteggiato in un campo appena fuori dal paese e Romaine corse alla staccionata che lo delimitava. Sull’altro lato, le sagome nere di due automobili erano nascoste sotto della tela cerata. Le aveva notate il giorno prima. Nessuno in Spagna aveva benzina per le auto, non di quei tempi. Quella che c’era, andava ai militari.
Le dita si mossero in fretta. Sganciati i teloni, Romy li trascinò fino al Gipsy, dove ne drappeggiò uno sulla coda e l’altro sull’elica e sulla carlinga. Non c’era niente che potesse fare per le ali, ma almeno, dall’alto e in quella nebbia fitta, il profilo avrebbe ricordato un po’ meno quello di un aereo.
Il rombo diventò un ruggito mentre il primo caccia irrompeva nella valle. Subito le raffiche di una mitragliatrice sventagliarono il paese, seguite da scoppi di urla. Romy tornò in fretta verso una delle ultime case e si appiattì contro il muro in cerca di riparo. Nella sua testa, i pensieri si rincorrevano confusi. Idee strane. Sensazioni strampalate. La ferma convinzione che fossero venuti per lei.
Che l’avessero stanata. Che avessero fiutato il sangue paterno sulle sue mani.
Perché non si può fuggire in eterno. Perciò uscì allo scoperto, sulla strada dove tutto era grigio e nebuloso. Forse in quel modo la carneficina sarebbe cessata. Non era necessario che morisse nessun altro.
Vide un aereo in fondo alla strada. Lo strepito del motore le riverberò nei polmoni mentre il velivolo si abbassava e volava dritto incontro a lei, come sulle tracce del sangue. Le mitragliatrici falciarono la strada, crivellarono le case in cui alloggiavano i soldati, mandarono in frantumi le finestre, divelsero l’intonaco.
Romy rimase immobile. Nel mirino. In attesa dei proiettili.
Intorno a lei grida squarciavano l’aria, urla si levavano raccapriccianti, spari partivano da terra, ma per Romaine il mondo intero sbiadì in un fondale indistinto mentre tutta la sua attenzione si concentrava sul Messerschmitt sempre più grande e nero sopra di lei, come la mano di Dio. Proprio allora, però, qualcosa la investì di fianco come un treno in piena corsa, spazzandola via dalla strada e scaraventandola in un androne. La forza del colpo la lasciò senza fiato e le fece vedere le stelle, tanto che per una frazione di secondo pensò che la morte fosse infine venuta per lei.
«Cosa accidenti stai facendo? Ti sei bevuta il cervello? Startene lì così, proprio sulla rotta del…»
D’un tratto comprese che era Martel. Il suono della sua voce si fece flebile. Tirando indietro una mano, lo schiaffeggiò in pieno volto, ancora, ancora. Lui però non la lasciò andare. L’aereo ruggì sopra le loro teste, le mitragliatrici che trovavano nuovi bersagli. Altri sarebbero morti al suo posto. Romy si accasciò contro il portone e sarebbe crollata a terra se Léo non l’avesse trattenuta in piedi, la presa sempre salda su di lei. Avrebbe voluto rimproverarlo, ma non aveva parole.
All’improvviso, un suono nuovo. Molto più alto, in cielo. Entrambi riconobbero all’istante il ronzio del motore di un aereo molto più grande. Non riuscivano a ravvisarlo nel grigio che si addensava intorno alle creste montuose, ma non ce ne fu bisogno. Sapevano bene cos’era.
«Un bombardiere.»
Martel stava ancora parlando quando il primo ordigno si schiantò al suolo. L’impatto fece tremare il terreno sotto i piedi di Romy, le lacerò i timpani. La facciata della casa di fronte crollò lasciando esposti un uomo e una donna seduti nel letto, nudi tranne che per una seconda pelle di polvere di cemento che li aveva trasformati in statue.
Altre bombe piovvero su di loro, deflagrazioni che squassarono il paese mentre iniziavano a divampare i primi incendi, subito pronti a propagarsi da un edificio all’altro. L’aria rabbrividì e si fece solida. I polmoni di Romy si saturarono di polvere e fumo, ma ancora peggio era la rabbia che le infuriava dentro facendole desiderare di artigliare quegli aerei, strapparli a forza dal cielo e guardarli schiantarsi al suolo e bruciare. Per tutto il tempo, Martel la trattenne nell’androne. Le impedì di uscire. Non badò alle sue grida iraconde, non finché continuò il bombardamento. Solo allora allentò la presa. Divincolandosi, Romy corse ad aiutare i feriti.
Lavorarono fianco a fianco, scavando tra le macerie a mani nude, sollevando travi cadute a schiacciare arti, ripulendo visi dal sangue. I militari entrarono in azione con disciplina ed efficienza, estrassero intere famiglie dalle rovine, domarono incendi, rimossero i detriti che bloccavano le strade.
A un certo punto, proprio quando il primo scorcio di alba iniziava a rovesciarsi sulle cime e a tingere d’oro il primo angolo di valle, Romy ripiegò dietro i cavi del telegrafo che, recisi, si contorcevano a terra come neri serpenti. Voleva tornare al campo dove era occultato il suo biplano, ma sapeva già cosa avrebbe trovato.
Il Gipsy Moth era stato letteralmente dilaniato. La carcassa di legno e metallo fatta a pezzi, le viscere di fuori come un’offerta sacrificale alla nera terra, e un bambino stava già sgraffignando uno dei magneti d’accensione. Romaine crollò in ginocchio, lo sguardo vitreo. Raccolta una scheggia della lucida elica in legno, prese a cullarla tra braccia tremanti, incapace di lasciarla andare. Non si rese conto di essere in lacrime quando risalì la strada, diretta alla chiesa. Di certo avrebbero avuto bisogno del suo aiuto. Ora più che mai, in quell’ospedale improvvisato.
Ma la chiesa era stata colpita. Non era rimasto niente, né dell’edificio né delle persone che aveva accolto.
«Cos’è successo, Martel?»
«Siamo stati traditi.»
«Da chi?»
«Non lo sappiamo per certo. Ma te l’ho detto, hanno occhi e spie ovunque.»
«Avrete bene un’idea di chi potrebbe…»
«Se ce l’avessimo, ti assicuro che quel tizio sarebbe appeso per i testicoli all’albero più vicino, con la gola squarciata in due.» Il tono era quieto ma si sentiva la rabbia che ribolliva sotto la superficie di ogni sillaba.
Stavano viaggiando nel retro di un furgone sgangherato che si inerpicava ansimando su per un valico di montagna, le marce che funzionavano alla bell’e meglio. Un’avanzata lenta. Un partigiano spagnolo era imbozzolato in una coperta il più lontano possibile da Martel, lo sguardo glaciale e diffidente mentre si faceva scrocchiare le nocche una dietro l’altra, con accanimento, una sigaretta penzoloni dalle labbra. Era vestito di scuro, non sapeva una parola di francese e aveva una carabina sulle ginocchia. Era la loro guardia del corpo.
Ma chi vuole uno sconosciuto come guardia del corpo quando un intero paese è appena stato messo a ferro e fuoco, gli abitanti massacrati, e la fiducia si è trasformata in un pesce che sguscia di mano?
Il camioncino tremava e sobbalzava. La strada era impervia. Martel taceva, in viso un’espressione truce, gli occhi inchiodati sul soldato. Erano diretti alla stazione ferroviaria di Marsiglia, ma prima dovevano riuscire a superare il confine tra Spagna e Francia. Il sole picchiava forte, nel retro del furgone faceva un caldo del diavolo e l’aria era pesante, affumicata dalla sigaretta. Eppure, Romy avvertiva un gran freddo. E lì dentro si sentiva alle strette. Perché non c’erano solo loro tre. Romaine si era portata appresso lo spirito del suo piccolo biplano fatto a pezzi, e i fantasmi di tutti i morti di Santa Casilda. Giacevano ai suoi piedi, e le sfioravano la pelle con dita gelide.
D’un tratto, una domanda le si affacciò alla mente. Sarebbe mai riuscita a perdonargli di averle salvato la vita?
E poi c’era il suo rovescio, l’altra faccia della medaglia: Léo Martel sarebbe mai riuscito a perdonare lei per avergli fatto rischiare la vita?
Avere qualcuno che cerca di ammazzarti è una questione personale, molto personale. Forse il pilota del caccia voleva spuntare il suo nome da un elenco, o forse no, ma di sicuro l’aveva vista bene mentre se ne stava là in mezzo alla strada, ed era per lei che aveva fatto fuoco. Se Martel non le si fosse gettato addosso, sarebbe morta. Il suo cadavere sarebbe stato con gli altri, accatastati nel camposanto, assediati dalle mosche.
Chissà Florence. La sua gemella. L’avrebbe sentito? Avrebbe percepito l’istante in cui il suo cuore avesse cessato di battere?
«Stai borbottando nel sonno.»
Romy spalancò gli occhi di colpo. Martel incombeva su di lei, i capelli impolverati che si stagliavano contro la volta celeste e argento del cielo, e sorrideva, come se lei avesse appena fatto qualcosa di buffo.
«Io non borbotto nel sonno.»
«No, eh? E allora chi è Florence?»
Oddio! L’aveva detto ad alta voce? Tutta quella storia del cuore che si ferma…
Batté rapida le palpebre, del tutto sveglia ora. Era seduta al limitare di un campo di grano spennacchiato, la schiena appoggiata a un vecchio nocciolo nodoso, l’aria che scintillava nella calura. Si era assopita? Fissò Martel. Cos’altro aveva detto? La scrutava con un’intensità che la spinse a distogliere lo sguardo.
Gli porse la mano. «Grazie, Léo Martel. Merci.»
«Per cosa?»
Era stupito, come se un ringraziamento fosse l’ultima cosa che si aspettava da lei, ma accettò la stretta di mano.
«Per avermi salvato la vita.»
«Ma figurati.»
Romy non disse altro. Se a lui stava bene così, non aveva nulla da obiettare.
Si stavano riposando. Il furgone era rimasto tra i monti. Da lì erano scesi in Francia a piedi servendosi di una serie di tratturi, il soldato spagnolo a fare da guida. Era ancora con loro, seduto una ventina di metri più in là, intento a rosicchiare una striscia di carne secca mentre con occhi di falco sorvegliava ogni albero e avvallamento del terreno in cui si sarebbe potuto appostare il nemico. Martel aveva camminato per ore, la zoppia più pronunciata a ogni chilometro. Né lui né Romy vi avevano fatto cenno.
Era stata lei a chiedere una pausa in quel campo di grano. Aveva cavato una bottiglia dalla solita tracolla, un orrido torcibudella che osavano chiamare “vino rosso”, e se l’era rovesciata direttamente in gola. Martel non aveva commentato, ma neppure partecipato. L’uomo indossava una camicia scura e un paio di pantaloni grigi, ma non aveva più la giacca. Romy si guardò intorno. Non c’era più neanche la bottiglia di vino.
«Romaine, sono anni che ti vedo cercare il suicidio, e oggi quasi ci riuscivi. Dimmi perché. Da cosa stai scappando?»
Gli scoccò un’occhiata allarmata. Le teneva ancora la mano.
Scosse il capo, e dai riccioli corti le piovve in grembo polvere di cemento. «No, Martel, hai frainteso. Mi piace correre rischi, tutto qui, proprio come facevi tu quando eri un pilota acrobatico. Quel bisogno di adrenalina, ce l’abbiamo nel sangue. Tutto qui.»
Romy saltò in piedi e si rimise la tracolla in spalla, ma lui continuò a tenerle la mano, costringendola a guardarlo.
«Che c’è?»
Erano tanto vicini che gli poteva vedere il fondo degli occhi grigi. Giù giù, fino all’essenza. Acciaio puro.
«Non ho frainteso. Proprio per niente.»