È peccato. Uccidere qualcuno. Sottrarre una vita umana. È un accidente di peccato mortale.
La consapevolezza piombò su Romy mentre giocava a carte con Joséphine Baker. Ancora e ancora, l’asso di picche – la carta della morte – si ostinò a finire in mano sua. Quella notte la perseguitava, tant’è che quando un colpo leggero echeggiò sulla porta della sua cuccetta era convinta che dall’altra parte avrebbe trovato ad attenderla la spettrale figura del Tristo Mietitore. E invece era una persona bardata di nero, qualcuno che conosceva bene.
«Martel!» Lo fece entrare in fretta.
Vederselo davanti, solido e incolume, la fece diventare languida. Gli si strinse forte, decisa a sottrarlo agli artigli avidi della Morte.
«Romaine, sei ubriaca.»
Ma non era un’accusa. Nelle sue parole non c’erano rabbia o furore. Erano soffici e silenziose e fresche come neve sulla sua pelle arroventata. Le braccia dell’uomo la tennero stretta, le impedirono di cadere quando il dondolio del treno minacciò di sbilanciarla. Romy avrebbe voluto spiegargli che era terrorizzata per lui, ma le parole seguitavano a sfuggirle scivolando sulla lingua, e così si limitò ad appoggiargli la guancia sul torace. Sentì la sua mano sostenerle la nuca, la testa, i pensieri, come se capisse quanto pesavano.
«E tu chi sei?» lo udì chiedere a Joséphine. Il tono era ostile, sospettoso.
È amica mia. Ma la frase le rimase imprigionata in gola.
«Sono Joséphine. L’adorabile Romy e io abbiamo trascorso la serata insieme. Quindi tu saresti il suo capo, giusto?»
«Esatto.»
«Be’, mio caro, la nostra cara amica, qui, stava andando fuori di testa all’idea che i gendarmi potessero interrogare anche te. Voleva venire a cercarti, ma aveva paura che l’inserviente o la polizia la stessero ancora controllando. Non voleva essere lei a condurli da te.» La cantante emise una delle sue contagiose risate. «Mon Dieu, non guardarmi con quella faccia. È stata peggio di una tomba, ha tenuto la bocca cucita. Non so niente di quello che state combinando, anche se ammetto di essere curiosa come una scimmia.»
Martel si rivolse a Romy. «Ho visto la polizia smontare dal treno senza di te, ma non ho osato avvicinarmi finché l’inserviente era sulla sua sedia. Ora è andato in bagno. Stai bene?»
Romaine annuì. In realtà non si sentiva affatto bene. La testa sembrava staccata dal corpo. Cingendole le spalle con un braccio, Martel la accompagnò al letto con grande premura. Joséphine sedeva a un’estremità con il suo cagnolino, un viso talmente riposato da far rabbia, le carte ancora in mano. Accanto alla postazione occupata da Romy, un mucchio disordinato di banconote. Joséphine si rimise Mimi sotto il braccio e si accinse a levare le tende, ma per raggiungere la porta dovette strizzarsi accanto a Martel. Nel farlo, gli passò le unghie cremisi sul braccio.
La voce uscì in un mormorio strascicato, seducente. «Accidenti, è riuscita a spennarmi pur essendo ubriaca persa. Mi auguro che tu non sia il tipo che si approfitta di una ragazza quando non è in sé.»
Martel fece coricare l’altra con mille attenzioni, neanche fosse fatta di cristallo.
«Nossignora.» Dalla sua posizione, Romy lo vide sforzarsi di soffocare un sorriso. «Non sono il tipo che salterebbe addosso a una donna nel cuore della notte.»
Il sorriso ebbe la meglio e gli si allargò in volto, e Romaine avvampò, ricordando le parole che gli aveva rivolto prima. Con una risata affettuosa, Martel le posò un bacio sulla fronte.
«Dormi bene. Ci vediamo domattina a Parigi.»
Gli si rivolse borbottando, d’un tratto arrabbiata con lui. «Perché no, Martel? Perché non mi salteresti addosso? Sono troppo sporca per te?»
«Non farlo, Romaine.»
Sentì la sua mano sulla testa, il calore che si faceva strada tra i riccioli.
«Vattene! Andatevene, entrambi! Lasciatemi sola!» Romy si nascose il volto con una mano.
Joséphine scoppiò a ridere. «È il bourbon a parlare. Ignorala. Domani mattina starà meglio.»
Martel esalò un sospiro. «Non penso che sappia come stare meglio.»
Uscirono insieme, spegnendo la luce. Romy rimase a giacere al buio, odiando Martel e il bourbon. Odiando il denaro, che nel frattempo era scivolato a terra. Odiando i sogni, che sapeva attenderla al varco.
Odiando se stessa.
Il cielo era grigio ardesia. Gocce di pioggia aderivano al finestrino e sfocavano il panorama mentre il treno si avvicinava a Parigi. Romy sedeva con il suo vestito nero tutto stazzonato e un mal di testa lancinante, una caraffa di caffè che si era fatta portare dall’inserviente e in corpo una rabbia furibonda. Rabbia contro se stessa.
Cosa le era saltato in mente? Come diamine aveva potuto pensare che perdersi in una bottiglia di bourbon avrebbe risolto qualcosa?
Sei ubriaca. Così le aveva detto Martel. Lo sguardo che aveva negli occhi quando aveva pronunciato quelle parole. Non riusciva a toglierselo dalla mente. Era una barriera tra lei e il resto del mondo. La faceva sentire scorticata, come se il suo interno, la parte più tenera, fosse esposto. Sedeva nella più completa immobilità. Perché persino l’aria le feriva la pelle.
Joséphine Baker l’aveva raggiunta fresca come una rosa dopo essersi goduta la colazione nel vagone ristorante, splendida in giacchetta attillata e pantaloni harem color cioccolato al latte. Solo un leggero rossore degli occhi rivelava i bagordi della sera precedente.
«Ehilà, qualcuno non è proprio in forma smagliante, questa mattina.»
Aveva riso, una risata troppo forte. Romy l’aveva sentita artigliarle la pelle.
«Tieni, prendi.» Romaine le aveva restituito le vincite della partita di poker. «Ti chiedo scusa, Joséphine. Non avrei dovuto infierire così, ieri sera.»
«No, non avresti dovuto, ingrata creatura! Ma immagino che tutto sia lecito in amore e nel gioco.» Ed era uscita senza intascare il denaro, un sorriso indulgente stampato in volto.
Solo quando si era girata di nuovo verso il finestrino, Romy si era accorta che stavano rallentando. Non erano previste fermate prima di Parigi. Sentì i freni. Si stavano fermando nel bel mezzo del niente.
«Ci segua.»
Romaine avrebbe preferito accompagnarsi a una serpe.
Un gendarme in uniforme sbarrava l’uscita del suo scompartimento, un altro era dentro insieme a lei, una presenza soffocante. L’uomo odorava di pioggia e sudore rancido. Aveva una faccia larga, compiaciuta, la faccia di uno che si diverte un mondo.
«Perché?»
«Dobbiamo farle qualche domanda.»
«A che proposito?»
«Si limiti a prendere i suoi effetti e seguirci.»
«Dove mi portate?»
«Alla stazione di polizia.»
L’uomo indicò due volanti visibili dal finestrino, parcheggiate nel campo di grano che correva parallelo ai binari.
Parcheggiate in un campo di grano?
Non potevano aspettare che il treno arrivasse a Parigi? C’era qualcosa che non andava. La polizia non parcheggia nei campi. O sì? Eppure le vetture erano autentiche, le uniformi erano autentiche, e quelli che le avevano mostrato erano autentici distintivi.
Martel, stai bene? Sono venuti anche da te? Come facevano a sapere che siamo qui? Romy avrebbe voluto spintonare via i due uomini, sfrecciare lungo il corridoio e volare da lui, ma non mosse muscolo. Non sarebbe stata lei a condurli da Léo.
Ci poteva essere un solo motivo se avevano fermato il convoglio fra una stazione e l’altra: volevano farla scendere di nascosto. Ma perché? Non aveva senso. Con un nodo allo stomaco, il cuore trasformato in un macigno e la bocca secca come la bottiglia di bourbon sul letto, Romaine li lasciò ad aspettare tutti impettiti mentre finiva il caffè. Quando posò la tazza, la sua mano era ferma. Almeno quella soddisfazione.
Chissà se dal suo scompartimento Joséphine Baker aveva sentito i poliziotti? E, in tal caso, si sarebbe presa la briga di andare ad avvisare Martel?
Romy afferrò la borsa. Era pronta.