Sei va in città a fare la spesa col nostro SUV color carbone. Era in vendita in un piazzale a tre chilometri di distanza dalla casa, per millecinquecento dollari. Mentre lei è fuori, io e Sam ci esercitiamo a combattere nel cortile sul retro. Ci stiamo allenando tutti e tre insieme da una settimana, e sono sbalordito di quanto Sam sia diventato bravo in così poco tempo. Pur essendo minuto, ha un talento naturale e compensa la mancanza di forza con la tecnica, che padroneggia molto meglio di me.
Alla fine di ogni giornata, quando io e Sei ci ritiriamo ciascuno in un angolo del soggiorno o nelle nostre rispettive stanze vuote, Sam rimane alzato a studiare tecniche di combattimento su Internet. Quello che io e Sei abbiamo imparato dai nostri Cêpan è un metodo di combattimento che assomiglia vagamente a una miscela delle discipline terrestri jujitsu, taekwondo, karate e bojuka; è un sistema ideato per essere memorizzato dai muscoli e comprende prese, parate, movimenti fluidi, manipolazioni delle articolazioni e colpi a punti vitali del sistema nervoso dell’avversario. Abbiamo il vantaggio della telecinesi, e riusciamo a percepire anche i movimenti più impercettibili intorno a noi e reagire a essi. Per Sam invece è importante tenere gli avversari davanti a sé.
Mentre Sei finisce ogni sessione di allenamento senza un graffio, io e Sam abbiamo sempre qualche sbucciatura e qualche livido. Nonostante questo, però, Sam non perde mai la passione o la grinta.
È così anche oggi. Viene alla carica, col mento ripiegato sul petto e con lo sguardo vigile. Molla un destro incrociato, che io paro, poi un calcio laterale col sinistro, cui io rispondo facendogli perdere l’appoggio sul piede destro e mandandolo gambe all’aria. Lui si rialza e mi attacca di nuovo. Anche se va a segno spesso, data la mia forza i suoi colpi non sono molto efficaci. Qualche volta, però, fingo di sentire dolore per dargli un’iniezione di fiducia.
Sei ritorna un’ora dopo. Si cambia, infilando un paio di pantaloncini e una maglietta, e si unisce a noi. Ci esercitiamo per un po’, ripetendo lentamente le stesse sequenze di parata e calcio finché non diventano automatiche. Io ci vado un po’ piano con Sam; invece Sei non si risparmia con me, scagliandomi all’indietro con una tale forza da farmi perdere il fiato. A volte m’irrito, ma comunque mi rendo conto che sto migliorando. Non riesce più a deviare la mia telecinesi con un semplice scatto del polso; adesso è costretta a reagire con tutto il corpo.
Sam fa una pausa e rimane a guardare da un lato, in compagnia di Bernie Kosar.
«Dai, Johnny, puoi fare di meglio. Fammi vedere qualcosa di buono», dice Sei. Mi ha appena steso, dopo che le avevo tirato un calcio circolare un po’ abborracciato.
Vado all’attacco, colmando la distanza tra noi in un decimo di secondo. Provo un gancio sinistro, ma lei lo para, afferrandomi il bicipite e sfruttando il mio slancio per catapultarmi sopra la sua testa. Mi preparo a un atterraggio doloroso, ma lei non molla il braccio; invece mi rovescia di nuovo sulle sue spalle, rimettendomi coi piedi per terra. Poi mi avvolge le braccia, stringendomi con la schiena contro il suo petto; preme il viso contro il mio e mi dà un bacio giocoso sulla guancia. Prima che io possa reagire, mi assesta un calcio dietro le ginocchia, mandandomi col sedere per terra. M’impedisce di sostenermi con le braccia e così finisco lungo disteso. Mi blocca facilmente al suolo, ed è così vicina che potrei contarle i peli delle sopracciglia. Sento le farfalle nello stomaco.
«Okay, penso che tu l’abbia decisamente conciato per le feste», commenta Sam. «Adesso puoi lasciarlo andare.»
Il sorriso di Sei si allarga e anch’io sorrido. Restiamo così ancora per un istante, poi lei si stacca e mi solleva dalle spalle.
«Adesso tocca a me», dice Sam.
Faccio un respiro profondo, poi scuoto le braccia, per liberarmi dal tremore. «È tutta tua.» E mi precipito verso la casa.
«John?» mi chiama Sei, proprio mentre sto entrando dalla porta sul retro.
Mi volto, cercando di smorzare la strana agitazione che s’impadronisce di me quando incontro i suoi occhi. «Sì?»
«Siamo in questa casa da una settimana, ormai. Penso che per te sia il momento di abbandonare qualsiasi paura o zavorra sentimentale che ti porti dietro.»
Per un istante, visto quello che è appena successo, penso che stia parlando di Sarah.
«Lo scrigno», aggiunge poi.
«Sì, certo.» Entro in casa e chiudo alle mie spalle la porta scorrevole.
Vado nella mia stanza e mi metto a camminare avanti e indietro, respirando profondamente e cercando di dare un senso a ciò che è appena accaduto. Entro in bagno e mi spruzzo dell’acqua fredda sul viso; mi guardo allo specchio. Sarah mi ucciderebbe se mi sorprendesse a guardare Sei in quel modo. Dico nuovamente a me stesso che non ho nulla di cui preoccuparmi, perché gli abitanti di Lorien amano una sola persona per tutta la vita. Se Sarah è il mio unico amore, ho soltanto una cotta per Sei.
Ritorno nella mia stanza e mi sdraio supino, con le mani incrociate sulla pancia. Chiudo gli occhi e faccio respiri profondi, contando fino a cinque prima di espirare dal naso. Trenta minuti dopo apro la porta e striscio fuori nel corridoio, sentendo Sam e Sei che trafficano nel soggiorno. L’unico posto che ho trovato per nascondere lo scrigno in questa casa è sopra lo scaldabagno, che è dentro un ripostiglio. Fatico a tirarlo fuori, facendo meno rumore possibile. Poi torno in punta di piedi nella mia stanza, chiudendo silenziosamente la porta a chiave.
Sei ha ragione. È arrivato il momento, non posso più aspettare. Afferro il lucchetto. Si scalda rapidamente, poi si dimena contro il palmo della mano, assumendo una forma quasi liquida, e si apre con uno scatto. L’interno dello scrigno brilla intensamente. Non è mai stato così. Infilo una mano e prendo il barattolo del caffè che contiene le ceneri di Henri e la sua lettera, ancora nella busta sigillata. Chiudo il coperchio e richiudo a chiave lo scrigno. So che è stupido, ma in qualche modo mi sembra di tenere in vita Henri evitando di leggere la lettera che mi ha lasciato. Una volta aperto lo scrigno e letta la lettera, lui non avrà nient’altro da dirmi e da insegnarmi e non sarà nulla di più che un ricordo. Non sono ancora pronto per questo.
Apro l’armadio e nascondo il barattolo del caffè e la lettera nel mucchio dei miei vestiti. Poi prendo lo scrigno ed esco dalla stanza, fermandomi nel corridoio ad ascoltare Sam e Sei. Stanno guardando su Internet un programma in streaming che s’intitola Antichi alieni. Sam chiede informazioni a Sei su tutte le teorie che conosce in merito agli alieni, e lei conferma o nega rapidamente, sulla base di ciò che Katarina le ha insegnato. Lui annota freneticamente tutto quanto sul bloc-notes e poi dai suoi appunti scaturiscono altre domande, cui Sei risponde pazientemente oppure alza le spalle.
Sam assimila tutto quanto, facendo paralleli con ciò che già sa. «Le piramidi di Giza sono state costruite dai Loric?»
«In parte, ma prevalentemente dai Mogadorian.»
«E la muraglia cinese?»
«Dagli esseri umani.»
«Roswell, nel New Mexico?»
«L’ho chiesto a Katarina una volta, e lei non ne aveva idea, perciò non lo so nemmeno io.»
«Da quanto tempo i Mog vengono sul nostro pianeta?»
«Quasi quanto noi.»
«Quindi questa guerra tra i vostri popoli è una novità?»
«Quello che so è che entrambi i popoli vengono sulla Terra da migliaia di anni, a volte contemporaneamente; a quanto ho capito, in genere si comportavano in modo amichevole. Poi però è successo qualcosa che ha rovinato i rapporti, e i Mogadorian sono stati via per molto tempo. Non so molto altro e non ho idea di quando abbiano ripreso a venire sulla Terra.»
Attraverso il soggiorno e lascio cadere lo scrigno sul pavimento, al centro della stanza. Sam e Sei alzano lo sguardo. Lei sorride, suscitandomi ancora una volta una strana agitazione.
Ricambio il sorriso, ma mi sembra insincero. «Ho pensato di aprire con voi quest’affare.»
Sam comincia a sfregarsi le mani, con una luce folle negli occhi.
«Accidenti, Sam, sembra che tu stia per ammazzare qualcuno», dico.
«E dai! È quasi un mese che mi tieni sulle spine con questo scrigno. Sono stato paziente, ho tenuto la bocca chiusa per rispetto nei confronti di Henri e tutto quanto, ma quando mai mi ricapiterà di vedere tesori di un altro pianeta? Posso soltanto immaginare che cosa darebbero quelli della NASA per essere al mio posto in questo momento. Non puoi farmene una colpa se ci tengo così tanto.»
«Ti arrabbieresti se scoprissi che per tutto questo tempo è sempre stato pieno soltanto di biancheria sporca?»
«Biancheria sporca aliena?» replica, ridendo.
Sorrido, poi afferro il lucchetto; la mano s’illumina all’istante al contatto col metallo. Il lucchetto si scalda ancora una volta, tremando e agitandosi nella mia presa, come a protestare contro gli antichi poteri che l’hanno tenuto chiuso. Quando si apre con uno scatto, lo tolgo, lo metto da parte e poso la mano in cima allo scrigno. Sei e Sam si chinano in avanti.
Sollevo il coperchio. Ancora una volta, lo scrigno risplende di una luce abbagliante, che mi fa male agli occhi. La prima cosa che faccio è prendere la borsa di velluto con le sette sfere che rappresentano il sistema solare di Lorien. Penso a Henri e a come abbiamo guardato la luce pulsante nel cuore di Lorien, segno che il pianeta è ancora vivo, anche se in ibernazione. Passo la borsa a Sam. Tutti e tre sbirciamo dentro lo scrigno. Qualcos’altro si è illuminato.
«Cos’è che splende in quel modo?» chiede Sei.
«Non ne ho idea. Non è mai stato così.» Infila la mano nello scrigno e ne estrae un minerale. È un cristallo perfettamente sferico, non più grande di una pallina da ping-pong, e al suo tocco la luce aumenta d’intensità. Poi si affievolisce e comincia a pulsare lentamente. Guardiamo il cristallo, ipnotizzati da quella luce. Poi, all’improvviso, Sei lo lascia cadere per terra. Il cristallo smette di pulsare e ricomincia a splendere costantemente. Sam si china per raccoglierlo.
«Non farlo!» esclama Sei.
Lui alza lo sguardo, confuso.
«Aveva qualcosa di strano.»
«In che senso?» chiedo.
«Sentivo come delle punture di spillo sul palmo della mano. Quando l’ho preso, ho avuto una brutta sensazione.»
«Queste cose fanno parte della mia Eredità. Forse sono l’unico cui è consentito toccarle.» Mi chino e raccolgo con cautela il cristallo splendente. Nel giro di pochi secondi ho l’impressione di tenere in mano un cactus radioattivo; mi si comprime lo stomaco e sento un sapore acido in gola. Getto subito il cristallo su una coperta. Deglutisco. «Forse sto facendo qualcosa di sbagliato.»
«Forse non sappiamo come usarlo. Cioè, hai detto che Henri t’impediva di guardare dentro lo scrigno perché non eri pronto. E se non fossi ancora pronto?»
«Be’, sarebbe davvero uno schifo.»
«Che rottura!» commenta Sam.
Sei va in cucina e ritorna con due asciugamani e un sacchetto di plastica. Con cautela prende il cristallo splendente con un asciugamano e poi lascia cadere entrambi nel sacchetto di plastica, avvolgendo quest’ultimo nel secondo asciugamano.
«Pensi davvero che sia necessario?» chiedo, mentre continua a gorgogliarmi lo stomaco.
Lei alza le spalle. «Non so come sia stato per te, ma la sensazione che ho provato quando l’ho toccato io era davvero brutta. Non ci si protegge mai abbastanza.»
Gli oggetti rimasti nello scrigno costituiscono la mia intera Eredità e non so esattamente da dove cominciare. Infilo una mano all’interno e prendo un oggetto che ho già visto prima, il cristallo oblungo che Henri ha usato per diffondere il Lumen dalle mie mani al resto del mio corpo. Prende vita e immerge il soggiorno nella sua luce intensa. Al centro del cristallo si mette in moto un vortice che sembra fatto di fumo, si contorce e gira su se stesso, come l’ho visto fare altre volte.
«Adesso sì che cominciamo a ragionare», osserva Sam.
«Tieni», dico, consegnandoglielo. Il cristallo diventa inerte quando passa di mano. «Io l’ho già visto.»
Nello scrigno ci sono anche alcuni cristalli più piccoli, un diamante nero, una collezione di foglie delicate legate con lo spago e un talismano a forma di stella, della stessa tonalità di azzurro del ciondolo che porto al collo: è loralite, una pietra rarissima, che si trova soltanto nel nucleo di Lorien. C’è anche un braccialetto ovale di colore rosso brillante e una pietra di color ambra, a forma di goccia.
«Cos’è quella?» chiede Sam, indicando una pietra piatta e circolare, dello stesso colore bianco latteo della perla incastrata nell’angolo.
«Non lo so.»
«E quello?» chiede ancora, stavolta indicando un piccolo pugnale che sembra avere una lama fatta di diamanti.
Lo estraggo dallo scrigno. Il manico si adatta perfettamente alla mia mano, come se fosse fatto apposta, e immagino che sia proprio così. La lama è lunga al massimo dieci centimetri e, a giudicare dal modo in cui la luce brilla lungo il bordo, è più affilata di qualsiasi rasoio che si possa trovare sulla Terra.
«E quell’affare?» chiede di nuovo Sam, indicando qualcos’altro.
Sono sicuro che mi ripeterà quella stessa domanda finché non avrà chiesto informazioni su tutti gli oggetti all’interno dello scrigno. «Guarda qua», dico, riponendo il pugnale e tirando fuori le sette sfere, nel tentativo di tenerlo occupato. Ci soffio sopra, e sulla loro superficie cominciano a guizzare piccole luci. Poi le lancio in aria e prendono subito vita, girando in orbita intorno al sole centrale, che è grande quanto un’arancia. «È il sistema solare di Lorien», spiego. «Sei pianeti e un sole.» Indico la quarta sfera, che è ancora di varie sfumature di grigio cenere, come l’ultima volta che l’ho vista. «Lorien, com’è oggi. La luce al centro è tutto ciò che resta.»
«Accidenti! Quelli della NASA se la farebbero sotto se vedessero questa roba.»
«E guarda qui.» Illumino la mano destra e passo la luce sulla sfera che rappresenta Lorien. D’un tratto la superficie passa dal grigio alle vivaci sfumature di blu e di verde delle foreste e degli oceani. «Questo è il pianeta com’era il giorno prima dell’attacco.»
«Accidenti!» esclama di nuovo Sam, fissando a bocca aperta la sfera, in preda alla meraviglia.
Io riprendo a guardare dentro lo scrigno. «Sai che cosa sono questi? O a che cosa servono?» chiedo a Sei.
Lei non risponde. È sbalordita quanto Sam dal sistema solare che ruota sospeso in aria, a sessanta centimetri dal pavimento.
Siccome Henri mi aveva detto che quelle sfere non facevano parte della mia Eredità, cioè non erano chiuse a chiave nello scrigno, presumevo che lei le avesse già viste. «Sai che cos’è questa roba?» ripeto.
Sei ritorna alla realtà e si volta verso di me.
Mi ritrovo a distogliere gli occhi quando i nostri sguardi s’incrociano.
«Non esattamente», mormora, accarezzando la superficie delle pietre con le mani. «Questa è la pietra curativa che io e Henri abbiamo usato alla scuola», dice, indicando una pietra nera e piatta che ho già visto. Poi si blocca e le sfugge un lieve sospiro. Solleva una pietra di color giallo chiaro, dalla superficie cerea e liscia, e la guarda alla luce. «Oh, mio Dio», mormora, piena di meraviglia, rovesciando la pietra.
«Cos’è?»
«Xitharis. Proviene dalla nostra prima luna.» Chiude gli occhi e accosta alla fronte la piccola pietra, che da giallina diventa leggermente più scura. Sei apre gli occhi e mi passa la pietra.
La prendo, sfiorando il palmo della sua mano.
«Che diavolo...?» Sam sembra terrorizzato e mi cerca a tentoni, come se fosse cieco.
«Che succede?» domando, allontanando con uno schiaffo le mani di Sam dal mio viso.
«Sei invisibile», dice Sei.
Guardo giù e constato che è vero: sono svanito completamente. Lascio cadere la Xitharis sul pavimento, come se fosse una patata bollente, e subito ritorno visibile.
«La Xitharis consente a un Garde di trasferire un’Eredità a un altro, ma soltanto per un breve periodo», spiega Sei. «Un’ora, penso, o forse due. Non ne sono sicura. Basta soltanto caricarla, concentrando la propria energia sulla pietra. Te la posi sulla testa e via, è pronta.»
«Si carica come una batteria?» chiede Sam.
«Sì, e non comincia a usare l’Eredità finché non viene toccata nuovamente.»
«Bene. Così non sarai l’unica ad andare in città», dico, sorridendo.
«E tu non sarai l’unico a essere resistente al fuoco.»
«Se mi tratti bene, è possibile.»
Sam raccoglie la pietra e irrigidisce tutto il corpo, concentrandosi profondamente. Non succede nulla. «E dai, prometto di usarlo per fare del bene», dice, rivolgendosi alla pietra. «Niente spogliatoi delle ragazze, lo giuro.»
«Mi dispiace, Sam. Sono abbastanza sicura che questa roba funzioni soltanto su di noi», spiega Sei.
Lui mette giù la Xitharis e continuiamo a rovistare nello scrigno, per vedere se qualcos’altro si attiva al contatto.
Passiamo un’ora a studiare e toccare i diciassette oggetti, ma, dopo avere soffiato aria calda su di loro e averli tenuti stretti, non si attiva nient’altro. La pietra curativa, però, guarisce i tagli e i lividi che Sei mi ha lasciato addosso.
«È quasi una vita che aspetto di aprire questo coso, e adesso quasi tutto quello che contiene mi sembra inutile», osservo, scuotendo il capo.
«Sono sicura che l’utilità di tutte queste cose si rivelerà col tempo», mi rassicura Sei. «Con cose di questo tipo bisogna dormirci su. Di solito, la risposta arriva quando smetti di pensarci.»
Annuisco, guardando di nuovo tutto ciò che è intorno allo scrigno. Sei ha ragione: cercare di forzare una risposta garantisce soltanto di non averla. «Sì, forse alcune di queste cose si attivano soltanto con altre Eredità. Chi lo sa», dico, alzando le spalle. Rimetto tutto dentro lo scrigno e sento la necessità di tenere coperto con l’asciugamano il cristallo splendente. Lascio fuori il sistema solare, che continua a ruotare. Poi chiudo a chiave lo scrigno e lo porto via nel corridoio, sentendo la voce di Sei alle mie spalle.
«Non ti scoraggiare, John. Come diceva Henri, probabilmente non sei ancora pronto per vedere tutto quanto.»