Mentre viaggiamo, provo ancora diverse volte a recuperare il segnale con le sfere, ma, ogni volta che faccio ripartire il sistema solare, le sfere orbitano normalmente. È quasi mezzanotte e sto per rovistare tra le pietre e gli altri oggetti nel mio scrigno, ma poi scorgo in lontananza le luci sparse di un centro abitato. Alla mia destra vedo passare un cartello, lo stesso che avevo visto qualche mese fa, quando Henri era al volante:
BENVENUTI A PARADISE, OHIO
5.243 ABITANTI
«Bentornato a casa», sussurra Sam.
Premo la fronte contro il finestrino e riconosco un granaio fatiscente, un vecchio cartello che dice MELE, un camioncino verde ancora in vendita. Una sensazione piacevole mi si diffonde in tutto il corpo. Di tutti i luoghi in cui ho vissuto, Paradise è il mio preferito. È qui che ho conosciuto il mio migliore amico, è qui che ho scoperto la mia prima Eredità ed è qui che mi sono innamorato. Paradise, però, è anche il luogo in cui ho incontrato i miei primi Mogadorian, il luogo in cui ho combattuto la mia prima vera battaglia e ho provato vera sofferenza. Ed è il luogo in cui Henri è morto.
Bernie Kosar si siede accanto a me e si mette a scodinzolare a una velocità incredibile. Infila il naso nella piccola fessura del finestrino e annusa freneticamente gli odori familiari dell’aria. Mentre imbocchiamo la prima traversa sulla sinistra e facciamo diverse altre svolte, ritornando indietro, per assicurarci di non essere seguiti, e poi troviamo il posto migliore e meno appariscente per parcheggiare il SUV, riepiloghiamo ancora una volta il nostro piano.
«Quando avremo preso la trasmittente, torneremo direttamente alla macchina e lasceremo subito Paradise», dice Sei. «Giusto?»
Annuisco. «Giusto.»
«Non prenderemo contatti con nessuno. Ce ne andremo e basta.»
So che si riferisce a Sarah e mi mordo il labbro. Finalmente, dopo tutte queste settimane in fuga, sono di nuovo a Paradise, e mi viene detto che non posso vedere Sarah.
«Capito, John? Ripartiremo subito, va bene?»
«Basta adesso. So dove vuoi arrivare.»
«Scusa.»
Sam parcheggia il SUV in una strada buia, sotto un acero, a tre chilometri da casa sua. Non appena le mie scarpe toccano l’asfalto e i miei polmoni inalano l’aria di Paradise, vorrei immediatamente che tutto ritornasse come prima, a Halloween, a quando tornavo a casa e trovavo Henri, a quando stavo seduto sul divano accanto a Sarah.
Non voglio rischiare di perdere il mio scrigno lasciandolo in un’auto incustodita, quindi Sei lo prende dal bagagliaio e se lo carica in spalla. Quando si è messa comoda, si rende invisibile.
«Aspetta», le dico. «Prima voglio prendere una cosa.»
Sei ricompare.
Apro lo scrigno e recupero il pugnale, infilandomelo nella tasca posteriore dei jeans. «Okay. Bernie Kosar, sei pronto, amico mio?»
Si trasforma in allocco e vola su un ramo basso dell’acero.
«Diamoci una mossa», dice Sei, scomparendo di nuovo.
Quindi ci mettiamo a correre. Con Sam che mi segue a passo sostenuto, salto una recinzione e prendo velocità ai margini del campo più vicino. Dopo circa ottocento metri, faccio una deviazione nel bosco; mi piace sentire i rami che mi si spezzano sul petto e sulle braccia, l’erba alta che mi sferza i jeans. Ogni tanto mi giro, e vedo Sam saltare tronchi caduti, chinarsi sotto i rami, mai a più di quaranta metri di distanza. Sento un rumore accanto a me, ma prima che io possa prendere il pugnale, Sei mi sussurra che è lei. Vedo aprirsi un varco nell’erba e lo seguo. Per fortuna Sam vive alla periferia di Paradise, dove ogni casa è separata dalle altre da qualche ettaro di terra. Mi fermo appena dentro i margini del bosco, quando la sua casa è finalmente visibile: è piccola e modesta, con un rivestimento di pannelli di alluminio bianco e tegole bituminose nere, un sottile comignolo e uno steccato di legno che fa da recinzione al giardino.
Sei si materializza e posa a terra il mio scrigno. «È quella?»
«Sì, è quella.»
Trenta secondi dopo, Bernie Kosar mi atterra sulla spalla. Passano quattro minuti, poi Sam esce faticosamente da una fila di cespugli e si ferma accanto a noi, senza fiato, con le mani piantate sulle cosce. Alza lo sguardo verso casa.
«Come ti senti?» gli chiedo.
«Come un ricercato, come un figlio degenere.»
«Pensa a quanto sarà orgoglioso tuo padre se ce la facciamo.»
Sei diventa nuovamente invisibile per andare in avanscoperta, controllando le ombre delle case vicine, i sedili posteriori di tutte le auto parcheggiate per strada. Poi torna e dice che sembra tutto a posto, ma ci sono delle luci azionate da sensori sulla parte destra della casa.
Bernie Kosar prende il volo, atterrando sul punto più alto del tetto. Sei prende per mano Sam, e diventano entrambi invisibili. Io prendo lo scrigno sottobraccio e li seguo in silenzio fino alla recinzione sul retro. Loro ricompaiono e Sei è la prima a scavalcare, seguita da Sam. Lancio lo scrigno dall’altra parte e scavalco subito dopo. Ci nascondiamo dietro un arbusto incolto e da lì esamino il giardino: gli alberi, l’erba alta, il grosso ceppo di un albero tagliato, un’altalena arrugginita e una vecchia carriola al suo fianco. Sul lato sinistro della casa c’è una porta e sulla destra ci sono due finestre.
«Eccola», sussurra Sam, indicando un punto nel giardino.
Quello che inizialmente avevo scambiato per il ceppo di un albero si rivela, a uno sguardo più attento, un ampio cilindro di pietra. Stringendo le palpebre, vedo un oggetto triangolare che spunta dalla cima.
«Torniamo subito», sussurra Sei a Sam.
La prendo per mano, divento invisibile e dico: «Okay, Eagle Goode. Fai la guardia a quello scrigno come se ne andasse della mia vita, perché è proprio così».
Io e Sei camminiamo con prudenza nell’erba alta verso il pozzo e, una volta raggiuntolo, c’inginocchiamo. Lungo la circonferenza della meridiana ci sono dei numeri, da uno a dodici sulla sinistra e poi ancora da uno a dodici sulla destra e uno zero in cima. I numeri sono circondati da una serie di linee. Quando sto per prendere il triangolo centrale per girarlo a caso, sento Sei emettere un gemito di sorpresa.
«Che c’è?» sussurro, alzando gli occhi verso le finestre buie sul retro della casa.
«Guarda nel mezzo: i simboli.»
Studio di nuovo la meridiana e mi si spezza il fiato in gola. Sono sbiaditi e possono facilmente sfuggire allo sguardo, ma al centro del cerchio ci sono nove simboli loric incisi sulla superficie. Riconosco i numeri da uno a tre, perché corrispondono alle cicatrici che ho sulla caviglia, ma gli altri mi risultano nuovi. «Quand’è nato Sam?»
«Il 4 gennaio 1995, 1-4-1-9-9-5.»
Il triangolo emette un clic come una serratura, quando lo giro verso il simbolo loric che indica il numero uno. Poi lo giro a sinistra, deglutendo mentre lo punto verso quello che deve essere il numero quattro. Il mio numero. Poi lo faccio ruotare di nuovo verso l’uno, il nove, poi di nuovo il nove dopo un giro completo e infine il cinque. Per qualche secondo non succede nulla, poi la meridiana comincia a sibilare e a emettere del fumo. Io e Sei facciamo un passo indietro e guardiamo il coperchio di pietra del pozzo rovesciarsi e aprirsi con un sonoro crac, che riecheggia nel giardino. Quando il fumo si dissipa, vedo una scala a pioli all’interno.
Sam esulta, saltando su e giù accanto alla recinzione, con una mano sulla bocca e l’altra sollevata e chiusa a pugno.
All’improvviso una delle finestre buie della casa s’illumina. Bernie Kosar emette due lunghi richiami dal tetto. Prima ancora che io possa pensare, Sei mi dà uno strattone in avanti e ben presto sono visibile e sto scendendo dalla scala a pioli all’interno del pozzo. Sei mi segue, richiudendo quasi completamente il coperchio sopra di sé.
Illumino i palmi delle mani e vedo che siamo a sei metri da un pavimento di cemento. «E Sam?» sussurro.
«Andrà tutto bene, c’è Bernie Kosar lassù.»
Raggiungiamo il pavimento e ci ritroviamo in un breve corridoio che curva a sinistra. L’aria è stantia. Faccio luce qua e là con le mani mentre percorriamo la curva e, quando il corridoio si raddrizza di nuovo, vediamo che c’è una stanza in fondo, con una scrivania in disordine e centinaia di fogli appesi alla parete. Sto per correre fino a lì, ma in quel momento le mie luci illuminano un lungo oggetto bianco sulla soglia.
«Mi sembra...»
Mi fermo di colpo. È un enorme osso. Sei mi spinge e io estraggo il pugnale dalla tasca posteriore dei pantaloni. «Prima le signore?» provo a suggerire.
«Non in questo caso.»
Prendo la rincorsa e salto l’osso, illuminando subito la stanza con le mani. Mi sfugge un urlo quando vedo lo scheletro seduto contro la parete. Sei balza nella stanza e quando lo vede incespica all’indietro, andando a sbattere contro la scrivania.
Lo scheletro è alto circa due metri e mezzo, con mani e piedi giganteschi. Folti capelli biondi scendono dalla cima del cranio fin sotto le ampie scapole; al collo è appeso un ciondolo azzurro simile al mio.
«Quello non è il padre di Sam.»
«Sicuramente no.»
«E allora chi è?»
Mi avvicino ed esamino il ciondolo. La pietra di loralite azzurra è leggermente più grande della mia, ma per il resto è identico. Continuo a fissarlo, e sento un legame travolgente con quella persona, chiunque fosse. «Non lo so per certo, ma penso che fosse un amico.» Gli tolgo il ciondolo e lo passo a Sei, che se lo mette al collo.
Andiamo alla scrivania. Uno spesso strato di polvere ricopre montagne di carte e strumenti di scrittura. Sui fogli appesi alla parete sopra la scrivania ci sono scritte in tutte le lingue, tranne che l’inglese. Riconosco qualche numero loric e nient’altro. Un tablet elettronico bianco è posato su una sgangherata sedia di legno. Lo raccolgo e tocco lo schermo nero, ma non succede nulla.
Sei apre il primo cassetto in alto e trova altre carte. Mentre afferra la maniglia del secondo cassetto, un’esplosione in superficie ci fa cadere a terra. Nel soffitto della stanza si apre una lunga crepa e poi il cemento comincia a cedere, cadendo a pezzi intorno a noi.
«Corri!» grido.
Sei strappa una dozzina di fogli dalla parete, io infilo il tablet nella cintola dei pantaloni, dietro la schiena. Ci arrampichiamo sulla scala e guardiamo fuori della fessura tra il pozzo e la meridiana. Ci sono dozzine di Mogadorian e tizzoni ardenti. Bernie Kosar si è trasformato in una tigre con le corna ritorte di un ariete e stringe tra le zanne il braccio di un Mog. Sam non è più accanto alla recinzione e il mio scrigno nemmeno.
Sto per saltare fuori dal pozzo, quando Sei si lancia in un tornado di nuvole, superandomi. Il coperchio con la meridiana si rovescia e lei prorompe in mezzo a un capannello di cinque Mog, scaraventandoli qua e là per il giardino. Esco dal pozzo e lo richiudo, mentre lei raccoglie una delle spade scintillanti dei Mog, diventando invisibile.
Usando la telecinesi, scaravento contro il muro della casa tre Mog: si disintegrano in fitte nuvole di cenere. Quando mi volto vedo un uomo a torso nudo, paralizzato sulla porta posteriore della casa, con in mano un fucile a canne mozze. Dietro di lui c’è la madre di Sam, terrorizzata, in camicia da notte.
Sei si materializza accanto a due Mog che stanno correndo verso di me reggendo enormi fucili, e con un fendente trapassa il collo di entrambi. Poi usa la telecinesi per scagliare la carriola contro un terzo, riducendolo a un cumulo di cenere. Io scaravento due Mog contro un loro compagno e Sei li impala tutti e tre in un solo rapido movimento. Bernie Kosar balza in mezzo al giardino e affonda le zanne in alcuni Mog che stanno cercando di rialzarsi.
«Dov’è Sam?» urlo.
«Sono qui!»
Mi volto e lo vedo disteso sotto un cespuglio carbonizzato, col sangue che gli cola dalla testa.
«Sam!» grida la madre.
Lui si mette faticosamente in ginocchio. «Mamma!»
La donna grida ancora, ma intanto un Mog solleva Sam per la camicia. Mi concentro e sradico l’altalena arrugginita, ma prima che uno dei suoi pali di metallo possa perforare il petto del Mog, questi scaraventa Sam oltre la recinzione.
Con un’intensità che non ho mai visto prima in lei, Sei fa a pezzi i Mog rimanenti. È coperta di cenere quando scavalca la recinzione in cerca di Sam. Balzo in groppa a Bernie Kosar e la seguiamo.
Sam è sdraiato sulla schiena, nel giardino dei vicini, sotto le luci dei riflettori azionati dai sensori.
«Sam? Stai bene? Dov’è il mio scrigno?»
Apre gli occhi a metà. «L’hanno preso. Mi dispiace, John.»
«Eccoli!» esclama Sei, indicando diversi Mog che attraversano di corsa un campo, diretti al bosco.
Metto Sam in groppa a Bernie Kosar, ma lui scende. «Sto bene, te lo giuro.»
Dall’altra parte della recinzione, la madre di Sam grida il suo nome.
«Tornerò, mamma! Ti voglio bene!» grida e poi parte per primo all’inseguimento dei Mog. Io e Sei lo raggiungiamo facilmente, ma poi lei devia verso destra, per trafiggere un nemico che si stava avvicinando. Altri quattro sono trenta metri più avanti e, col grosso ciondolo che le rimbalza sul petto, lei va all’attacco, seguita da Bernie Kosar.
Io e Sam entriamo nel campo fangoso e due Mog ci sbarrano la strada. Ne vedo altri due dietro di me, che si separano e avanzano verso di noi da angolazioni strategiche. Gli altri sono entrati nel bosco in due zone separate: non so chi di loro abbia lo scrigno.
Estraggo il pugnale dalla tasca posteriore; il manico mi avvolge la mano. Avanzo di corsa, e i due Mog davanti a me corrono a loro volta, solcando il campo vuoto. Quando sono a meno di cinque metri da loro, spicco un balzo, col pugnale sollevato sopra la testa. Mentre comincio a cadere, un enorme albero sfreccia sotto di me investendo entrambi i nemici e uccidendoli. È stata Sei. Atterro, mi giro e la vedo correre verso Sam e i due Mog che lo stanno accerchiando. Quello a sinistra ghermisce Sam alla vita; Sei lo afferra e lo scaraventa lontano, ma lui si rialza immediatamente e riparte alla carica.
Raggiungo furtivamente l’altro Mog, alle spalle, e gli pianto il pugnale nel collo, facendo scorrere la lama verso il basso ed estraendola all’altezza della scapola. Cade, disintegrandosi in un cumulo di cenere che mi ricopre le scarpe. Bernie Kosar balza sull’altro Mog e ben presto ha la lingua ricoperta di uno spesso strato di cenere.
«Dobbiamo tornare alla macchina e andarcene da qui», dice Sei. «Sicuramente ce ne sono altri in arrivo. Ci stavano aspettando.»
«Prima dobbiamo recuperare lo scrigno.»
«Allora dovremo dividerci.» Con la spada ricoperta di fuliggine, Sei indica le due zone del bosco in cui i Mog sono scomparsi. «Bernie Kosar, tu vieni con me.» Lui si trasforma in un falco, e si allontanano verso sinistra.
Io e Sam entriamo nel bosco dall’altra parte. Ben presto sentiamo un suono di rami spezzati e corriamo in quella direzione. Vado avanti a tutta velocità e scavalco una serie di tronchi abbattuti. Quattro Mog stanno cercando di fuggire attraverso una piccola radura; la luce della luna non mi consente di vedere se qualcuno di loro ha con sé lo scrigno.
Scivolo giù dalla collina su un fianco, sradicando giovani alberelli e creando una piccola frana; sento Sam scivolare fragorosamente dietro di me. I Mog sono a metà della piccola radura. È fitta di erba alta quasi due metri, e l’attraverso a tutta velocità. Sam mi chiede gridando in quale direzione io stia andando, ma continuo a correre e punto il palmo della mano verso l’alto, emanando un fascio di luce verso il cielo, come un faro.
«Okay, ho capito!» grida lui.
Finalmente, appena prima che la radura ceda di nuovo il passo alla foresta, sto per raggiungere uno dei nemici. Mi tuffo in avanti, puntando alle gambe. Il pugnale lacera i pantaloni infangati e gli recide il tendine di Achille, mandandolo gambe all’aria con un urlo di dolore. Gli salgo sopra, mentre lui si dibatte, e lo accoltello al petto, uccidendolo.
Sam inciampa nelle mie gambe e cade a faccia in giù. «L’hai trovato?»
«No. Andiamo!»
Usando una mano come una torcia e l’altra come un machete, corro con facilità attraverso il bosco, senza curarmi di controllare se Sam mi stia dietro. Dopo neppure un minuto vedo un altro Mog scavalcare a fatica un tronco caduto. Da venticinque metri di distanza, sollevo il tronco da terra e lo ribalto, facendo cadere il Mog a testa in giù. Mi lancio tra le erbacce e lo trovo disteso a pancia a terra: non ha lo scrigno. Lo uccido con due pugnalate.
«John?» grida Sam al buio. «Ehi, amico?»
Ancora una volta punto la luce del mio palmo in cielo e, quando Sam arriva, sto scrutando tra gli alberi.
«Dimmi che l’hai ritrovato.»
«Non ancora», rispondo. «Spero solo che Sei abbia avuto più fortuna.» Allungo una mano dietro la schiena e tiro fuori il tablet bianco per mostrarlo a Sam. «Comunque ho questo.»
Me lo toglie di mano. «Era nel pozzo?»
«Non è l’unica cosa che abbiamo trovato. C’era anche...» D’un tratto mi rendo conto di dove siamo. Mi fermo. Smetto anche di respirare.
Sam mi mette una mano sulla spalla. «Ehi, che succede? Senti qualcosa? Forse qualcuno ha appena aperto il tuo scrigno?»
Per quanto ne so, il mio scrigno non è stato aperto. La sensazione che cova dentro di me è di tutt’altro tipo. «Siamo vicini alla casa di Sarah.»