25

Florence

Detesto la colazione. Mi dà sui nervi. Fosse per me, la salterei. Per amore di Chloé, invece, spilucco il mio croissant. Le piace avermi qui al tavolo, anche se passa l’intero pasto con il naso in un libro. Oggi è Patapoufs et Filifers.

Roland mi siede di fronte, muto, gli scorgo a stento la cima della testa dietro le pagine di «Le Figaro». A intervalli regolari diventa visibile quando si gira verso la tazzina di caffè. Li ho rimproverati spesso per questo sfoggio quotidiano di maleducazione, ma non riesco a levare l’abitudine a nessuno dei due.

Osservo il viso sereno di mia figlia e, come sempre, ne sono ammaliata. Potrei stare a guardarla per ore. Anche mentre legge i suoi lineamenti sono mobili e vivi, espressioni preoccupate o divertite le guizzano sul faccino come raggi di sole sull’acqua, mutandolo di continuo. Possiede i bellissimi occhi azzurro fiordaliso di mia madre e la sua fronte alta, ma c’è qualcosa di papà nella forma della testa, qualcosa di lui nella linea squadrata della mascella. A volte, mentre dorme, faccio correre un dito proprio lì, vi indugio, e immagino di essere di nuovo con papà. Un giorno glielo racconterò. Ma non oggi.

«Cosa farai oggi, Florence?» si informa Roland.

Mio marito spiana e ripiega perfettamente il giornale, poi mi scruta attento. Me lo chiede ogni mattina. Chloé alza gli occhi dal libro, in attesa della mia risposta. Mi tengono d’occhio, questi due.

«In mattinata ho appuntamento per la manicure, poi pranzo con Marianne Rambert a L’Étoile. E dopo andiamo a una conferenza in rue de Rivoli, l’oratore è Jean-Paul Sartre.» Sorrido a entrambi. «Soddisfatti?»

Mi sorridono. Sì, sono soddisfatti. Non hanno sentore della menzogna.

La pioggia è cessata. Supero una donna che si sta lavando i capelli in un secchio sul marciapiede. La fisso, sconvolta. Mi sorride sdentata, le getto una moneta perché cos’altro potrei fare?

Come può mia sorella vivere in una via dove la gente si lava i capelli in un secchio? Per strada. Per quanto seguiterà ad autopunirsi in questo modo? Ha amanti ma non amore. Con i compagni di bevute si gode l’allegria, ma non assapora la felicità. Gli occhi le si illuminano solo per due cose: quei suoi accidenti di aeroplani, e Chloé. Ama entrambi di un amore appassionato. Molto più di quanto non ami me. Io riesco a perdonarle tutto quel blaterare idealistico e “di sinistra”, ma lei non riesce a perdonare a me la posizione destrorsa e filonazista. Non esiste un terreno neutro su cui possiamo incontrarci. Tranne Chloé. È lei la nostra terra di nessuno. Il fulcro dei nostri affetti. In lei vediamo la parte migliore di noi.

Il portone del suo palazzo è fortunatamente aperto, ma mi ritrovo la strada bloccata da un paio di enormi natiche femminili fasciate in una frusta vestaglia da casa. La donna è giù ginocchioni a strofinare soglia e ingresso. Un gesto davvero audace, in mezzo a tutta la sporcizia che la circonda.

La saluto. «Bonjour, Madame.»

La portinaia si issa in piedi, le mani sui fianchi ampi, lo straccio bagnato che penzola tra le mani. L’espressione è stizzita, ma poi nota il mio abito d’alta sartoria color pastello e il cappellino frivolo ed elegante e mi sorride zelante.

«Buongiorno a lei, Madame. Come posso aiutarla?»

«Sono venuta a trovare Mademoiselle Duchamps. Sono la sorella.»

Mi studia i lineamenti, interessata. «Ma certo che lo è. Vedo la somiglianza. Però la signorina non c’è.»

«Oh, no, avevo bisogno di parlarle con urgenza. Che seccatura! Per caso sa dove si trova?»

L’altra socchiude gli occhi. Guardinga, ora. «Fuori.»

Non insisto. Invece, estraggo duecento franchi dal borsellino e glieli faccio scivolare nella tasca della vestaglia sbiadita. Nessuna delle due ne fa cenno.

«Crede che potrei aspettare nella sua stanza finché non rientra?»

«Potrebbe essere una lunga attesa.»

Sorrido con fare incoraggiante. «Correrò il rischio.»

«Resti qui.»

Ciabatta via inoltrandosi nelle viscere dell’edificio ed è di ritorno dopo appena un paio di minuti con un mazzo di chiavi.

«Di sopra.» Comincia a inerpicarsi, le chiavi che tintinnano.

La seguo.

La stanza non è cambiata dal giorno in cui abbiamo ballato insieme. È sempre orrenda. Peggio che orrenda. Nel secchio di zinco al centro del locale ci sono almeno dieci centimetri d’acqua – questa notte c’è stato un mezzo nubifragio – e l’aria è umida e maleodorante, ma mi costringo a non badarvi. Non sono qui per la stanza.

Sono qui per i suoi segreti.

Per prima cosa controllo quali capi ha nell’armadio. Rimango sconcertata da quanto pochi e miseri siano. Un paio di gonne, un abito, tre camicie, un paio di pantaloni neri. Un maglione. Un cardigan. Tutto qui. Immagino che in questo momento stia indossando la tenuta da aviatrice, visto che non è qui.

Dove sono gli indumenti che le ho regalato io? Bluse di seta, sottovesti, un abitino estivo. Dove? E dove ha messo lo Schiaparelli che ha indossato da Monico?

Spariti. Cosa ci fa? Li regala? Li vende? Qualunque cosa, immagino, piuttosto che tenerli nella sua stanza, dove li avrebbe sotto gli occhi. Se li guarda, le tocca pensare a me, e chiaramente le è intollerabile. Una vena prende a pulsarmi nella gola e non riesco a farla smettere, ma so bene cos’è. Amarezza. Sono ferita.

«Romaine» dico in un sospiro, ad alta voce.

Il nome riverbera contro le pareti, scatenando un vortice di ricordi. La voce di mio padre, secca, incalzante. Romaine, posa quel tagliacarte.

Il groppo di angoscia in gola è tanto stretto che mi impedisce di deglutire. Volto le spalle ai suoni e alla loro eco e ispeziono la camera. Prendo le distanze dal dolore. Dalle voci. Non sono molti i luoghi in questa stanza in cui si possano nascondere dei segreti. C’è soltanto una scatoletta che però non contiene nient’altro che cianfrusaglie, tre mazzi di carte da gioco, una spazzola per capelli, un temperino e, sorprendentemente, un set di scacchi in legno scuro. Dico “sorprendentemente” perché non sapevo che mia sorella giocasse a scacchi. Mi chiedo con chi lo faccia.

Guardo sotto il letto, mi appiattisco sulla pancia per sbirciare fino in fondo. Ma certo. Me lo sarei dovuta aspettare, eppure riesce a spiazzarmi e mi sento stupida per essere stata tanto ingenua. Qui sotto c’è una sfilza di bottiglie di whisky, tutte nascoste come se avessero paura della luce. E tutte vuote, tutte e dodici. Lo stomaco mi si rivolta per il disgusto.

Tutto qui, apparentemente. Si direbbe che la stanza non celi nient’altro. Che non abbia altro da dirmi. Se non fosse che conosco mia sorella come le mie tasche e quindi so esattamente dove guardare. Tiro indietro il copriletto rosa polvere che io stessa le ho regalato e scalzo il lenzuolo. Mi bastano cinque secondi per trovare il taglio nel materasso, tenuto chiuso con una stringa.

La sciolgo, infilo la mano ed estraggo un sacchettino di stoffa. Si porta dietro pezzi di crine dell’imbottitura, ma lo ripulisco e apro i lacci. Boccheggio. Romaine. Mi aspettavo un gruzzoletto nascosto, ma non un capitale del genere. Non sto a tirar fuori le banconote, non le conto, ma è evidente che si tratta di una cifra notevole. E allora perché viene a chiedere soldi a me? Be’ sorellina, sono colpita. Ti dai al risparmio, per forza vivi come una poveraccia.

Suonerà strano, ma sono fiera di lei. Ha un obiettivo. Mi accoscio e cerco di capire qual è, finché mi si affaccia alla mente in un istante di assoluta lucidità. So che ha solo due passioni, Chloé e gli aeroplani. Ora, Chloé non ha bisogno dei suoi soldi. Quindi è ovvio. Mia sorella sta mettendo da parte il denaro per acquistarsi un aereo tutto suo.

Rabbrividisco. Un po’ è orgoglio, un po’ paura. Che sciocca sono, avrei dovuto capirlo già anni fa. La ricordo ancora piccola mentre fissa la fotografia dell’aviatrice Elise Raymonde Deroche appesa alla parete e giura che un giorno possiederà un aereo tutto suo. Il faccino determinato, la vocina che tuona nella stanza. Facendomi sussultare.

Oh, Romaine, stai attenta! Un giorno di questi ci lascerai la pelle, su quei tuoi aerei.

Al pensiero mi si raggela il sangue. Mi affretto a richiudere i lacci, voglio sigillare l’idea nel sacchetto. Saresti felice, Romy, se possedessi un aereo tuo? In questa angusta e umida stanzetta rimango seduta sui calcagni per un minuto buono sperando in una risposta. Alla fine, riapro il sacchettino. Ci infilo tutte le banconote che ho con me – diecimila franchi – e lo ficco di nuovo nel materasso, bene in fondo. Il crine è ispido ma non sgradevole al tocco. Torno a suturare i lembi dello squarcio con la stringa, alla fine osservo soddisfatta la mia opera.

E adesso, Romaine. Sarai felice, adesso?

Riuscirai a scordare quel giorno nello studio di papà?

C’è tantissimo da scordare. Il bianco della tua pelle, il rosso sulle tue mani. Il rantolo nel tuo respiro, sembrava che dentro avessi un buco. Sei stata brava quando è arrivata la polizia. Oh, Romaine, sei stata tanto brava che per poco non ti credevo pure io quando hai detto di essere stata con me in giardino e li hai implorati di trovare l’assassino di papà. Quando hai guardato Karim Abed dritto negli occhi e gli hai dato del bugiardo. I gendarmi ti credevano, si vedeva a occhio nudo. Avevano fiducia in te. Più di quanta ne avessero in me.

Papà è morto per causa tua, Romaine. Come potremo mai dimenticarlo? Hai cambiato per sempre le nostre vite.

Mi do uno scrollone. Alla lettera. Voglio scacciarmi di testa pensieri e immagini ma quelli non mollano, mi si avvinghiano all’anima con i loro tentacoli. Salto in piedi. È questa stanza. Non contiene quasi niente, eppure straripa di passato. Faccio su e giù sul tavolato nudo, respiro forte, mi scorgo riflessa nello specchietto quadrato che costituisce l’unica decorazione delle pareti. Ho la faccia di una che è stata presa a schiaffi. Il rosso esplode sulla pelle chiara.

Lo specchio mi ricorda un altro dei tuoi nascondigli da bambina. Lo raggiungo in due passi, lo stacco dalla parete e guardo sul retro. Sorrido. Non cambi mai, Romy.

Nella cornice è infilata una fotografia. Mi aspetto uno dei tuoi aeroplani, e invece no. Siamo tu e io. Insieme, in spiaggia, scalze, le gonne arrotolate sulle gambette pelle e ossa. Nove, massimo dieci anni, i capelli schiariti dal sole sciolti sulle spalle, i tuoi più ricciuti dei miei. Ci teniamo per mano e sorridiamo. Non alla macchina fotografica, l’una all’altra. Gli occhi fissi sulla gemella come se al mondo non esistesse altro.

Scoppio a piangere.

Ma c’è di più. Molto di più.

Resto a fissare le nostre immagini sgranate finché le lacrime non cessano. Non è da me. Non piango mai. Mai. Ora però è come se mi avessero strappato le viscere e le stessero facendo a brandelli, e rammento bene l’ultima volta che ho provato questa angoscia, l’ultima volta che ho ceduto al pianto. È stata la notte successiva alla morte di papà.

Mi ero ripromessa allora – e me lo riprometto di nuovo ora – di non farlo mai più.

Riappendo lo specchio. Mi asciugo il viso. Ora che so cosa sto cercando, rifaccio il giro della stanza. Mi fermo davanti al comodino di bambù che ha visto giorni migliori. Mi ci accovaccio davanti e sbircio sotto e sì, ho ragione. Vi è attaccata una busta marrone. La esamino, ma è chiusa. Cosa conterrà?

Non mi fido di te.

Mi decido, apro l’aletta. Un unico foglio di carta, lo tiro fuori. È coperto dalla calligrafia baldanzosa di mia sorella, e una fitta lancinante mi parte da dietro gli occhi. So cosa troverò.

Alla polizia

Mi chiamo Romaine Céline Duchamps. Il 18 luglio 1930 vivevo con i miei genitori, Georges e Adelle Duchamps, al 14 di rue Souchard, Parigi, allorché mio padre venne assassinato.

L’ho ucciso io. Non riesco a rammentare la ragione di questo terribile atto, ma so di averlo compiuto. Ho perso coscienza e quando sono tornata in me ero nel suo studio. Papà giaceva morto sul pavimento con un tagliacarte conficcato in gola, e io ero coperta del suo sangue.

Ho convinto mia sorella Florence Valérie Duchamps, contro la sua volontà, a mentire per me, e ho fatto altrettanto con il suo amico Roland Roussel. Nessuno dei due c’entra niente con l’omicidio di mio padre. Ho addossato la colpa al giardiniere, Karim Abed. Ho mentito alla polizia e mentito in tribunale. Karim è stato condannato e giustiziato, cosa per cui provo una profonda vergogna e una pena senza fine. Chiedo perdono alla sua famiglia e a mia madre per il dolore che ho arrecato.

Se ora ho deciso di confessare è perché desidero che infine si sappia la verità. Non voglio che la moglie e il figlio di Karim Abed – Aya e Samir – debbano sopportare oltre lo stigma di essere creduti rispettivamente la moglie e il figlio di un assassino. Karim era innocente.

A mia madre, Adelle Duchamps, e a Roland Roussel, porgo le mie scuse dal più profondo del cuore. Sono immensamente dispiaciuta per tutto ciò che ho fatto quel giorno.

Ho vergato e firmato questa confessione di mia spontanea volontà e nel pieno possesso delle mie facoltà mentali.

Romaine Duchamps

La rileggo cinque volte. E poi altre cinque. Poi li strappo, foglio e busta, in mille pezzi, e li caccio in fondo alla mia borsetta, ben nascosti sotto il foulard e le chiavi. Lascio la stanza. A ogni battito del cuore torna la stessa domanda.

Perché non si è scusata con me?