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Florence

Sono inquieta.

I piedi mi si incollano all’asfalto mentre procedo con le mie scarpe marrone chiaro a tacco alto, ogni passo richiede grande sforzo. È un brutto segno.

È sparita. Mia sorella. Scomparsa. È venuta a trovarmi ma non c’ero, e ha parlato con Roland. E adesso non la si trova da nessuna parte. Cosa le ha detto?

Cosa? Cosa?

Niente menzogne. Non questa volta.

Sto scendendo lungo rue Bascome e quando supero la caffetteria Dominique, l’aroma mi attira a sé. Potrei prendermi un caffè qui, un rifugio momentaneo, i tavolini che mi tentano dall’ombra. Oppure potrei sedermi un attimo al Coq d’Or, con il suo virgineo tovagliato bianco. Lì i cocktail sono magnifiques. Mia sorella venderebbe l’anima per berne uno.

Ma no. No. Non lo faccio. Continuo a camminare. A dispetto dei miei piedi.

È una bella via. Ma Parigi ne ha tantissime di vie gradevoli, abbiamo l’imbarazzo della scelta. Idem per le puttane. Una cornucopia di boulevard alberati e begli edifici, tutti a un’altezza ben precisa e regolamentata così da mettere in risalto la gloria torreggiante delle nostre chiese. Mi piace questa cosa. Mi piace andare a zonzo per Parigi nel mio nuovo Schiaparelli. Mi calma. Passeggiare tra gli innamorati lungo la riva della Senna e ascoltare lo sciabordio delle sue acque che lambiscono gli argini. Ricevere la serenata dai suonatori di fisarmonica. È inebriante. È normale. È quello che fanno tutti.

No?

Eppure, oggi sono inquieta.

Dov’è finita Romaine?

È un pezzo che la tengo d’occhio. Dentro di lei c’è un vulcano in piena attività, sprizza scintille di terrore fuso quando meno te lo aspetteresti. Come al Monico. Nel bagno delle signore. La mia paura è che tutta questa lava ci si rovesci addosso e finisca per liquefarci, fondendoci insieme.

E allora?

So che, quando pilota quel suo aereo, in realtà sta fuggendo da qualunque cosa la terrorizzi quaggiù. Ogni secondo che è là in alto, è in pericolo di vita. Eppure ne ride, come un bambino che giochi col fuoco, anche se ogni volo la cambia. Lo vedo. Ogni volo la affila. Come una lama sulla cote. Vedo i suoi bordi farsi più aguzzi e pericolosi.

Finirà per tagliarsi.

Oppure taglierà me.

Entro nell’Hôtel Farrelle. Lui è qui. Sapevo che ci sarebbe stato, proprio come so che non sospetta affatto della mia presenza. Lo vedo attraverso le porte di vetro che si aprono sul bar. Entro, e il locale mi si allunga davanti in un mare di moquette azzurra e specchi dalle cornici dorate. Cerco un posto presso le finestre ad arco, il più lontano possibile dal pianoforte. Lo strumento è di un bianco accecante, bianco come un dente da latte, ma mani color caffè stanno costringendo i tasti a produrre qualcosa che è arduo definire melodia. Ultimamente il jazz furoreggia, a Parigi. Non si riesce a muovere un passo senza inciamparci, ma per quanto mi riguarda datemi Chopin, grazie.

Ordino un caffè. Lo sguardo mi scivola sull’uomo che si puntella al pianoforte con un gomito. Abito elegante. Gessato, costoso. Cravatta in seta grigio perla, scarpe magnifiche. Mi piacciono le belle scarpe su un uomo. Sono segno di integrità. Sta battendo il palmo della mano sul lucido coperchio bianco del pianoforte, si gode il ritmo sincopato. I capelli biondi sono folti e voluminosi ma la scriminatura è impeccabile. Un viso gradevole, lineamenti regolari. A salvarlo dal piattume, la piega divertita della bocca e l’azzurro intenso degli occhi. Il tipo di azzurro che fin qui avevo visto solo nella scatola dei pastelli di Chloé. L’espressione è aperta. Nessun segreto, proclama.

Mente. Io lo so.

Mi giro dall’altra parte e aspetto che sia lui a vedermi, ma dopo diversi minuti ancora ha occhi solo per i tasti, perciò quando arriva il mio caffè faccio in modo di urtare il vassoio così che scivoli a terra in un acciottolio di porcellane infrante. Allora sì che mi guarda. Mi raggiunge a grandi falcate, la mano protesa.

«Florence, quale inatteso piacere. Cosa ci fa qui?»

Accetto la mano e il mezzo inchino alla tedesca. «Dovevo incontrare un amico, ma ha appena disdetto.» Mi riprendo la mano. «Potrebbe essere lei a farmi compagnia, Horst. Se le va, beninteso.»

Horst Baumeister, l’omologo tedesco di mio marito. Prende posto sulla sedia accanto alla mia con un sorriso smagliante e chiede altro caffè, una volta che il pasticcio è stato ripulito. Porto i capelli sciolti sulle spalle e l’abito azzurro chiaro plissettato con il colletto bianco. Mi dà un’aria innocente.

«Ha appuntamento con qualcuno?» domando cortese.

«No, alloggio qui.»

«Ma davvero?» Come se non lo sapessi. «Che coincidenza!»

La conversazione sprofonda in una di quelle voragini di silenzio che, quando si spalancano, è difficilissimo colmare.

Ci provo. «Le piace la musica?»

«Eccome. Magnifico questo arrangiamento di Count Basie.»

Inarco perplessa un sopracciglio. «Pensavo che il vostro Führer ritenesse il jazz primitivo e depravato. Goebbels l’ha definita una musica degenerata.» Gli rivolgo un sorriso dolce. «In Germania l’hanno vietato, se non erro. Non concorda con loro, Horst?»

C’è un istante, tanto breve che è quasi come se non ci fosse, un istante in cui le labbra gli sbiancano e le iridi si sgranano in enormi gallerie buie. E poi passa.

«Ah, Florence, non è la musica jazz di per sé ciò che non ci piace. Anzi, in Germania è parecchio popolare.» Si protende in avanti, abbassa la voce. «Sono i musicisti jazz a preoccuparci, i negri e gli ebrei che la suonano.»

Allaccia gli occhi ai miei. Poi torna il sorriso.

«Florence, lei e io la pensiamo allo stesso modo. Forse abbiamo gusti musicali diversi, ma questo è permesso.»

Scoppio a ridere. Non riesco a evitarlo.

«Ha ragione, Horst. Sappiamo entrambi che l’unica via per l’Europa è gettare a catafascio i confini assurdi fissati dal trattato di Versailles. La lungimiranza di Hitler rimetterà in piedi tanto l’economia della Francia quanto quella della Germania, se lavoriamo insieme.»

Horst è compiaciuto. Glielo leggo negli occhi azzurri. Sorbiamo il nostro caffè e passiamo a lodare l’atteggiamento del primo ministro britannico, Neville Chamberlain. Sta facendo pressione alla Francia affinché persuada la Cecoslovacchia ad accettare le richieste di Hitler riguardo ai Sudeti. A mostrarsi disponibile. Entrambi adoriamo il termine disponibile. È deliziosamente civile.

Nessuno dei due accenna al fatto che per i trasporti le nostre truppe fanno affidamento essenzialmente su cavalli, anziché su veicoli motorizzati. Che idiozia d’altri tempi. Sono tentata di rivelargli che, in un documento che ho visto sulla scrivania di mio marito, si dichiarava che la spesa per il combustibile nell’esercito francese non ammonta neanche a un quarto di quella per la biada.

Sembra impossibile. Mi viene da ridere, da quanto è incroyable.

Però adesso che La Chambre ha preso il posto di Pierre Cot il traditore come ministro dell’Aeronautica e ora che l’annessione dell’Austria alla Germania nazista ha sferrato ai nostri politici il calcio nel sedere di cui avevano bisogno, la Francia ha deciso di commissionare cinquemila nuovi velivoli. Ma queste cose Horst le sa già. Perché gliele ha dette mio marito.

Ordiniamo del vino. Aspetto fino a quando la bottiglia è quasi vuota prima di posare la mano sulla sua. Un tocco lieve. Ma basta a inchiodarlo dov’è. Sento un brivido sorpreso corrergli dentro.

«Horst, mein Freund, mi dica, perché si interessa a mia sorella?»

Con mio grande stupore, arrossisce come uno scolaretto.

«Mi piace. Mi piace molto.» L’accento tedesco peggiora per l’imbarazzo. «È una giovane donna parecchio interessante.»

«Non posso negarlo.»

«Lei ha qualche obiezione in proposito?»

«No, certo che no.»

E invece ne ho. Ne ho eccome. A valanghe. Quest’uomo non la merita.

Horst sottrae la mano alla mia presa e alza il bicchiere. Sorride. «Ai gemelli.»

Gli faccio eco. «Ai gemelli. Purché non abbia altri motivi per interessarsi a lei.»

«Quali altri motivi?»

«Non le faccia del male, Horst.» Distolgo lo sguardo e lo poso sul pianoforte, così che il tedesco non veda quel che celano i miei occhi. «O le garantisco che se ne pentirà.»