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Florence

Vesto di nero. Lo detesto, ma la domenica è un segno di rispetto. Mi piace essere rispettosa, anche se il nero mi riporta alla mente le esequie di papà. Temo di rimettere sul libro di Chloé. Argomento: aviazione. Sediamo sul divano, fianco a fianco, e lo leggiamo insieme mentre lei mi racconta di voler imparare a volare come la zia Romy e Amelia Earhart, la grande aviatrice americana. Con dolcezza, le faccio notare che Amelia è scomparsa l’anno scorso mentre cercava di circumnavigare il globo.

«Oh, lo so. Pilotava un Lockheed Electra» cinguetta lei.

Non voglio che sappia queste cose. Metto via il libro. Si acciglia, il bel visetto che si increspa mentre assume un tono solenne. «La Francia ha bisogno di me. Devo migliorare il paese, renderlo un grande posto per le donne.»

La fisso. Ha sei anni. Sei. Potrà anche avere i miei occhi azzurri, ma in lei c’è qualcosa che in me è assente. Un senso di responsabilità. L’ha preso da mia sorella, lo so, e una parte di me lo ammira, ma un’altra parte vuole sradicarlo perché le arrecherà solo dolore. È impossibile ottemperare a quella responsabilità fino al punto in cui si sente che si dovrebbe, e così si finisce per essere sempre delusi da se stessi. L’ho visto in politici, diplomatici, persino in medici e sacerdoti. Il fardello è sempre troppo grave. Come osa Romy appesantire le spalle esili della mia bambina?

«Romaine. Cosa stai cercando di dimostrare?»

Sono sbottata a voce alta. Chloé mi guarda con un sorrisetto divertito. Neanche quello mi appartiene. «Maman, la zia ancora non è qui.»

Controllo l’orologio. «Lo sarà presto.»

Chloé non riesce a stare ferma, giocherella con la lunga e setosa treccia bionda, con i polsini in pizzo della camicetta bianca, con i bottoncini delle scarpette nere di vernice. Fa sempre così prima che arrivi Romy, fatica a contenere l’impazienza. Cerco di non lasciar vedere quanto mi ferisca ogni domenica, questa smania di staccarsi da me.

Le passo la mano lungo la guancia di pesca. «Dimmi, chérie, cos’è che ti piace di più della zia Romaine?»

Ci pensa con calma, gli occhioni concentrati, poi sorride. Un sorriso che mi abbaglia sempre. Ma questo non è per me. È per mia sorella.

«Mi mostra cose interessanti.»

«Tipo?»

«L’interno dei motori. E i dettagli delle eliche.»

Mi mordo la lingua.

«E poi mi insegna delle cose.»

«Per esempio?»

«I nomi delle stelle.» Si punta un ditino sulle tempie per aiutarsi a pensare. Proprio come fa Romy. «E a fare dei nodi ben stretti, che tengano. E a nuotare.» Scoppia a ridere, divertita. «Anche se questo non avrei dovuto dirtelo.»

Ho le guance in fiamme.

«E poi zia Romy è coraggiosa. Pilota gli aerei.»

Il campanello suona proprio in quel momento e Chloé balza in piedi e si precipita alla porta. Io resto dove sono. L’immagine di mia figlia in acqua, tenuta a galla solo dalle mani malferme di mia sorella, mi vortica in testa come inchiostro nero.

Romaine entra in soggiorno con Chloé che le saltella di fianco, mi getta un’occhiata e si avvicina, le braccia protese. Sono sbalordita. Dal cambiamento. Anche lei è in gramaglie, come me, l’orribile sacco nero che considera un vestito stretto da una cintura sulla vita sottile, ma gli occhi sono accesi, più oro che ambra. Come se dentro le ardesse un fuoco. Mi stringe tra le braccia, le nostre teste si avvicinano, i riccioli si mischiano.

«Stai bene?» mi mormora in un orecchio.

«Certo.»

Ma ancora non mi lascia.

«Hai raccontato a Roland quel che è successo?»

Mi districo dall’abbraccio. «No.»

«Ma avevi detto…»

«Il cadavere è stato rimosso, non preoccuparti. Però ho fatto in modo che fosse un’altra persona a occuparsene. Un professionista. Dei servizi segreti.» Distolgo lo sguardo. «Non volevo che Roland lo scoprisse.»

«Oh, Florence.»

Vedo che mia figlia ci sta osservando con grande attenzione, perciò sorrido. «Piuttosto, dimmi, cosa ti è successo?»

Si sfiora l’escoriazione sulla mandibola. «Ero con Horst.» Fa spallucce.

«Oddio, Romaine.»

Non possiamo aggiungere altro di fronte alla piccola, ma ci scambiamo la stessa occhiata che ci univa da bambine quando una di noi si metteva nei guai. In parte solidarietà, e in parte sono contenta che non sia toccato a me. Erano otto anni che non ci guardavamo così. Ma vedo la fiamma dietro i suoi occhi, e ho bisogno di sapere cosa l’ha fatta divampare.

Chloé fa scivolare la mano in quella della zia. «Ora possiamo andare, per favore?»

«Ma certo, ma petite. Vai a prendere il golfino, però. Fuori c’è un’arietta gelida.»

Nell’istante stesso in cui ci ritroviamo da sole, mia sorella mi afferra il polso. «Florence, ho sentito delle voci su tuo marito.»

Mi impietrisco, non dico niente.

«Stai attenta, Florence. In questa città, ultimamente, chi si oppone al nazismo muore.» Ha la bocca storta, deformata dalla tensione e dalla preoccupazione. «Il nome di Roland è stato citato tra i responsabili. Ti prego, stai attenta. Potrebbe essere un pericolo. Per te.»

Mi riprendo il polso con uno strattone. Una furia rovente e primordiale mi ribolle nelle viscere. «È assurdo. Sono solo vili menzogne. Vedi di metterle a tacere, prima che…»

Chloé rientra nella stanza. È sempre stata una bambina molto attenta. Si blocca incerta, lo sguardo che guizza da una all’altra, gli occhi enormi.

«State litigando?»

Mi affretto a rassicurarla. «No, tesoro. Stavamo solo decidendo dove ti avrebbe portato la zia oggi. Al giardino delle Tuileries, immagino.»

«Oh, sì. E oggi avremo anche una guardia del corpo» annuncia Romaine, e senza dire altro si dirige in fretta alla porta. Le accompagno sulla soglia, godendomi le braccia della mia bambina intorno al collo mentre mi saluta.

«Niente nuoto» raccomando. A mia sorella.

Dal balcone osservo le due teste bionde sbucare sotto di me sul lastricato di avenue Kléber. Romaine e Chloé si tengono per mano. Non riesco a liberarmi dell’immagine di mia sorella in quella stanzetta puzzolente, nelle mani i colli frastagliati delle bottiglie di whisky rotte mentre scaglia vampe di furore addosso all’uomo che ha cercato di stuprarmi. È un’immagine che non mi lascerà mai.

Sono appena uscite in strada che ecco una testa nera attraversa e si unisce a loro, un uomo grosso con una camicia scura e un aquilone rosa acceso sotto il braccio. Perfino da qui riesco a vedere l’eccitazione di mia figlia. Saltella su e giù, sfiorando l’aquilone con i ditini. Dunque sarebbe questa la guardia del corpo. Socchiudo gli occhi per mettere meglio a fuoco e ne ricavo un’impressione di forza e sicurezza, non solo per l’ampiezza delle spalle o per la postura eretta della schiena. È il modo in cui cammina. A dispetto di una lieve zoppia quest’uomo incede con la grazia circospetta di un felino, più che camminare. Qualcosa in lui non appartiene alle anguste vie di Parigi.

Sono sicura che è stato lui ad accendere il fuoco in mia sorella, lo stesso uomo che conquista mia figlia con un aquilone che ha il colore dei suoi sogni. La osservo farsi via via più piccola mentre si allontana ma non ho paura per la sua sicurezza. Sanno tutti che, se solo osano torcerle un capello, dovranno vedersela con me.

Il terzetto sparisce alla mia vista, e con mio grande disgusto mi rendo conto che sto piangendo.

Incontro Gustav Müller al Louvre. Donne prosperose osservano ogni nostra mossa, le carni abbondanti talmente voluttuose, traslucide e indecenti che sono costretta a distogliere lo sguardo. Non sono mai stata una grande fan di Rubens, l’artista fiammingo che ha dipinto queste tele monumentali straripanti di donne burrose per Maria de’ Medici, ma è evidente che Müller ne è infatuato. Non riesce a tenere gli occhi lontani da una simile cornucopia di rosei capezzoli.

Magari è un’ossessione tedesca. Seni come zucche polpose e faccini che appartengono alle schiere degli angeli. L’ideale hitleriano di femminilità. Rabbrividisco. Gli artisti francesi sono più nelle mie corde, David e Degas i miei preferiti. Il primo dipingeva con un’austerità classica che mi tocca nel profondo, l’altro ha dato vita a una serie di studi di ballerine in cui ha svelato le ossa dentro la carne. Quello che tiene insieme una donna.

«Allora, perché siamo qui?»

Müller è brusco. Avrò interrotto il suo pranzo domenicale con la famiglia? No di sicuro. La sua famiglia è lontana, a Berlino. A ingozzarsi di sauerkraut e bratwurst, scommetto. Allora forse avrà una putain d’alto bordo che lo aspetta per tenergli compagnia nel pomeriggio? Me lo auguro. Sorrido. Mi piace pestargli i calli, ogni tanto.

È bravo nel suo lavoro, molto bravo. Roland parla un gran bene di lui. Tiene in pugno una sfilza di informatori a ogni livello del governo francese, e sa esattamente quali piani stanno ordendo Daladier e Winston Churchill, quel furbetto che è la spina nel fianco del primo ministro britannico Neville Chamberlain. Daladier sta ancora parlando e già Müller invia le informazioni a Berlino, giuro. In codice, e direttamente nello studio privato di Hitler.

Potrò anche non concordare con tutti i metodi del Führer, ma solo il fascismo è la risposta per questa epoca. E Hitler lo capisce. È la nostra unica arma contro la repellente minaccia comunista in Europa. Adolf Hitler è davvero il nostro Führer, il nostro condottiero, l’unico pronto a ergersi contro questa minaccia e trasformare la propria nazione in un modo che la Francia deve fare suo. È la nostra unica speranza. Mia sorella è una sciocca a fare comunella con i repubblicani, in Spagna. Quella gente ci farebbe finire a calcare le orme di Stalin prima ancora che abbiamo tempo di batter ciglio.

Fisso il ritratto che ho davanti. È opprimente, non solo per le dimensioni esagerate ma anche per il trionfo della carne. Nell’opera, iniziata nel 1617, Rubens ha ritratto la regina di Francia Maria de’ Medici come Giustizia. Seni in bella mostra, la sovrana è al centro di uno stuolo di divinità greche e romane che le porgono doni.

Müller sta forse cercando di dirmi qualcosa? Che la Francia beneficerà dei doni tedeschi? È per questo che, alla mia richiesta di vederlo, ha scelto questa sala come luogo del convegno?

C’è Minerva con il suo elmo, la dea della saggezza. Con un sussulto vedo che c’è anche Cupido, con le sue frecce.

Cupido.

Il mio cuore perde un colpo. È un avvertimento?

«Volevo accertarmi che il cadavere fosse stato rimosso. È sicuro per mia sorella rientrare nella sua stanza?»

«Lo è.»

Torno a volgere lo sguardo sul viso da cherubino di Cupido. Sui suoi strali.

«Niente più stupratori» ordino in tono monocorde.

«Niente più stupratori.»

Müller mi si affianca, studiamo il dipinto spalla a spalla. La sua voce è bassa come quella di una vipera.

«Ma è troppo vicina. È pericolosa. Immagino che suo marito sia preoccupato.»

Guardo la punta della freccia di Cupido in cerca di sangue. Non ce n’è.

«Roland sa come prendersi cura di se stesso.» Sorrido. Sono capace di sorridere per la Francia, quando serve.

«Sono in pensiero per il suo benessere, tutto qui. Roland è mio amico.»

«Come lo era Horst Baumeister?»

Scrolla le spalle muscolose. «Lo era. Ma aveva scordato per chi lavorava.»

«Sul serio?»

«Ja! Era pronto a tradirci. Era follemente innamorato di sua sorella e aveva perso la testa per quei suoi amici comunisti. Era diventato troppo pericoloso.»

«Mi piaceva Horst.»

«Piaceva anche a me. Ma il sentimentalismo è un lusso che non ci si può concedere in queste faccende.» Si gira a guardarmi, dritto come un fuso, gli occhi implacabili. «Chiaro?»

«Chiarissimo.»

«Include i sentimenti per le sorelle.»

Mi giro lentamente così che ci ritroviamo faccia a faccia e gli rivolgo uno dei miei sorrisi, sbozzati nel ghiaccio. «Se le torce anche un solo capello, l’ammazzo.»

Scoppia a ridere, una risata di pancia, sonora, beffarda, che mi fa venire voglia di fargli saltare i denti.

«Cara la mia Madame Roussel, non si sopravvaluti.»

Mia figlia torna a casa piena di risate. Le scarpe sono graffiate e il vestito macchiato d’erba, ma lei regge davanti a sé l’aquilone rosa con tutto l’orgoglio di un campione sportivo che mostra un trofeo. È raggiante. Tanto luminosa che potrei abbronzarmi al suo sorriso.

Le bacio le guance arrossate e mi chino sull’aquilone grondando stupore, come se non avessi mai visto niente del genere prima d’ora. Mi spiega che è un regalo dell’amico di zia Romy, Monsieur Martel, e rimango ad ascoltare le sue mirabolanti imprese di volo, poi la spedisco a lavarsi le manine sudicie. Però memorizzo il nome. Nell’istante stesso in cui la bimba esce, mia sorella e io ci affrontiamo, le voci basse e incalzanti.

«Chi è questo Martel? Uno dei tuoi compagni di bevute?»

Perché l’ho detto?

È la fiamma nei suoi occhi. Mi viene istintivo cercare di spegnerla. Me ne pento subito.

«Léo è il mio capo al campo d’aviazione.»

Non riesce neanche a pronunciarne il nome senza che la fiamma le arroventi le guance.

«Non solo questo, vero?»

Ma lei cambia argomento. «Dobbiamo parlare di Roland.»

«Perché?» Sono gelida. Mio marito non è affar suo.

«Perché Roland è legato ai tedeschi. Forse lo era anche otto anni fa, Florence. Forse c’entra in qualche modo con la morte di papà.»

«Certo che no. Era con me. In giardino. Ricordi?»

Mi rivolge un’occhiata tanto lunga che a un certo punto mi sento morire dalla voglia di sottrarmi, ma non lo faccio.

«Già» chiosa alla fine. «Come me. Anche io ero in giardino, ricordi? Con te e Roland.»

«Non essere assurda.»

«Ti dico che sa qualcosa. Ne sono sicura. Sto cominciando a ricordare, sprazzi. Nello studio c’era un altro uomo.» Distoglie lo sguardo.

«Ti sbagli, Romaine. Te l’assicuro.»

Sono lì lì per afferrarla, voglio scrollarla, costringerla a rivelarmi altri dettagli, ma Chloé rientra agitando le manine per mostrarci che sono pulite, e mia sorella e io ci separiamo. Entrambe col sorriso. Sorrisi che sembrano ringhi.

«Roland, mia sorella non sta bevendo.»

Siamo a letto ora che Chloé si è addormentata, le calde dita del sole serale che ci lambiscono la pelle nuda tra le lenzuola. Roland mi tiene i fianchi con entrambe le mani e con le labbra mi inanella una serie di baci lungo lo stomaco. Il loro calore mi scende direttamente all’inguine. Alza la testa per guardarmi.

«Perché no?»

«Per via di quel suo amico, Léo Martel. Non sta bevendo, quindi comincia a ricordare.»

«Semplice. Spediscile una bottiglia di whisky. In passato ha funzionato.»

«Questa volta non sarà altrettanto semplice.»

Le labbra di mio marito stanno veleggiando verso il mio seno, ma si fermano di colpo. Sento il suo respiro pesante sulla mia pelle.

«Cosa ricorda?»

«In realtà non lo sa ancora. Ha le idee parecchio confuse. Però adesso è convinta che sia coinvolto un tedesco. E tu. Pensa che sia coinvolto anche tu, Roland.»

Lui alza la testa. Gli occhi si tuffano nei miei, il volto si avvicina al mio. Vedo le cicatrici argentate sul mento dove una volta è stato sfiorato dai pallini di un fucile da caccia.

«Perché io? Io ero in giardino.»

«È quello che le ho detto.»

«Allora diglielo di nuovo.»

Gli faccio scivolare la mano lungo i tendini della gola. Sono tesi, li sento pulsare.

«Era con Horst Baumeister quando è stato investito, ieri sera.»

«Mon Dieu!»

Non aggiungiamo altro. Gli picchietto ritmicamente le dita contro le costole. Gli piace. Reagisce come se ogni colpetto gli somministrasse una leggera scarica elettrica e lo sento indurirsi contro di me. Gli prendo in bocca la clavicola, ci appoggio i denti, ma non mordo. Non ancora. Ci faccio guizzare la lingua. Mi piace il sapore della sua pelle. Non sono mai stata con nessun altro, solo lui, ma ritengo impensabile che un altro uomo possa avere il sapore meraviglioso di mio marito. So quel che sta per dire ancora prima che apra bocca.

«Devi fermarla, Florence. Altrimenti lo farò io.»

Azzanno.