I due nuovi avevano un’aria da assassini. A Romy venne voglia di girare sui tacchi e andarsene. Quello più alto aveva un viso stretto, scaltro, solcato da rughe di insoddisfazione. Si chiamava Henri, ed era un radioamatore. A detta sua. L’altro, Noam, era un fotografo provetto. Sempre a detta sua. Capelli neri e borse livide sotto gli occhi, occhi così immobili e penetranti e scuri da sembrare canne di fucile. Eppure, era stato Martel a convocarli. Evidentemente si fidava di loro. Ciò nonostante, a lei davano i brividi.
Nel locale, la tensione si tagliava col coltello. C’erano due voragini là dove si sarebbero dovuti trovare François e Grégory, ma nessuno li nominò. La riunione era stata spostata nel quartiere di Pigalle, in un appartamentino angusto sopra un salone di tolettatura per cani, e il tanfo animale le riportò alla mente la simpatica palletta di pelo di Joséphine Baker. Il pensiero conseguente? Una gran voglia di strappare la lingua a Herr Müller. Manu però si era lanciato in un lungo resoconto di come il generale Douville fosse entrato come d’abitudine nella sua bottega di barbiere, ma questa volta in compagnia di Von Ribbentrop, il braccio destro di Hitler.
«Avrei potuto tagliare la gola a quel bastardo di un nazista lì, sulla mia poltrona. Facile come affettare il burro.»
«E allora perché non l’hai fatto?»
Era il fotografo con gli occhi come canne di fucile, ora puntate direttamente su Manu.
Manu. Pacato e coraggioso, rischiava la vita ogni giorno riferendo quel che sentiva dire agli ufficiali governativi che avevano preso in simpatia la sua bottega. In quel momento, però, avvampò.
«Non sono un assassino. Né mai lo sarò» replicò in tono monocorde.
«Sei un cacasotto, ecco perché.» Noam aveva borbottato, ma cogliendo l’occhiataccia di Martel frenò la lingua e prese a tormentarsi le unghie.
«La battaglia sull’Ebro. Diteci a che punto siamo.» Era Diane, la modista. «Come se la cavano i nostri ragazzi?»
Per nostri ragazzi intendeva i soldati repubblicani. Era così per tutti, pensavano a loro come ai nostri ragazzi.
Martel fece rapporto, la mascella irrigidita come se le parole fossero schegge di vetro. «Il generale Méndez mi ha aggiornato. La battaglia è cruenta. Un inferno. Che Dio li aiuti. Ogni giorno cinquecento cannoni nemici sparano oltre tredicimila raffiche sulle nostre truppe, mentre duecento aerei di Franco li bombardano senza sosta.»
Diane emise un gemito e si seppellì il volto tra le mani, l’assurdo cappellino tutto fiocchetti verdi piegato in un’angolazione precaria. Romy chiuse la mente. Pensare a carne lacerata e arti mozzati era troppo. Non aveva dormito, non aveva mangiato e, cosa più importante, non aveva bevuto un goccio in tutta la giornata. Non sarebbe dovuta venire, Martel aveva ragione.
L’uomo stava ancora parlando. «Ma le nostre truppe rispondono per le rime. Sono valorosi, e tenaci. Modesto li sta portando all’attacco di Gandesa, hanno i carri armati T-26, e la 15ª Brigata internazionale li affiancherà.» Martel strinse i pugni. «Ciò che causa più danno, però, è l’aviazione nemica. La legione Condor di Hitler, e l’Aviazione legionaria di Mussolini. Hanno due volte gli aerei repubblicani, anzi, ancora di più. Perciò da domani inizieremo a portargliene giù noi.»
Tutti gli occhi si volsero su Romy, che annuì. «Sono pronta.»
Martel la guardò male. «Non credo proprio. Troverò un altro pilota per questo lavoro.»
Manu prese la parola. «Perché?»
«Pensavo avessi detto che è bravissima» rincarò Diane.
«E lo è. Ma ha già fatto abbastanza. È un lavoro pericoloso, Diane, merita una pausa.»
Romy intervenne. «Non voglio nessuna pausa. Dove diavolo potresti trovare un altro pilota di cui fidarti, al momento? Come farai a sapere che terrà la bocca chiusa?»
«Ha ragione» concordò Henri, quello con la faccia scaltra. Fece spallucce, divertito. «Non hai scelta.»
Romaine decise che era il momento di parlare di Horst Baumeister. Avrebbe distratto Martel dal pensiero di chi avrebbe portato gli aerei giù in Spagna. «Domani sera uscirò a cena con un tedesco, uno della delegazione inviata qui da Hitler per trattare con il governo del Fronte popolare di Daladier, e…»
«No! È troppo pericoloso» si oppose Martel.
«Ovvio che è pericoloso.» Diane le rivolse un sorriso affettuoso. «Ma è un’ottima notizia. Quello che ci serve è sapere…»
«No.» Quell’unica parola di Martel si gonfiò fino a saturare la stanza.
Henri si sporse in avanti, sulle labbra un ghigno rapace. «Perché no? Ce la può fare.»
«Se riesco a carpirgli informazioni sui progetti di Franco riguardo alle prossime mosse delle truppe e della legione Condor, potremmo salvare centinaia di vite.» Romy riusciva a vedere una vena pulsare sul collo di Léo, tesa come una corda di violino.
«No.»
«Può farcela, Martel. È in grado di badare a se stessa. È abituata al pericolo.»
«Tu neanche la conosci, Henri, quindi non metterci becco.»
L’altro ribatté in un sibilo. «Glielo leggo dentro. Se fosse necessario, saprebbe trasformarsi in un’assassina.»
«Piantala! Stanne fuori!»
Assassina.
Romy scattò in piedi. «Ora devo andare.» Senza guardare Martel, afferrò la tracolla e guadagnò la porta.
«Romaine, ti scongiuro, non uscire a cena con quel tedesco.»
In silenzio, lei si richiuse la porta alle spalle.
Un’assassina? Ne serve uno per riconoscerne una.
Volò giù per le scale, e mentre abbassava lo sguardo sulle mani, il cuore le balzò in gola. Erano striate di scarlatto, densi freghi di sangue viscoso che le colava dalle dita. Sbatté forte le palpebre. Il sangue scomparve. Le dita erano di nuovo rosee, pulite. Eppure il sangue di suo padre era lì, lo sapeva. Semplicemente, era l’unica a vederlo.