«Sst, tranquilla» mormorò Martel.
Come se quella ferita fosse Romy. Gli stava cambiando la fasciatura dello squarcio sulla schiena e le sfuggivano piccoli gemiti di dolore ogni volta che gli tamponava il sangue dalla pelle. Era quasi l’alba e i primi fili di grigio della giornata si stavano insinuando nell’appartamento seminterrato, dove Léo giaceva sul letto a pancia in giù.
A dispetto dell’arazzo di cicatrici dovute all’incidente di volo, aveva una schiena meravigliosa, i muscoli ben definiti sotto la pelle mentre si tendevano a proteggere la nuova ferita. Noam era riuscito a trovare un chirurgo persino a quell’ora della notte e il proiettile era stato estratto dalla scapola. Romaine gli era stata accanto, la mano nella sua, lasciandosela stritolare mentre il bisturi faceva il suo dovere. Gli aveva dato del cognac prima e dopo, ma lei non ne aveva bevuta una goccia. Già solo i vapori erano riusciti a procurarle i crampi.
Il medico se n’era andato in fretta, il pugno gonfio di franchi, chiaramente nervoso all’idea di trovarsi lì. Ma il taglio si era riaperto, e Romy l’aveva inondato di antisettico e ora lo stava bendando di nuovo. Chinando il capo, depose un bacio lieve sull’opera finita.
«Adesso non osare muoverti, Léo Martel. Non un muscolo. Mi hai sentito?»
L’uomo aveva la testa girata di fianco sul cuscino, le labbra piene si incurvarono in un sorriso. «Agli ordini, infermiera Duchamps, ricevuto!»
«Guai a te se sgarri, caro mio! Ti tengo d’occhio, resterò seduta qui tutto il giorno.»
Gli solleticò la barba ispida sulla gola, e poi risalì a seppellire le dita tra i capelli scuri. Strinse forte. Il cuore le si spaccava ogni volta che pensava a quanto vicina era arrivata a perderlo.
«Romy.»
«Ti sto facendo male?»
«No. Prendi il fascicolo di tuo padre e portalo qui.»
«No, Léo. Adesso devi riposare.» Aveva la pelle livida e cerea nonostante la prima barba del mattino. «Voglio che tu dorma, e…»
«Romy.» Brusco, questa volta. «Fai quello che ti ho chiesto. Per favore.»
«È inutile. L’ho già guardato io. È tutto in tedesco.»
«Bien sûr. Però io il tedesco scritto lo capisco.»
Romaine appoggiò la testa accanto alla sua, naso contro naso, bocca contro bocca. «Prima dormi. Dopo leggerai.»
Le sfiorò le labbra. «Portami quella cartellina, Romy, oppure giuro che mi alzo e vado a prendermela da solo.»
Controvoglia, Romaine andò a recuperare il fascicolo in soggiorno, dove Noam stava fumando una sigaretta turca e mangiando cipolla cruda. Di nuovo in camera da letto, sfilò le prime pagine e le porse a Martel. Non era il massimo leggere in quel modo.
Léo si sistemò meglio. «Te le tradurrò via via. E dopo andrai a vedere se tua sorella è tornata a casa.»
Si era levato il vento, la polvere della città vorticava sul cristallo della vecchia Peugeot. Noam stava portando Romaine in avenue Kléber attraverso le strade sonnolente del primo mattino. Solo gli spazzini erano già all’opera con le ramazze, e qualche chiosco di fiori iniziava ad aprire i battenti. La luce, argentata e morbida, tingeva i tetti facendoli assomigliare a pelle di serpente.
A preoccupare Romy era il fatto che Noam non avesse avuto bisogno di chiederle l’indirizzo di sua sorella. Ci si era recato diretto. Una volta arrivati, l’uomo posteggiò a un isolato di distanza, ma lei non scese subito. Restò a guardare fuori dal finestrino anche quando il motore si spense. L’altro la fissò, in attesa. Tranquillo.
«Grazie, Noam.»
«Per cosa?»
«Per avere salvato la vita di Léo.»
«Non l’ho fatto per te.»
«Lo so.»
Romaine si voltò a guardarlo e studiò apertamente il viso, i lineamenti forti, il naso grande, i capelli folti e neri come inchiostro. «Noam, sei ebreo?»
«Sì. È un problema?»
«No, certo. Ma spiegherebbe perché sei antinazista.»
«Ci sono mille altre ragioni per essere antinazisti. Tu non sei ebrea, però li detesti lo stesso.» Le rivolse un sorrisetto rapido, arrabbiato. «Al contrario di tua sorella. E tuo cognato.»
Romy strinse le mani in grembo. Stai calma. Non lasciargli fiutare la paura.
«Noam, tu sai dov’è mia sorella?»
«No.»
«Se lo sapessi, me lo diresti?»
«Probabilmente no.»
«Stai dicendo la verità?»
Gli sfuggì una risatina evasiva. «Sarebbe bello saperlo, eh?»
La mano di Romy scattò ad afferrargli la camicia. «Se le torci anche solo un capello, giuro che ti rimuovo i testicoli con quel tuo trinciante e te li faccio ingoiare.»
Spalancò la portiera, uscì e se la sbatté alle spalle. Noam si protese ad abbassare il finestrino. Un ghigno gli spaccava la faccia, i denti come zanne, lunghe e minacciose.
«Mi piacciono le donne ambiziose.» Senza aggiungere altro, si avviò in direzione dell’Arc de Triomphe.
L’appartamento era silenzioso. Romy si fermò nell’ingresso, l’orecchio teso. Sentì i peli rizzarsi sulla nuca ma non avrebbe saputo dire perché, a parte la solita, intensa fragranza delle rose bianche. All’improvviso la travolse il timore che fossero spariti tutti, e andò in panico. Corse alla cameretta di Chloé e spalancò la porta, ma la bimba dormiva nel suo lettino come sempre, scomposta, tranquilla. Il battito di Romaine si placò. Le depose un bacio sulla fronte calda, inspirò il dolce profumo della pelle assonnata e la lasciò in pace.
Allora cos’era? Quella sensazione che qualcosa non stesse andando per il verso giusto. In punta di piedi, si avvicinò alla porta di Florence e Roland. Era chiusa, ma vi rimase davanti per cinque minuti buoni, il respiro sommesso, l’orecchio teso a percepire il minimo rumore. Non ne sentì. Florence era lì dentro? Era tornata? Provò la forte tentazione di abbassare la maniglia ed entrare a controllare di persona, ma riuscì a resistere. Passò invece dall’atrio, dove recuperò penna e carta da un cassetto del tavolino, e si ritirò nella sua stanza. Appollaiata sulla graziosa sedia della toeletta, prese a scrivere.
Antoine Bernard Duchamps. Nato il 5 settembre 1878 a Chartres. Studia fisica alla Sorbona e lavora per un fabbricante di telescopi.
Queste cose le sapeva già da piccola. Avevano un telescopio in bagno, ci osservavano il cielo notturno.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, nel 1914, si arruola come sottotenente nell’Armée de l’Air, l’Aeronautica militare francese.
«No, no, Léo, devi avere capito male. Prova a rileggere» gli aveva detto a quel punto.
Era sicurissima. Durante la guerra, suo padre aveva lavorato a Parigi, un tranquillo impiego d’ufficio. Era ciò che le aveva sempre detto. Perché avrebbe dovuto mentire?
Léo aveva riletto il paragrafo. «Vieni qui, Romy.»
Si era inginocchiata sul pavimento accanto a lui, la testa vicina alla sua. Aveva preso in considerazione persino l’idea di sottrargli i fogli e farli a pezzi. «È una menzogna, Léo.»
«Magari sì. Però dovresti ascoltare.»
Antoine Duchamps è stato abbattuto in Germania da un Fokker Eindecker. Lui pilotava un biplano spad, il caccia francese. Ha ricevuto assistenza medica ed è stato internato in un campo di prigionia di Magdeburgo nel 1916. Lì è diventato amico di un ufficiale dell’esercito tedesco. Da quel momento, si è recato in Germania a intervalli regolari.
Romaine aveva ascoltato, la gola che bruciava di domande che non osava formulare ad alta voce. Papà era un pilota? Eppure non ne aveva mai fatto parola. Nessun accenno al volo, alla gioia pura che si prova pilotando. Nessun accenno neanche all’orrore di venire abbattuti. Nessuna fotografia incorniciata sul pianoforte, lui in uniforme, fiero accanto al suo SPAD.
«Perché? Perché non me l’avrebbe detto? Non ha senso. Sapeva che adoro gli aviatori.»
Martel aveva posato i fogli sul letto e le aveva preso la mano. «Sono tanti i motivi che possono spingere un uomo a tenere nascoste le sue imprese di guerra.» Il pollice le aveva massaggiato le unghie, quasi potesse indurre il dolore a strisciare fuori. «Alcuni trovano troppo doloroso parlarne. Soprattutto quando c’è di mezzo un incidente aereo. Io ne so qualcosa.» Le aveva rivolto un sorriso sghembo. «A me sembra che volesse solo gettarsi tutto alle spalle. Qui dice che non ha più volato, quindi forse non voleva che lo facessi neanche tu. È troppo pericoloso.»
«Se avesse voluto, avrebbe potuto volare di nuovo. Non aveva ferite permanenti.»
Léo le aveva sfiorato il cuore. «Era ferito qui.»
Sola nella sua stanza, Romaine sedeva immobile, i pensieri che si arrovellavano su ciascuna parola tradotta da Martel. Il documento riferiva che dopo la guerra, nel 1918, suo padre aveva trovato un impiego presso la Breguet Aviation, ma presto si era spostato a lavorare per il ministero dell’Aeronautica e, poi, per quello della Difesa. Dove era rimasto per il resto dei suoi giorni.
Perché lei non lo sapeva? Com’era possibile?
Lavorava per il governo, diceva lui. Un tediosissimo lavoro d’ufficio. Qualcosa che aveva a che fare con i trasporti. Aveva lasciato intendere che c’entrassero le ferrovie. Niente di interessante.
Maman lo sapeva? E Florence? Probabile.
Romy si sentiva esclusa, tradita. Ricominciò a scrivere come una furia. Il fascicolo recuperato nell’ufficio di Müller elencava dettagli della vita paterna di cui nessuno avrebbe dovuto essere a conoscenza. Gli amici che incontrava, i club che frequentava, i nomi di almeno tre amanti – Marianna, Giselle e Fifi – con relative fotografie. Erano citate le figlie, Florence e Romaine, le domestiche e persino il dentista e il medico. Ma quel che era peggio – molto, molto peggio – riportava ogni viaggio in Germania.
Tantissimi. Perché così tanti?
A Berlino. Nel bacino industriale della Ruhr. A cantieri aeronautici tedeschi: Junkers, Fokker, Hansa und Brandenburgische Flugzeugwerke, Bayerische Flugzeugwerke, così come a stabilimenti analoghi in Francia: Avions Dewoitine, Société des avions Caudron, SPAD, Voisin. Spesso e volentieri era accompagnato da Gustav Müller. Eppure non era stata quella segreta dimestichezza con gli aerei a farle perdere ogni fiducia nel padre. Erano state le riunioni clandestine. Con Adolf Hitler. Nel fascicolo se ne citavano due. Una a Norimberga. Una a Berlino. Incontri privati, faccia a faccia con il capo del Partito nazista prima che si evolvesse nel Führer.
Ma perché?
Un suono giunse dall’ingresso. La porta che si chiudeva. Qualcuno che entrava nell’appartamento. Il sollievo la travolse. Balzò in piedi, corse in corridoio.
«Florence!»
Ci sono volte nella vita in cui ti si spalanca davanti un baratro e ti ci tuffi a occhi chiusi. A lei era successo otto anni prima, in quello studio, e le accadde di nuovo in quel momento.
Non era Florence.
Era Roland.
E, in quell’istante, Romaine seppe che sua sorella era morta. Se ne stava lì in piedi, affogando nel nauseabondo odore delle rose, e fu colpita dalla certezza che non avrebbe mai più rivisto la gemella. C’era qualcosa nel modo in cui il cognato si era sfilato il cappotto, qualcosa che prima non c’era mai stata. Un’oscurità. Apparteneva a un altro mondo, uno dove la vita e la morte non valevano niente. Il suo sguardo l’aveva visto al tavolo da poker, era quello di chi punta tutto. O la va o la spacca.
«Cosa accidenti ci fai in piedi a quest’ora, Romaine?»
«Potrei chiederti lo stesso.»
Aveva la cravatta storta, un bottone della camicia slacciato, i polsini aperti e laschi. Roland, che di solito andava in crisi se aveva un capello fuori posto.
«Cos’hai fatto a mia sorella, Roland?»
«Non essere sciocca, Romaine.» Gli occhi strizzati in due fessure esauste, l’uomo le voltò le spalle e si diresse verso la sua camera. Fu in quel momento che Romy notò lo sbaffo di rossetto sul colletto della camicia.
«Come osi, Roland? Come osi andare con un’altra quando il cadavere di mia sorella non è ancora freddo?»
«Il mio comportamento non è affare tuo.»
«E invece lo è eccome, perché ho intenzione di trovare Florence ovunque tu l’abbia nascosta…»
«Vattene a letto, Romy. Togliti di mezzo.»
«Perché mi detesti così tanto, Roland? È perché hai dovuto mentire per me?»
L’altro sospirò e, suo malgrado, scosse il capo. «È perché Florence ha sempre voluto più bene a te che a me. E non te lo meriti.»
Romy si impietrì, ammutolita mentre assimilava le parole del cognato. Ha sempre voluto, non vuole. Al passato. Florence era morta. Eppure lei non si sentiva il cuore squarciato in due. Seguitava a starsene appeso lì nel suo torace, intirizzito, insensibile.
Roland aprì la porta della sua camera da letto – della camera da letto di Florence –, ma all’ultimo minuto tornò a parlarle. «Domani mattina la polizia verrà a parlare con te.»
«Con me? E perché mai?»
Romaine vide scorrere nella mente lingue di fuoco, e i cadaveri di due gendarmi in strada, uno senza faccia. Roland sbatté la porta senza fornirle risposte. Abbassando lo sguardo, Romy si rese conto di avere del sangue sulla gonna.
«Quindi non ha idea di dove possa essere andata sua sorella?»
«No.»
«Aveva mai espresso il desiderio di partire?»
«No.»
«Mademoiselle Duchamps, mi rendo conto che per lei non è facile, ma sono costretto a chiederglielo. Com’erano i rapporti tra sua sorella e il marito? C’erano problemi?»
«Non che io sappia, no.»
«Madame Roussel aveva intenzione di lasciarlo?»
«No.»
La pazienza del gendarme si stava esaurendo. Aveva un faccino giovane e ambizioso, probabilmente avrebbe preferito essere per strada a dare la caccia a ladri e assassini. Quanto avrebbe voluto spiegargli che di assassini ce n’è di tutte le varietà.
«Mia sorella non avrebbe mai abbandonato la figlia. Mai. Deve per forza esserle successo qualcosa di male.»
Il poliziotto parve stomacato. Scribacchiò qualcosa sul taccuino.
«La ringrazio, Mademoiselle. Solo un’ultima richiesta.»
Romaine si sforzò di non mostrarsi allarmata. «Sì, mi dica.»
«Ho bisogno di parlare con sua madre. Lei magari ne sa di più. Mi può dare l’indirizzo, per favore?»
«È proprio necessario? Non vorrei farla preoccupare per niente.»
«È meglio battere tutte le piste.»
L’uomo non riuscì a trattenere un sorrisetto. Era chiaro che avrebbe fatto giusto il minimo, niente più. Diceva di non avere trovato testimoni riguardo all’incontro di due donne in place Pigalle, ed era evidente che era convinto che Florence fosse scappata con un amante. Succedeva di continuo. Ma non conosceva sua sorella.
C’era qualcuno che la conoscesse?
«Maman.»
«Romaine. Qual è il problema?»
Una telefonata dalla figlia, e il primo pensiero era che ci fosse un problema. Romy non ne ebbe piacere.
«Probabilmente verrà a trovarti la polizia, mamma.»
Tac tac. Quando era preoccupata, Adelle si picchiettava le unghie contro i denti, un becchettio che aveva punteggiato l’infanzia di Romy.
«Non preoccuparti, Maman. Devono giusto farti qualche domanda, niente di…»
«Si tratta di Florence, vero?»
Non poteva mentirle. Non questa volta. «Sì. È scomparsa, e non sappiamo dove sia, ma…»
«Te l’avevo detto che aveva qualcosa che non andava.»
«No, mamma, non credo…»
L’altra la rimbeccò, la voce tremula. «Cosa ne sai?»
«A quanto pare molto poco, Maman.»
Tac tac. «Cosa vorresti dire?»
«Voglio dire che il giorno della morte di papà sono successe delle cose di cui devi per forza essere stata a conoscenza, eppure non me ne hai mai parlato.»
Silenzio.
«Mamma?»
«A volte, Romaine, è meglio non sapere. Tu sei testarda ed emotiva, sempre così sicura di sapere qual è la cosa giusta, proprio come tuo padre. Non ci si può fidare di te.» In contrasto con le parole, la voce era gentile, quasi una carezza. «Ti voglio bene, Romaine, ma sappiamo entrambe che quel giorno nello studio di papà hai creato problemi. Comunque, è ora di finirla. Lasciamolo nel passato. È meglio per tutti. Non voglio più parlarne.»
Il silenzio tornò. Romy riusciva a sentire solo il rombo sbalordito del suo stesso sangue nelle orecchie.
«Dimmi, Maman, hai visto il tedesco che c’era nello studio?»
«Trova tua sorella, Romaine.»
E Adelle riagganciò.
Romy si avvicinò alla finestra e guardò avenue Kléber, sei piani sotto. Sopra la sua testa, il cielo bianco ghiaccio sottraeva al mondo ogni colore. Giù sull’ampio viale alberato, oltre il flusso costante di vetture e parigini che si affrettavano verso i loro affari, stazionava una figura solitaria in abito nero. Martel. Il braccio sinistro ad armacollo.
Léo, cosa ci fai qui? Dovresti stare nascosto. Müller ormai ti starà dando la caccia.
L’istinto le diceva di precipitarsi giù per le scale, attraversare il viale e volare tra le sue braccia, ma non lo fece. Se l’avesse fatto, gli avrebbe dovuto parlare dei progetti segreti dell’Arsenal e del silenziatore nel cassetto della scrivania del cognato. Avrebbe dovuto confessare che ora sospettava che Roland fosse Cupido, non Horst Baumeister, Roland ad aver preso l’abitudine di piantare un proiettile in testa ai nemici. Nemici come Grégory, François, e Diane.
Il sudore le grondava giù per le tempie. Lo asciugò con la parte interna del polso.
C’era anche altro.
Avrebbe dovuto dire a Léo che pensava che suo cognato avesse ucciso la moglie, anche se non sapeva perché. Che l’avesse sepolta, e ora fosse tutto preso da una relazione con un’altra donna. A quel punto Léo – o uno dei suoi amici, come Noam – avrebbe finito per uccidere Roland.
E lei non poteva permetterlo.
Otto anni prima, il cognato le aveva salvato la vita. Si era alzato in tribunale e aveva mentito per lei. Sotto giuramento. Per quanto lo detestasse, Romy non poteva lasciare che lo uccidessero.
Doveva farlo lei, di persona.