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Romy si tenne in movimento, sempre in movimento, perché se fosse rimasta ferma non avrebbe potuto impedirsi di urlare dalla rabbia. Si aggirò furtiva per l’appartamento di avenue Kléber come una leonessa sulle tracce della preda, i piedi che scivolavano felpati sulle mattonelle, avanti e indietro, le orecchie tese a individuare il primo giro di chiave nella serratura. Gli occhi color ambra attenti al minimo oscillare della porta.

Aspettava Roland.

Non aveva idea di quando sarebbe rientrato, magari presto, magari tardi, ma sapeva che di norma cercava di tornare in tempo per il bacio della buonanotte alla figlia. Quella sera non si era visto. Quella sera Chloé era già sotto le lenzuola, e la bambinaia si era ritirata in camera sua a scrivere una lettera al fidanzato, ad Avignone.

Roland meritava di morire.

Chiunque avesse fatto del male a sua sorella lo meritava. Prima, però, Romaine doveva scoprire cos’era accaduto nello studio di suo padre. Roland doveva essere stato a conoscenza dei fatti fin da allora, ma glieli aveva tenuti nascosti. E se li conosceva lui, allora li conosceva anche Florence. Dovevano sapere della presenza di Gustav Müller e di Horst Baumeister, eppure non ne avevano mai fatto cenno. Per tutti quegli anni l’avevano guardata dibattersi all’estremità di una corda di infelicità e rimorso, ma non avevano alzato un dito per allentare il cappio.

Era quella la ragione per cui Roland e Müller ora erano tanto legati? Non solo la fede politica, ma anche ciò che era accaduto in quello studio.

Le facevano male i polmoni mentre cercava di farvi entrare a forza l’aria e si ritrovava asfissiata dal profumo delle rose.

E Horst? Era per quello che era tanto interessato a lei? Per via dell’omicidio che le aveva visto commettere otto anni prima?

In quella storia, niente aveva senso.

Una chiave entrò nella serratura. Romy si costrinse a calmarsi nello stesso modo in cui lo faceva quando andava storto qualcosa mentre volava, quando si inceppava la pompa del carburante o il vento minacciava di strappare un cavo. Stendeva un telo bianco nella mente, lasciando in vista solo il problema e i possibili rimedi.

Perciò, nell’istante in cui la porta si spalancò e Roland fece il suo ingresso, Romy era lì, pronta ad accoglierlo. Con la sua Mauser stretta in pugno.

«Cosa diavolo pensi di fare?» Il viso del cognato si fece paonazzo alla vista dell’arma. «Metti giù quell’affare.»

L’uomo avanzò piano, come si farebbe di fronte a un cane rabbioso che non si voglia provocare. Senza togliersi il cappotto, proseguì altrettanto lentamente verso il soggiorno.

«Non essere sciocca, Romaine.» Aveva già la mano sulla maniglia.

«Cosa hai fatto a mia sorella, Roland?»

«Per l’amor di Dio, me l’hai già chiesto! Non ne so niente, non più di te.»

Spalancò la porta del salotto. Romy meditò di premere il grilletto.

«Roland, perché non mi hai mai detto che i due tedeschi nello studio di mio padre, il giorno che è morto, erano Müller e Horst?»

«Che differenza avrebbe fatto? Assolutamente nessuna, perciò lascia perdere.»

«Avrebbe potuto fare qualche differenza, per me.»

Le voltò le spalle. «Va’ all’inferno, Romaine.» Suo cognato entrò nel salone, prelevò qualcosa dal cassetto dello scrittoio – cosa? – e se la fece scivolare in tasca, quindi tornò nell’ingresso. Romy era rimasta immobile.

«Roland, raccontami cos’è successo quel giorno.»

«Ma piantala. Ti suggerisco di rimettere quella pistola dove l’hai trovata prima che rientri.»

Con quelle parole, l’uomo aprì la porta d’ingresso e se ne andò.

E lei cosa avrebbe dovuto fare? Sparargli nella schiena?

Gli concesse un leggero vantaggio e poi lo seguì. Fuori era buio come l’inferno, i lampioni che gettavano aloni tra gli alberi, ma era ancora abbastanza presto perché il flusso di automobili e pedoni formasse una barriera tra lei e la figura frettolosa che la precedeva. Roland era diretto all’angolo, di solito parcheggiava lì. L’avrebbe perso. A meno di riuscire a trovare un taxi. C’era un posteggio di taxi proprio vicino all’Étoile, e Romaine allungò il passo, decisa a correre a prenderne uno, ma proprio mentre controllava la posizione del cognato si accorse di una Peugeot nera che le rallentava accanto.

Accigliata, fece per allontanarsi, ma il finestrino si abbassò e una voce che conosceva la chiamò.

«Salta su.» Era Noam.

La portiera posteriore si aprì e il cuore le fece un balzo di gioia. Martel! Si affrettò a salire, gli sorrise. «Mi stavi seguendo?»

«In verità no, offro passaggi a tutte le belle ragazze di Parigi.»

«Cielo, che sollievo vederti. Mi sei mancato.»

«Cosa stai combinando?»

«Sto pedinando Roland. È lì, vedete? Sta salendo in auto. Secondo me ha una relazione. In ogni caso, credo che sappia molto più di quanto dice riguardo a mia sorella.»

Non appena l’altro si immise nel traffico, Romy si sporse verso il conducente. «Allons-y, Noam. Vediamo dove va.»

Mentre Noam si metteva alle calcagna della preda, Romaine tornò a rivolgere la sua attenzione a Martel. «Come stai?» Gli accarezzò piano il braccio, sempre ad armacollo. Era come la zampa di un orso chiusa in trappola, menomata, impacciata. Chissà che rabbia, per lui, che frustrazione. Eppure non le lasciava trapelare. In compenso, gli si leggeva in faccia che era felice di vederla quanto lei lo era di vedere lui. Gli si accoccolò addosso, e nei quindici minuti che impiegarono ad arrivare a place Vendôme sedettero in un silenzio felice, senza parlare di proiettili o fascicoli segreti o sequestri di persona.

Il Ritz.

Certo, ovvio. Figurarsi se non era lì che Roland incontrava l’amante. Eppure il pensiero la fece infuriare. Avrebbe voluto seguirlo, vedere in che stanza era diretto, ma Martel la bloccò.

«No, Romy, ti scoprirebbe subito. Cosa vorresti fare, salire in ascensore con lui?»

Aveva ragione, naturalmente.

«E riconoscerebbe anche me,» aggiunse Léo «però in compenso non ha mai visto Noam. Mandiamo lui, e poi verrà a dirti il numero della stanza.»

Noam si girò a guardarla e annuì. «Molto volentieri.» Il suo tono le diede i brividi.

Romaine attese fremendo d’impazienza, ma grazie al cielo non ci volle molto. Stava per scendere dall’auto, quando Martel la precedette.

«Andiamo insieme» commentò tenendole aperta la portiera.

«No, non è necessario…»

«È necessario eccome, Romy.»

Non osò contraddirlo. Entrarono nel gigantesco atrio con i suoi splendidi arredi, i sontuosi pavimenti in marmo, l’ampia scalinata e le colonne imponenti. Romaine, però, non notò niente di tutto questo. Tutto ciò che vide fu il cognato precipitarsi giù dalla scala con un’espressione furibonda. Non guardò né a destra né a sinistra, non vide i due appostati presso l’ascensore.

Romy ebbe un moto di malessere. Cos’era successo? Perché scappava via in quel modo? Aveva litigato con l’amante? Martel premette il pulsante per il terzo piano e salirono insieme. Alla luce soffusa del corridoio, raggiunsero la stanza 341. Senza indugio, Romaine bussò alla porta. Un colpo secco. Nessuna esitazione. Riusciva a sentire la tensione di Martel al suo fianco.

La porta si spalancò. Una donna. Nuda. «Tesoro, sei tornato a scusarti per…» Le parole le morirono in bocca.

Era Florence.