«Léo, ho bisogno di vederti.»
«Adesso non posso, Romy, mi sto occupando dei nuovi arrivati.»
In effetti sentiva dei rumori in sottofondo, voci che lo cercavano, e il rombo grintoso di un motore de Havilland che le fece stringere il ricevitore del telefono. Lo stava perdendo. Visualizzò la concentrazione sul suo viso.
«Léo. Cinque minuti. Non chiedo altro. È importante.»
Questo lo riportò da lei. Si permise di immaginargli un sorriso alla prospettiva di vederla. O invece stava aggrottando la fronte, le cespugliose sopracciglia scure che si avvicinavano? Lo ascoltò respirare.
«D’accordo. Al caffè Martine.»
«Grazie, Léo.»
Una pausa. «Va tutto bene?»
«No.»
Un sibilo all’altro capo della linea. «Sono già per strada.»
Avrebbe voluto dirgli che lo amava, ma aveva già riagganciato. Sperò per un lungo istante di sentire qualcos’altro, ma tutto taceva. Non avrebbe saputo dire se fosse bene o male.
Romy prese la metropolitana e giunta al caffè si accomodò a un tavolino all’aperto. Il locale, decentrato nel quartiere delle Épinettes, una zona industriale, offriva riservatezza. Un sole slavato stava spingendo via le nuvole e Romaine si crogiolò al suo calore, ma non servì a sciogliere il gelo che aveva dentro. Ordinò un caffè. Immagini della sorella le gremivano la mente succedendosi senza posa. Florence a terra priva di sensi, al gelo. Oppure sola, disorientata. Mani legate. In uno scantinato buio da qualche parte. Occhioni azzurri colmi di paura.
«Sto arrivando» le bisbigliò.
Una mano le sfiorò la nuca. Si voltò ed ecco Léo Martel, un’ombra alta contro il cielo, in viso un’espressione preoccupata. Era sbucato dal nulla. Indossava una camicia scura aperta sul collo, niente giacca nonostante l’aria fredda. Si sedette, nei gesti un’urgenza che non gli apparteneva. C’era qualcosa che non andava.
Gli occhi scrutarono i suoi e, qualunque cosa vi avesse visto, non gli piacque, perché le strinse forte la mano, il pollice che premeva sul polso, là dove batte il cuore. «Cosa c’è? Cos’è successo? Dimmelo, Romy. Cosa? Cosa ti ha ridotta in questo stato?»
Eppure vista da fuori lei sembrava tranquilla. Nessun segno esterno di agitazione, niente lacrime o singhiozzi. Come faceva a leggerle dentro così bene?
«Si tratta di Florence.»
L’altro inarcò un sopracciglio.
«La mia gemella. L’hanno rapita.»
«Rapita? Chi?»
«Non ne ho idea. Mio cognato pensa che sia stato tu.»
Martel si fece di pietra. Intorno a loro gli avventori si salutavano, un ragazzetto blandiva un bastardino dall’aria consunta per indurlo a esibirsi in numeri che gli fruttassero qualche franco, le automobili passavano rumorose, il mondo intero era in movimento. Tutto, tranne Léo Martel. Un’immobilità che ricordava l’occhio del ciclone.
«Ed è quello che pensi anche tu, Romaine?»
«No.»
«Sicura?»
«Sì.»
Nell’istante stesso in cui lo disse, si rese conto che non era solo una parola. Era la verità. Non pensava che Martel fosse capace di un gesto simile. Ma Noam? Era tutto un altro paio di maniche. Léo dovette percepire la sincerità della sua affermazione, perché si portò piano la sua mano alle labbra e le baciò le nocche a una a una.
«Una manina tanto piccola, un pugno tanto forte.»
Non le era chiaro a cosa si stesse riferendo. L’aggressione con le bottiglie di whisky, o quella al padre? Con l’altra mano, gli accarezzò la guancia.
«Cosa succede, Léo?»
«Questa mattina sono andato alla modisteria di Diane, aveva delle informazioni per me. Al mio arrivo era seduta dietro il bancone, un proiettile in fronte.»
La mano di Romy corse alla bocca. «Cupido.»
Per qualche istante, rimasero immersi in un silenzio fatto di dolore.
«Devo parlare con Noam» disse lei alla fine.
La fabbrica era rumorosa e sporca e puzzava di grasso di maiale. Era uno stabilimento di lavorazione delle carni, anni e anni di sugna e lardo erano penetrati nell’ammattonato, rendendolo nero e scivoloso. Martel la guidò alle grandi porte dove ogni mattina venivano consegnate le carcasse, e da lì attraverso stanzoni enormi in cui il rumore metallico dei macchinari e i colpi delle mannaie sugli ossi le rimbombarono nelle orecchie.
Lo seguì mentre spalancava una pesante doppia porta entrando in un locale dove il freddo la investì con la forza di un pugno, il fiato che si addensava in bianche spire di serpente. Davanti a loro, oscene carcasse rosa di suini pendevano dai ganci, eviscerate e lavate, una fila dopo l’altra, rigide e dritte come un esercito di morti. Ma non furono quelle a catturare l’attenzione di Romy, bensì l’uomo in fondo allo stanzone. Noam.
Si costrinse a camminare. Non correre. Non gettarglisi addosso, scrollandolo con tutte le sue forze fino a fargli confessare dove aveva nascosto sua sorella.
Fu Martel a parlare. «Noam, scusa. Avremmo bisogno di te per qualche minuto.» Era una constatazione, non un cortese invito.
«Cosa diavolo ci fa lei qui?» Noam indicò Romaine con un cenno del capo. Si stava pulendo le mani sul grembiulone di tela che lo avvolgeva da capo a piedi. Un tempo doveva essere stato bianco, ma ora era zuppo della linfa vitale di innumerevoli animali condotti al macello. «E cosa porta qui te, Martel? Ci sono forse notizie di…?»
«Diane è morta» tagliò corto Léo.
L’altro non mostrò alcuna reazione ma rivolse un’occhiata caustica a Romy, che finì per fare proprio ciò che si era ripromessa di evitare. Perse il controllo. Artigliato quel grembiule disgustoso, si tirò Noam faccia a faccia.
«Cosa hai fatto a mia sorella?»
«Toglimi le mani di dosso.»
L’uomo cercò di scrollarla via, ma Romaine tenne duro. Gli sentiva addosso l’odore acre del grasso di maiale.
«Dimmi dov’è, bastardo, o ti ficco una di quelle mannaie dritta in testa.»
«Ho sentito dire che in questo sei brava.»
«Hai sentito bene.»
«Cosa ti fa pensare che abbia fatto qualcosa a tua sorella?»
«È così?»
«No.»
«Stai mentendo.»
Il viso dell’altro si caricò di tensione, le narici si dilatarono. Il suo respiro le soffiò caldo sul viso. «Tua sorella è una traditrice della Francia.»
La mano di Romaine scattò, il ceffone tanto forte da lasciargli il segno, un marchio di fuoco sulla guancia.
«Fermi!» Martel si piazzò tra di loro, le braccia forti a dividerli. «Peggio di due teppistelli.» Voltando le spalle a Romy, guardò Noam dritto negli occhi. «C’entri qualcosa con la scomparsa di Madame Florence Roussel?»
«No, non c’entro.» L’uomo sputò sul pavimento lurido, in quel freddo la saliva si solidificò immediatamente. «Ma quella strega e suo marito meritano la ghigliottina. Stanno regalando la Francia alla Germania su un vassoio d’argento.»
Romy lo fissò orripilata. «Lo credi anche tu, Léo? Che mia sorella meriti di morire?»
Invece di risponderle, lui continuò a interrogare Noam. «Hai idea di dove si trovi?»
«No.»
Léo non indugiò oltre. Afferrata Romy per le spalle la girò verso la porta e si avviò tra gli animali morti, ma lei si fermò a guardare un’altra volta l’uomo dai neri occhi assassini.
«Cos’è che ti spinge a lavorare in un posto del genere, Noam?»
Lui allargò le braccia, i palmi in alto, e per la prima volta Romaine lo vide sorridere. Un sorriso teso, arrabbiato, corroso da un’inquietudine privata.
«A chi verrebbe in mente di andare a cercare un ebreo in mezzo a una legione di impure carcasse di porco?»
Romaine si era persa il pomeriggio, se l’era visto scivolare tra le dita più in fretta del grasso di maiale. Raggomitolata sul pavimento, la testa sospesa sulla tazza, si maledisse.
Merita la ghigliottina?
Dopo che si erano lasciati alle spalle quell’odioso stabilimento, Martel aveva acquistato per lei una fetta di cocomero a un banchetto del mercato e l’aveva imboccata all’ombra di un tiglio frondoso. Alla fine, le aveva asciugato il succo dalle labbra con un dito.
«Romy, abbi fede. La troveremo, se è ancora a Parigi. Spargerò la voce, raccomanderò ai nostri di non torcerle un capello, se sono stati loro.»
Romy gli si era appoggiata a una spalla. «Grazie, Léo.» Sentiva ancora in gola il veleno delle parole di Noam, a dispetto della dolcezza dell’anguria. «Tu gli credi, Léo?»
«Sì.»
«Perché?»
«Perché lo conosco, so che posso fidarmi.»
«Fidarti di quell’essere? Io invece gli avrei fatto il terzo grado. È il tipo d’uomo capace di sorriderti mentre ti pianta un coltello in pancia. Perciò no, io proprio non mi fido di quel bastardo.»
«La sua famiglia arriva da Norimberga. Il padre era un gioielliere, un gioielliere ebreo, pestato a morte dagli squadroni di Hitler nel 1935. La sorella è stata stuprata, alla faccia della legge che vieta i rapporti sessuali con gli ebrei. La madre si è suicidata impiccandosi al pennone di una svastica.»
«Smettila, Léo. Smettila di farmi sentire in pena per lui.»
Martel le aveva cinto le spalle con un braccio, esalando un lieve sospiro. «È mio amico, Romy. Perciò sì, gli credo. Scoprirò il possibile, fidati di me. Ora torna all’appartamento, vedi di dormire un po’.» Le aveva fatto correre una mano sul braccio, e Romaine aveva percepito un senso di premura in quelle dita. «Hai bisogno di dormire, amore.»
«Cosa fa Noam per te?»
L’aveva guardata sorpreso, poi aveva sorriso. «Chiediti piuttosto cosa faccio io per lui.»
Una fitta di terrore le era corsa su per la spina dorsale. «Cosa fai per Noam?»
«Ora lascia che mi occupi di tua sorella. Di Noam possiamo parlare più tardi.»
Romy gli aveva posato un bacio sulle labbra perché voleva tenere con sé una parte di lui, ed era già sparito. Martel era come le ombre di una giornata grigia, che si dileguano prima ancora che tu riesca ad afferrarle. Si era avviata per tornare nell’umido appartamento seminterrato sulle rive della Senna, ma proprio appena prima di arrivarci, mentre incespicava sull’acciottolato, un pensiero le aveva attraversato la mente fulmineo come la coltellata di un assassino.
E se Léo e Noam avessero messo in piedi una sceneggiata, giù allo stabilimento? Se avessero previsto la sua reazione, e scelto con cura le parole da offrirle?
Era stato il colpo di grazia. Lo stomaco aveva preteso a gran voce il vecchio, familiare torpore. Aveva virato verso il bar all’angolo, dove i soliti quattro gatti erano raggomitolati sulla porta.
«Chloé.»
«Tante Romy, sei qui.»
La bimba le volò tra le braccia nell’istante stesso in cui mise piede nell’appartamento di avenue Kléber, i ricci che danzavano, le dita che si abbarbicavano alle spalle della zia. Chloé aveva imparato presto e nel modo più duro che le persone possono sparire dalla tua vita senza alcun preavviso, e non era disposta a vederlo accadere un’altra volta. Premette la guancia contro quella di Romaine, le rispettive lacrime che si mescolavano.
«Mamma è con te?» La voce di Chloé era implorante.
«Non ancora, tesoro, ma tornerà presto.»
La bimba tremava.
Solo in quell’istante Romaine si accorse di Roland, che le fissava dall’altro capo della stanza.
Florence, dove sei?