32

Il sabato sera, Parigi vuole fare colpo a tutti i costi. Sembra una donna che sfoggia l’abito nuovo. O una sgualdrina che si dà lo smalto. Il rossetto è più scarlatto e lucido, le gemme più sfavillanti di quelle di qualunque altra città. La Ville Lumière esibisce le sue gioie con tutta la sicurezza di una donna bellissima che sa per certo di essere irresistibile.

Romy adorava Parigi. I suoi scorci e i suoi odori erano parte di lei, come il colore dei capelli. Entrò nel Le Chat Noir e salutò affettuosamente Émile, il pingue patron famoso per saldare i debiti di gioco con vassoiate di tournedos alla Rossini. E giocava veramente male.

Il locale era vecchio, travi nere e ammattonato d’antan, tovagliato a scacchi e candele infilate nel collo di bottiglie di vino. Niente di ricercato, o di speciale. A parte la cucina di Émile. Horst Baumeister era già lì ad aspettarla. Si alzò in piedi e le baciò la mano, il sorriso caldo e colmo d’aspettativa.

«Sono contento che sia venuta.»

«Pensava che non l’avrei fatto?»

«L’avevo preso in considerazione, sì.»

«Invece, eccomi qui.»

Romy si chiese cosa vedesse mentre i suoi occhi la soppesavano. Indossava un abito che aveva acquistato di seconda mano nella bottega di Louis Capel, dello stesso grigio dei tetti di zinco di Parigi. Aveva trafugato una rosa cremisi al giardino delle Tuileries e se l’era appuntata su una spalla. Horst vedeva una persona che aveva fatto uno sforzo? O qualcuno a cui non importava? O, ancora, aveva in testa una qualche immagine di cui lei non era consapevole?

Presero posto, ma la serata faticava a ingranare. Nessuno dei due sapeva dove guardare, cosa dire. I balli tanto intimi condivisi al Monico erano dimenticati. Romaine però aveva bisogno che lui si fidasse, e così lo ricondusse sul sentiero che li aveva avvicinati quella sera al nightclub.

«Ho sentito dire che Willy Messerschmitt è appena stato nominato direttore della Bayerische Flugzeugwerke, e che ora la ditta si chiama come lui.» Si sporse in avanti e inclinò appena il capo, imitando un gesto tipico di sua sorella. «È geniale come progettista d’aerei, non trova?»

Fu sufficiente. Erano partiti, e alla grande. Durante il pranzo discussero in dettaglio dell’importanza dei Messerschmitt Bf 109 per i piani di riarmo della Germania e della grande innovazione introdotta da Willy, che consisteva nel fondere diverse parti che sostenevano carichi in un’unica ordinata parafiamma rinforzata. In quel modo l’aereo risultava più leggero e le prestazioni miglioravano.

«Willy Messerschmitt è diventato un beniamino dei nazisti.» Nella voce di Horst c’era una tristezza inaspettata. In un primo momento, Romy pensò di averla immaginata. Ma no. C’era proprio. Inconfondibile. Eppure inspiegabile. L’uomo affondò la forchetta nella tarte tatin. Quando rialzò la testa, i lineamenti erano di nuovo rilassati. «Sa cosa significa Messerschmitt – in realtà si scrive in modo leggermente diverso, ma la pronuncia è identica – in tedesco?»

«No.»

«Coltellinaio. Appropriato, non crede, per un uomo che crea i migliori caccia al mondo, in grado di fendere l’aria come un coltello?»

Il vino aveva fatto il suo dovere, sciogliendo le lingue. Romy si dispose a fare ciò per cui aveva accettato l’invito.

«E cosa significa “Ich möchte mich nicht streiten”, Horst?»

«Significa “Non voglio litigare”.» Il tedesco fece un cenno a Émile perché portasse i caffè. «Perché? Con chi stava litigando?»

«Herr Müller.»

Baumeister non la guardò. Calò il silenzio mentre l’uomo svuotava il bicchiere. Le ultime gocce di liquido violaceo rimasero aggrappate al vetro, e Romaine ebbe la sensazione che anche Horst stesse cercando di aggrapparsi a qualcosa, anche se non avrebbe saputo dire a cosa.

«Gli stia lontana. Stia alla larga da quell’uomo, se le è possibile.»

«Credevo che lavorasse con lui.»

«Infatti.»

«Allora perché mi mette in guardia?»

Invece di rispondere, il suo commensale si alzò. «Venga con me. Voglio mostrarle una cosa.»

Horst Baumeister guidò l’elegante berlina Mercedes attraverso le vie buie di Parigi con la spigliatezza data da una lunga frequentazione.

«Da quanto vive qui?» si informò Romy.

«Un anno.»

«Davvero? Non mi ero resa conto che fosse qui da così tanto.»

«C’è parecchio di cui non si rende conto, Romaine.»

Era una serata estiva calda, afosa. Le strade brulicavano di festaioli del sabato, e qualcuno scagliò una scarpa contro il parabrezza. La calzatura sbatté sul vetro e rimbalzò via. Horst non fece una piega.

«Alcuni parigini non gradiscono le auto tedesche» si limitò a commentare.

Tutto lì.

Romy indagò. «Dove mi sta portando?»

Ma l’altro taceva. Il suo profilo, scolpito dalla luce dei lampioni in ferro battuto, era irrigidito, come se lo attendesse un compito orribile. Forse non era stato saggio da parte di Romy montare in auto con lui, ma era l’unico modo per cavargli delle risposte. A ogni giro degli pneumatici, il cuore le accelerava, le ultime parole di Martel che tornavano a echeggiarle in testa. «Stai attenta, Romy. Non correre rischi.»

Eppure in questo tedesco c’era qualcosa che le piaceva. Le piaceva proprio. Non era solo la sua passione per gli aerei – anche se certo aiutava – quanto, soprattutto, la sua schiettezza. Come se la sua mente procedesse per rettilinei. Niente circonvoluzioni e giravolte per deviare e confondere il prossimo, ma linee rette, in grado di portarti dritto all’inferno se non stavi attento.

«Quanto bene conosce mia sorella?»

La guardò sorpreso. «Non molto.»

«E Roland, suo marito?»

«Fin troppo.»

Romy si incuriosì. «Cosa intende dire?»

«È crudele.»

«Come? Perché lo pensa?»

«Una volta l’ho visto picchiare un uomo.»

Era arrivato a un incrocio su rue des Petits Champs e lo attraversò a spron battuto, strombazzando a una Citroën lenta perché gli desse la precedenza. Romaine lo osservò. Era furibondo, ma non con la Citroën.

La domanda uscì sottovoce. «Perché l’ha picchiato?»

«Era ebreo.»

Il palazzo verso cui la condusse se ne stava rimpiattato dietro l’Eliseo, nell’VIII arrondissement. Il tipico edificio amministrativo, colonne classiche e un massiccio portone arcuato che sembrava in grado di resistere all’assalto di un esercito. Eppure non c’erano targhe, niente a identificarlo. Horst pescò un mazzo di chiavi dalla tasca e aprì. Fu un sollievo togliersi dalle ombre della notte, ma nell’istante in cui la serratura tornò a scattare alle sue spalle chiudendola dentro Romaine ebbe un brivido. Ripensò all’arma che aveva rifiutato con tanta prontezza quando Martel gliel’aveva offerta.

Horst abbassò un interruttore. Una lampadina solitaria illuminò un ingresso che ricordava una cattedrale, soffitto alto a cupola e pavimento in marmo, pallido e venato come la mano di un’anziana. Da lì, tre ampi corridoi si diramavano verso il buio e l’ignoto. Non sapeva che edificio fosse, ma aveva la netta sensazione che non ci si sarebbe dovuta trovare.

«Dove siamo?»

«Non è importante.» Horst si era fatto brusco. «Le basti sapere che è dove lavoriamo Müller e io. L’ufficio del mio collega è di fronte al mio.»

Eh, no. Proprio non ci si sarebbe dovuta trovare.

«Venga con me.»

Il tedesco si avviò lungo il corridoio centrale, i passi che riverberavano sul marmo. Di colpo si rese conto che non lo stava seguendo. Si voltò a guardarla.

«Non è una trappola. E non mi hanno dato ordine di stuprarla.»

Le si mozzò il fiato. Capelli biondi. Un groviglio appiccicoso e scarlatto, ora. Una bottiglia nella sua mano. Horst sapeva.

Annuì. «Faccia strada.»

L’altro riprese a addentrarsi nell’oscurità e lei lo seguì a distanza, superando una porta chiusa dopo l’altra. Davanti a lei, Baumeister si fermò. Recuperato il mazzo di chiavi, aprì l’ennesima porta ed entrò, lasciando il battente scostato per lei. Un lampo di luce elettrica guizzò improvviso dall’ufficio. Era la sua occasione. Romy entrò.

Un normalissimo ufficio. Tutto lì. La solita scrivania, le solite sedie, la solita scaffalatura. Eppure, era la stanza di per sé a essere tutt’altro che ordinaria. Aveva proporzioni perfette, il soffitto era alto e affrescato e un elaborato fregio rococò si snodava lungo le pareti. Certo non il genere di locale che avrebbe associato a dei burocrati nazisti.

Romaine gettò intorno un’occhiata circolare. «Dunque è qui che architettate i vostri piani, lei e Müller?»

Lo osservò attentamente, quasi aspettandosi di vedergli scambiare il leggero abito estivo con la grigia uniforme nazista o di vedergli levare il braccio nel saluto al Führer. Eppure aveva qualcosa di diverso, lì dentro. I duri lineamenti ariani si erano ammorbiditi, i muscoli sotto la pelle rilasciati. Si intuiva il ragazzino che doveva essere stato un tempo. Romy provò l’impulso di avvicinarsi, prendergli la mano. Ma era un rischio eccessivo.

«Perché mi trovo qui?» domandò invece con franchezza. «Cosa vuole da me?»

Horst mosse un passo indietro, allontanandosi. «Herr Müller è convinto che lei sia parte del movimento clandestino che consegna illegalmente aerei alle forze repubblicane spagnole.»

«Herr Müller si sbaglia.»

«Pensa anche che alcuni vostri agenti stiano cercando di scoprire il più possibile sui piani tedeschi. In Spagna. E qui, a Parigi.»

«No.»

Baumeister si mise a braccia conserte. «Vediamo di essere sinceri almeno tra di noi, Romaine.»

Come fai a dire a un uomo che si sbaglia quando l’aria nei polmoni ti è diventata solida e la tensione nella stanza si potrebbe tagliare con lo stesso tagliacarte che stava sempre sulla scrivania di tuo padre? Eppure c’era qualcosa. Qualcosa. Sul suo volto. Qualcosa di poco chiaro.

Le stava tendendo un tranello? Era forse lì sotto, lo scantinato di cui le aveva parlato Martel? Quello dove finisci per vuotare il sacco purché si fermino, quello dove rinunci all’anima purché cessino di torturarti. Horst l’aveva venduta?

«Naturale che dobbiamo essere sinceri.» Si incollò in faccia un sorriso e gli si avvicinò facendo ondeggiare i fianchi, come aveva visto fare alla sorella. Gli appoggiò una mano sul braccio. «Possiamo essere amici» bisbigliò. «Ed essere sinceri l’uno con l’altra.»

L’uomo chinò la testa e le depose un bacio sulle labbra. Rapido, duro. Poi si tirò indietro. «Riconosco l’onestà quando la vedo. E riconosco un bugiardo. Lei, Romaine, è una bugiarda. Cosa che mi delude parecchio. Speravo riuscisse a fidarsi di me.»

«Mi fido di lei, Horst.»

Gli cinse la nuca con un braccio e gli riabbassò il viso. Le labbra incontrarono quelle di lui, calde e piene di desiderio. Forse non era brava a mentire con le parole, ma sapeva fin troppo bene come farlo con il corpo. Il bacino si adattò alla forma di quello di Horst.

«No.» Abbassandole il braccio, lui si scostò. «No, Romaine. Qualunque cosa tu voglia da me, non è questo il modo.»

A falcate rapide raggiunse la scrivania e spalancò un cassetto. Stava cercando una pistola? Ma non fu una Mauser, ad atterrare sul piano. A cadere con un tonfo fu una cartellina giallo scuro, zeppa di documenti. Lasciandola dov’era, Horst uscì dall’ufficio senza proferire parola.

Buon Dio. Ora l’avrebbero ammazzata. Ora che aveva visto il fascicolo. Ora avevano motivo di farlo.

Romy immagazzinava fatti e cifre più in fretta che poteva. Li disponeva in file ordinate, memorizzandoli con la stessa tenacia di cui si serviva per ricordare i punti salienti di una rotta aerea, ponti e fiumi e campanili che facevano da segnali stradali mentre pilotava. Solo che questa volta si trattava di truppe, effettivi, coordinate su una mappa, date, nomi. Sedeva alla scrivania, lo sguardo e la mente concentrati.

Ma era ora di uscire di lì. Trovare Léo Martel. Condividere le informazioni che Horst le aveva offerto con tanta nonchalance, e usarle per salvare vite.

Sentendo un rumore di passi, Romaine alzò lo sguardo. Il tedesco era fermo sulla soglia, una spalla appoggiata allo stipite, l’espressione celata dal buio del corridoio. Romy però ne udiva il respiro, accelerato, affaticato.

O è il mio?

Non si avvicinò. Si limitò a restare lì, in silenzio.

Sta aspettando che finisca, per poi…

Per poi cosa? Piazzarle un proiettile in fronte come aveva fatto con François e Grégory? O trascinarla urlante nello scantinato? In quella situazione non c’era niente di logico, di prevedibile. Sul suo grembo, sotto la scrivania, là dove lui non poteva vedere, Romaine stringeva un paio di forbici a mo’ di arma. Le aveva trovate nell’ultimo cassetto. Non era molto ma era tutto ciò che aveva, e intendeva farne buon uso.

Nella cartelletta era rimasto un ultimo documento. Lo raccolse. Un’unica pagina dattilografata fitta. La registrazione di diverse conversazioni. Cominciò a leggere, un occhio sulla figura silenziosa stagliata sulla porta, ma nel giro di due secondi l’aveva scordata. Il cuore le rimbombava nelle orecchie.

Quella era una condanna a morte.

Per lei. E per Hitler.

Cospiratori. Strisciavano come scarafaggi dietro gli infissi in legno. Non osavano mostrare la faccia né rivelare il nome se non in un sussurro.

L’ultimo documento rivelava una congiura tra il generale Hans Oster, ufficiale del controspionaggio tedesco, e il generale Ludwig Beck, l’ex capo di Stato Maggiore dell’Oberkommando des Heeres, il comando supremo dell’esercito tedesco.

Terrore ed euforia le turbinarono dentro mentre leggeva i dettagli della cospirazione per assassinare Adolf Hitler. Il foglio le tremava in mano.

Horst?

Romaine alzò lo sguardo, nonostante le costasse immensamente staccarlo da quelle parole, e vide che era sempre là. Immobile come il patibolo su cui rischiava di spedirla quell’informazione. Doveva essere consapevole di averla condannata a morte. Altri nomi tornarono a reclamare la sua attenzione. Goerdeler e Von Moltke, altri nomi che si impresse a fuoco nella memoria mentre la mano si stringeva sulle forbici.

Alla fine, mise giù il foglio e richiuse la cartellina.

«Perché io, Horst? Perché adesso?»

Horst – l’uomo che conosceva appena, ma cui adesso era strettamente legata dalle informazioni che avevano condiviso – uscì dall’ombra.

«Perché, Romaine, in tutta Europa le oscure forze del male si stanno radunando. Marciano sulla strada di sangue aperta da Hitler, Mussolini e Franco, mentre, appena di là dalla frontiera, a est, al varco aspettano Stalin e il grande orso russo. È in arrivo un olocausto in cui l’umanità tutta sarà sacrificata al fuoco di pazzi che detengono il potere, ed è sacrosanto dovere di ciascuno fare la sua parte per spegnere l’incendio prima che estingua il genere umano.»

La voce era appassionata, gli occhi accesi. Romy abbandonò le forbici.

«Cerca di capire, Romaine. Mi hanno fatto il lavaggio del cervello, inducendomi a credere che la parola del Führer era vangelo. Ora però vedo più chiaramente, ho aperto gli occhi. Sono stato testimone di atti terribili, ho visto i negozi e le case degli ebrei devastati e saccheggiati, ho visto persone costrette a fuggire per non venire ammazzate. Adesso però basta. Adesso ho capito che Hitler è un tiranno malvagio che va bloccato prima che metta a ferro e fuoco l’intera Europa.»

Romy percepiva la passione nelle sue parole.

«È da tempo che aspetto che una persona come te incroci la mia strada» aggiunse lui, avvicinandosi. «Qualcuno in grado di fare da tramite tra me e il movimento clandestino di resistenza qui in Francia. Ho la possibilità di passarvi delle informazioni. Ti ho dato quell’ultimo documento perché anche io sono uno di quei cospiratori, l’hai letto. Per farti capire fino a che punto mi fido di te.»

Romaine si alzò. «Ma io mi posso fidare di te, Horst?»

«Non te l’ho forse appena dimostrato, consegnandoti quella cartellina?»

«E se fosse tutto un bluff? Una trappola, predisposta da Müller. Per indurmi a tradire me stessa e gli altri.»

Horst si passò una mano sul viso, quasi che in quel modo potesse cancellare i suoi dubbi.

«Come posso esserne sicura, Horst?» Ora gli si era piazzata davanti.

«D’accordo. Ti ho già dato il potere di farmi finire davanti al plotone d’esecuzione. Ora ti darò quello di distruggere non solo me, ma tutta la mia famiglia.» Prese un lungo respiro. «Mia madre era ebrea. Mio padre era un ariano fatto e finito, biondo, occhi azzurri, ma lei era la tipica ebrea dai capelli scuri. Non fare quella faccia sconvolta. Ovviamente non lo sa nessuno, e i miei lineamenti non ne recano traccia. Ma lei è stata uccisa quattro anni fa da uno degli squadroni di Hitler, predoni persecutori d’ebrei.»

La mano di Romy strinse quella di lui.

«Devo raccontarti come l’hanno uccisa, Romaine? L’hanno trascinata in strada. Aveva commesso l’errore di cercare di aiutare il padre, un sarto, a fuggire dall’ormai pericolosa Berlino. Quei demoni hanno trascinato lei e mio nonno sulla strada, li hanno intrisi di benzina e li hanno bruciati vivi. Non posso permettergli di continuare così.»

Romy ebbe un conato di vomito. Eppure, al contempo, il sollievo le rallentò la corsa del sangue nelle vene. Horst non stava mentendo. Il suo odio per il male che lo circondava era reale come i nomi e le date del fascicolo, quelli che le si erano marchiati a fuoco nella mente.

«Mi dispiace, Horst. Per tua madre. Per tuo nonno. Adesso però dobbiamo bruciare quella cartellina, subito. È troppo pericolosa per te.»

Vicino a lei c’era un cestino della carta in metallo. Romaine vi gettò tutti i fogli, prelevò l’accendisigari dalla scrivania e lo fece scattare. Nell’istante stesso in cui le fiamme li lambirono, i fogli presero a contorcersi e arricciarsi come in preda a dolori atroci.

Sedevano in un bar nelle vicinanze, uno di quei fumosi localini intimi di cui Parigi sembra avere il brevetto. Horst era più calmo ora, due cognac dopo, mentre Romy si coccolava un whisky. Uno solo. Era tutto ciò che si era concessa, e lo assaporò lasciando che placasse il tremito.

Aveva parlato poco. Più che altro era rimasta ad ascoltare Horst che borbottava aneddoti dei bei tempi andati, quando in Germania la gente rideva e la paura era un sentimento che il piccolo Horst provava solo quando il padre spronava il suo stallone lipizzano a saltare steccati che avrebbero spezzato l’osso del collo a un cavallerizzo meno abile. Romy scolò l’ultima goccia, impaziente di tornare da Martel con le informazioni che aveva ben salde nella mente. Ma prima aveva un’ultima domanda.

«Horst, cosa sai del passato di Müller?»

«Solo che era un militare, uno della cerchia ristretta di Heinrich Himmler.»

«Il comandante della Gestapo?»

«Proprio lui. Una carogna se mai ne è esistita una, ma vicino a Hitler. Ha un potere immenso.»

«È un avvertimento?»

Le sorrise. «Già. Per entrambi.»

«Per caso Müller era di stanza a Parigi otto anni fa, che tu sappia? Conosceva mio padre?»

La reazione alla domanda fu tanto contenuta che Romy rischiò di perdersela. Ben pochi l’avrebbero notata. Una pausa durata un soffio, una fugace tensione dei muscoli del viso. Prima ancora che avesse il tempo di domandarsene la ragione, era sparita, e l’altro la scrutava attento.

«Sinceramente, non ne ho idea. Non so cosa combinasse allora, io in quel periodo ero dislocato a Francoforte.»

Oddio. Le dita le formicolavano, come quando sono intirizzite. Horst stava mentendo. Romaine si sentì mancare.