30

Florence

Non è qui. Lo capisco nell’istante stesso in cui varco il portone. A dispetto della vampa di luglio che ne cuoce i muri di pietra avverto un gelo nel tessuto della casa, un gelo che mi dice che Romaine non c’è. Ciò nondimeno, mi arrampico su per le cinque rampe di scale e vado a controllare la stanzetta sotto il tetto. Potrei sbagliarmi.

Invece no, non mi sbaglio. La stanza è deserta. Soffocante, squallida, mal tenuta e vuota. Il letto è sfatto, cosa che mi irrita immensamente. A piano terra, la portinaia mi ha teso la chiave per evitarsi le scale, perciò mi richiudo la porta alle spalle e mi appresto ad aspettare. Spalanco la finestra nel tentativo di smuovere un poco l’aria stagnante, e il rumore del traffico incessante della città mi colpisce come uno schiaffo in pieno viso. Mi ritiro all’interno. Rifaccio il letto e tendo per bene la coperta di damasco rosa che, noto con piacere, sembra pulita. Be’, abbastanza, ecco. Solo a quel punto mi ci siedo.

Resto qui per un’ora. E poi un’altra. Ci sono venuta per un motivo. Uno solo. Scoraggiarla dall’andare a cena con Horst Baumeister, perché non mi fido di lui. Non so cosa abbia in mente o cosa pensi di guadagnarci standole dietro, ma non penso proprio che l’abbia invitata solo perché pilota aerei e ha un bel faccino.

Quell’uomo mi spaventa. Non capisco perché Roland non si renda conto che è pericoloso. Di norma mio marito è un prodigio nel fiutare i guai prima che lo travolgano, è per questo che è tanto bravo nel suo lavoro. Questa volta, invece, fa spallucce e dice che sono perfetti l’uno per l’altra. Guardando il mio volto preoccupato, è scoppiato a ridere. Perciò spetta a me proteggerla.

Mi sento male, quel tipo di indisposizione che ti manda a fuoco le viscere, quello in cui ti sudano i palmi. Un tremito mi attraversa ogni volta che mi dico che le mie paure sono infondate, ma non è il tedesco a spaventarmi tanto. È quel marmocchio algerino. Il bruciore mi sale fino in gola quando penso al figlio di Karim e al modo in cui si fissava le scarpe per nascondere l’odio che aveva negli occhi.

Non gli darò neanche un franco. Piuttosto getto tutti i miei soldi nella Senna e li guardo affondare nel fango nero. Perché di sicuro quel demonio sa benissimo che razza di patrimonio ho ereditato, al contrario di Romaine che ha rifiutato la sua parte. Se dovesse convincersi di potermi mettere alle strette obbligandomi a dargli del denaro non la smetterebbe più. Continuerebbe a chiedere, a pretendere, fino a ripulirmi. E ogni elargizione sarebbe un’ammissione di colpa.

Buon Dio, come ha potuto Romy essere tanto sciocca da devolvere regolarmente ogni suo guadagno a loro, il ragazzino e la madre? Per anni! È come se avesse firmato la sua condanna a morte.

E la mia.

Possibile che non lo capisca? Deve smettere. Subito. Tra Horst Baumeister e Samir Abed, sta camminando sul filo di un rasoio che ci taglierà entrambe…

La porta si spalanca. Un calcio dall’esterno ha sfondato la serratura. Il rumore deflagra nella stanza mentre balzo in piedi, ma non è da me cedere al panico. Chiedete a Roland. Non sono il tipo di persona che perde il controllo e comincia a urlare come un’ossessa. Io resto calma. Padrona della situazione. Affronto l’intruso.

«Fuori di qui!»

Lo sconosciuto è alto, inverosimilmente alto, arti lunghissimi che sembrano invadere ogni angolo di questa stanzetta minuscola. Colgo un lampo di capelli biondi e una bocca tumida e crudele mentre mi si avventa addosso. Veloce. Minaccioso. Concentrato come un cinghiale che si accinge ad attaccare la sua preda. Prima ancora che riesca a fiatare mi ha già sbattuta contro il muro, l’avambraccio che mi schiaccia la trachea, il corpo muscoloso che fracassa il mio.

Non posso difendermi.

Non posso gridare. Non riesco a respirare. Il sangue mi ruggisce nelle orecchie. La bocca si spalanca ma non esce fiato mentre si affaccia il pensiero che sto per morire. Il viso del mio aggressore, una guancia butterata come fosse stata crivellata dai pallettoni, comincia a sfocarsi davanti ai miei occhi, i lineamenti che sfumano l’uno nell’altro. Agito un piede ma è un calcetto fiacco, non colpisco niente.

Chi sei?

Le mie labbra mimano le parole, ma non esce suono.

Ha il viso talmente incollato al mio che i nasi quasi si sfiorano, gli sento addosso l’odore di un’acqua di colonia dolciastra. Mi si rivolta lo stomaco. Non credo abbia più anni di me, ma gli occhi sono vecchi e privi di vita, grigi, chiarissimi, duri come marmo. La bocca si avvicina alla mia.

«Mademoiselle Duchamps.» Un ruggito, e poi un bacio, violento. «Piacere di conoscerti.»

Pensa che sia Romaine. No, no, no. Cerco di scuotere la testa, ma i muscoli non rispondono. Il mio cervello implora aria, ossigeno. Una nebbia mi cala sugli occhi come ragnatela. Sto per svenire. Il dolore. Il rumore. La tristezza. È troppo. Mi sforzo di afferrare un ricordo ma l’oscurità ha la meglio, mi travolge, vuole tirarmi giù. Le gambe mi cedono. Se non fosse lui a tenermi inchiodata al muro, a quest’ora sarei già crollata a terra.

Solo a questo punto tira indietro il braccio. L’aria mi si precipita a singulti nei polmoni famelici, dolce come miele ma agonia allo stato puro mentre attraversa la gola scorticata.

Mi costringo a parlare. Un gracchio rauco. Ci riprovo. Questa volta, un sussurro. «Non sono Romaine Duchamps.»

«Sgualdrina bugiarda.»

«È vero.»

«Zitta, putain. Ho sentito che la dai via facile.»

Tenta di baciarmi di nuovo, ma giro la testa di scatto e finisce per mordermi l’orecchio. Sento il sangue colarmi sul collo.

«Non sono Romaine Duchamps» ribadisco.

«Bionda. Capelli ricci. Carina. Vivi qui.» La bocca gli si storce in un sorriso cattivo. «Sei lei.»

«Sono sua sorella.»

«Col cazzo.»

«Davvero, lo giuro.»

«Be’, andrai bene anche tu.»

Ingerisco altra aria e la nebbia comincia a diradarsi. La mente si fa più lucida. Questo tizio ha un accento. Lieve. Ma c’è. Un accento tedesco. Con la rabbia che mi si attorciglia dentro, divento fredda come il ghiaccio e gli sbatto la fronte contro la faccia. Intercetto lo zigomo, fa più male a me che a lui.

«Chi ti ha mandato?» L’idea era di urlare, ma la voce mi si spezza prima ancora che siano uscite tutte le parole.

All’improvviso mi artiglia il davanti dell’abito di seta e lo lacera come fosse carta velina. Mi ritrovo all’istante le sue mani sui seni, la bocca sulla mia, ad ammaccarla.

Spregevole. Odiosa. Rivoltante. Vengo travolta da una furia cieca. Lotto e morsico, scalcio e mi divincolo, mi trasformo in una belva mentre cerco di liberarmi, ma questo brutale sconosciuto mi solleva per il collo e mi sbatte sul letto. Urlo, ma esce appena un colpo di tosse rauco.

La paura mi riverbera dentro. Le mie unghie adesso gli lacerano la pelle della guancia butterata, ma lui si limita a ridere e mi inchioda entrambi i polsi sopra la testa con una sola mano.

«Non sono. Romaine. Duchamps.» Glielo sputo in faccia.

«Non importa. Potrai riferirle tu come è stato.»

Riesco a stento a respirare, il suo corpo mi soffoca. Mi infila la mano libera nelle mutandine. Le sento strapparsi e urlo di nuovo – ci provo – mentre le sue dita prendono a vagare. Fa una risatina chioccia, un suono ripugnante, disgustoso, e abbassa la mano per slacciarsi la cintura.

È allora che udiamo il rumore. Non ho mai sentito niente del genere. Sembra uno spirito della morte, uscito dritto dall’inferno. Giro la testa per guardare la porta. Mia sorella è sulla soglia, il viso stravolto dalla rabbia, la bocca spalancata in un grido di guerra che lascia di stucco il mio aggressore, bloccandolo per un paio di secondi. Appena gli si scaglia addosso, però, la allontana con un pugno feroce in pieno petto. Romaine cade a terra. Non la vedo più.

«Romy! Scappa!»

Lei invece si alza, e il viso le rifulge come quello di un angelo vendicatore mentre in ciascuna mano brandisce una delle bottiglie di whisky vuote che tiene sotto il letto. Senza proferire parola, fracassa la prima sulla nuca del bastardo. Lui esala un grugnito soffocato. Nient’altro. Mi crolla addosso. La bottiglia è andata in frantumi e il sangue sgocciola su di me, insieme a puntute schegge di vetro. L’uomo geme piano.

È la volta della seconda bottiglia, che gli si abbatte dritta sulla tempia. Il rumore è tremendo. Lo sento farsi subito più pesante. Un occhio gli si riempie lentamente di sangue, sembra una marea rossa che monta, e per un istante un fiotto scarlatto gli gorgoglia fuori dalle narici. È morto, lo so.

Cerco di levarmelo di dosso ma è troppo grosso, oppure sono i miei muscoli che si sono rammolliti. Mi rendo conto che sto tremando. Le mani, le gambe, la testa, le labbra. Trema tutto. Nel mio corpo infuria la bufera. È Romaine a liberarmene, lo fa rotolare sul copriletto rosa e ce lo avvolge.

Con una forza che non avrei mai pensato possedesse, lo spinge giù dal letto. Il mascalzone cade a terra con un tonfo che fa tremare l’intera stanza. Resto lì, inebetita e in preda ai brividi mentre lei sgancia una salvietta da una graffa fissata dietro la porta e se ne serve per radunare le schegge di vetro. Spazzandole giù dal letto le fa scivolare sul pavimento, dove le ammucchia accanto all’involto rosa che ora ricorda più un tappeto arrotolato che un essere umano.

Una volta che ha finito, viene da me. Mi abbraccia con tanta dolcezza che mi sento mancare per la gratitudine. Le abbandono la testa sulla spalla e comincio a piangere, singhiozzi sussultanti che mi straziano la carne, ma non so come farli cessare. Romy mi accarezza i capelli, mormora parole dolci. Con mano gentile, mi toglie le schegge dai capelli e dal viso su cui restano abrasioni, graffi e piccoli serpentelli rossi, come se il mio corpo lacrimasse sangue.

Finalmente smetto di piangere. Guardo mia sorella attraverso ciglia umide e sul suo viso c’è un’espressione che non ho mai visto prima. È chiusa, assente. Come se dentro di lei si fosse chiusa una porta.

Le bacio la guancia. È bagnata delle mie lacrime. «Grazie, Romaine. Grazie per avermi salvata.»

Gli occhi si rianimano. La bocca si piega in un sorriso sghembo. «È più facile, la seconda volta.»

Non riesco a reprimere un gemito.

«Chi è?» mi domanda.

«Non lo so. Non l’ho mai visto prima.»

«Può essere stata un’aggressione casuale?»

Ci guardiamo. «Non è stata un’aggressione casuale.»

I tremori riprendono possesso di me mentre ricordo quelle dita sudicie che mi scavano dentro. Romy strappa via le lenzuola, mi cinge le spalle con un braccio e mi aiuta a stendermi. Ci corichiamo insieme sul materasso nudo e macchiato, le sue braccia che mi tengono forte. Restiamo così per un’eternità, indifferenti al rotolo di damasco rosa sul pavimento. Non parlo dell’accento tedesco. Né dico che è venuto per lei.

«E adesso?»

La testa mi martella e me la sento piena di ovatta, entrambi sintomi di un doposbornia coi fiocchi, se non fosse che non ho toccato neppure un goccio del whisky di mia sorella. Lei in compenso, seduta per terra in un angolo, sta bevendo direttamente dalla bottiglia.

«Adesso…» Mi rivolge di nuovo quel sorriso sghembo. «Adesso non andremo alla polizia.»

Concordo.

«Pensavo… Dovremmo trascinare giù il corpo di notte, quando tutti dorm…»

La blocco. «No. Conosco io qualcuno.»

«Disponibile a occuparsi di questo?»

«Sì.»

Rimane a bocca aperta. Ha del sangue sui denti. Mio? Suo? Del morto? Non lo so.

«Conosci qualcuno disposto a sbarazzarsi di un cadavere per noi, senza fare domande? Sul serio?»

«Sì.»

Vuole di più, rimane in attesa. Scelgo le parole con molta cura. «A volte Roland lavora con i servizi segreti. Hanno una squadra addetta a “ripulire”. È il loro lavoro.»

«Hai intenzione di raccontarlo a Roland?» Prende un sorso di whisky e socchiude gli occhi per il piacere. «Credi sia saggio?»

«Lascia fare a me.»

Sono ancora mezza accasciata sul letto. Il vestito mi pende addosso lacero, perciò mi costringo a rimettermi in moto e vado a esaminare gli abiti di mia sorella. Opto per un’orrenda camicetta in cotone e afferro anche una gonna. Le indosso. Sono entrambe marroni e immagino mi stiano da schifo, ma questa sera non mi importa. Fuori c’è buio. E a me fa male tutto.

La costringo ad alzarsi. «Forza, ora. Dobbiamo andarcene.»

Annuisce ubbidiente. Mi dirigo alla porta, ricordando di recuperare la borsetta, ma lei torna indietro e si inginocchia accanto al letto. Apre lo squarcio nel materasso, vi infila la mano ed estrae il sacchettino che avevo scoperto la volta scorsa. Non controlla il contenuto. In compenso torna a infilare la mano nel materasso, sulla sinistra, questa volta, e tira fuori uno scrigno di malachite. Aggrotto la fronte. Lo riconosco. Corro da lei, glielo strappo e lo spalanco. L’orologio di papà.

«Me l’ha dato mamma» si affretta a giustificarsi. «Non l’ho rubato. Ho intenzione di venderlo per racimolare il denaro per l’intervento di Aya Abed.»

Glielo restituisco senza aprire bocca. Non ce la faccio a parlare. Mia sorella agguanta un vestito di cotone leggero, se lo appallottola sotto il braccio e ce ne andiamo. Mi tiro dietro la porta ma non serve a nulla, la serratura è rotta. Non ci importa, a nessuna delle due. Non c’è niente di valore che possa attirare i ladri. Mi fa strada di sotto e io la seguo fissando il caschetto di corti riccioli biondi. Un turbine di emozioni mi sigilla le labbra.

Vorrei chiederle della confessione che ha scritto, quella che ho ridotto in mille pezzi. Ma oggi ha ucciso un uomo per me. Direi che può bastare.

«Carogna.»

Faccio irruzione nell’ufficio di Gustav Müller e sbatto la porta. Il suo è l’unico ufficio con la luce ancora accesa perché tutti gli altri se ne sono andati a casa da un pezzo. Quest’uomo vive, respira, mangia lavoro. Alle pareti non ha librerie e neppure l’obbligatoria serie di fotografie di Adolf Hitler, ma scaffali contenenti un’infilata di fascicoli. L’informazione è potere. È così che recita il motto, ed è il suo motto. Perciò lui la tiene a portata di mano, l’informazione, non in un polveroso magazzino sottoterra. File e file di cartelline. Sono intimidatorie. So che una riguarda me.

Marcio dritta alla sua scrivania e ci sbatto un pugno furibondo, una foto della moglie che lo aspetta in Germania e una sveglia in porcellana vanno a fracassarsi sul pavimento.

«Perché diavolo l’ha fatto? Perché mandare qualcuno a stuprare mia sorella?»

Non si scompone. «Per darle una lezione. Ne aveva bisogno.»

«Non ci riprovi! Lasci stare Romaine, o…»

«Cos’è successo? Ho scelto quell’agente perché è uno dei migliori.»

«Era uno dei migliori.»

«Cosa?»

«Veda di sbarazzarsi del corpo.»

«Dove si trova?»

«Nella camera di mia sorella. Mandi subito la squadra a ripulire.»

«Mein Gott, sua sorella è spietata!»

«Le stia lontano.»

«Non posso, meine Freundin. È al centro della rete che aiuta il fronte nemico nella guerra civile in Spagna.»

«Non ha prove al riguardo.»

«Non ho bisogno di prove.»

«Herr Müller, lei non mi sta ascoltando. Le ho detto di starle lontano

In tre rapide falcate raggiungo il suo lato della scrivania e con uno strattone spalanco il cassetto centrale. Contiene una Mauser. La afferro e gliela punto addosso. «Se osa di nuovo farle del male, le pianto una pallottola in fronte.»

Mi ride in faccia. Manca poco che faccia le fusa. Gongola tutto all’idea di avermi provocato.

Scivolo nel letto. Giaccio immobile. Cerco di non svegliarlo. I minuti gocciolano via nel buio e costringo gli occhi a chiudersi, i muscoli a rimanere immobili. Ma non funziona, il mio bisogno di conforto è troppo grande. È una necessità insopprimibile, questa notte. Come lo è il bere per mia sorella. Valico centimetro dopo centimetro la distesa bianca che ci divide e trovo Roland coricato sul fianco, mi dà la schiena.

Dormi? O fingi di dormire?

Non saprei dirlo ma non mi importa più, perché inspiro il profumo della sua pelle arroventata intrisa di sonno ed è come una calamita. Avviluppo il mio corpo nudo intorno al suo corpo nudo, assaporo la sensazione della curva solida e calda delle sue natiche accoccolata contro il mio bacino. Vi faccio correre il palmo della mano come farei con la groppa di un cavallo, impartisco buffetti, frizioni, carezze. Quando gli sto così vicina, scordo che il corpo è suo, non mio.

«Chloé ha chiesto di te.»

La voce notturna di Roland è più profonda, più sonora di quella diurna. La sento vibrare nel mio petto.

«Mi dispiace. Stava bene?»

«Sì, certo. Dov’eri finita?»

Non mi piace parlare alla sua schiena.

«Ero con mia sorella.»

Sospira. Gli bacio la nuca e con la lingua traccio un sentiero che si snoda fino a raggiungergli l’orecchio.

«Le serviva una mano.»

«Una mano a camminare in linea retta.»

«No, non era ubriaca. Doveva solo sistemare alcune faccende.»

Non mi chiede come o perché. Non fa il suo nome. Gli premo i seni contro la spina dorsale.

«Lasciala a Horst.» Il suo tono implica che la discussione è chiusa. «Se ne occuperà lui.»

È proprio quello che temo.

Rotolo sul mio lato del letto e restiamo a lungo così, in silenzio, solo i respiri che fendono l’aria in sincrono. La testa mi si riempie di ricordi, un braccio che mi schiaccia la gola.

«Aiutami, Roland.» Lo sussurro nel buio.

Mio marito mi è subito accanto, sopra, dentro, a cancellare tutto il resto. A liberare il mio corpo dal ricordo di quelle mani che mi hanno toccata dove nessuno l’aveva mai fatto se non lui. Lo cingo con le braccia e le gambe, i fianchi che si inarcano per farlo arrivare più a fondo finché ecco, ci siamo, e madidi di sudore raggiungiamo l’estasi. Lo sconosciuto violento dagli occhi di marmo è stato espunto dalla mia mente. Insieme a tutte le altre cose che ne sono state rimosse.