2.

Da allora erano passati quasi tre giorni e di una cosa ero sicura: la morte non fa differenza. Non ha nessuna importanza chi tu sia, che cosa tu faccia o quali siano i tuoi programmi per la vita: a un certo punto finisci sulla sua lista, che tu sia preparata o meno. E allora conta solo di aver vissuto la vita come volevi. Di aver fatto ciò che volevi. Di essere stata la persona che volevi.

Avevo sedici anni e di sicuro non ero ancora pronta a morire. La mia vita era appena cominciata. Avevo progetti per il futuro, avevo ancora tutto davanti a me. E avevo tutto il tempo del mondo per farlo.

Così avevo pensato.

Ma la realtà era diversa. Adesso ero nel letto bianco della terapia intensiva e sapevo che nella vita niente era sicuro.

Da qualche parte alle mie spalle sentivo il battito del mio cuore riprodotto con un lieve bip dell’elettrocardiografo. Il battito del mio cuore, che non mi sembrava più scontato, e che non avrei mai più dato per scontato.

Non dopo essere stata morta per ventuno minuti.

Era quello il tempo passato prima dell’arrivo dell’ambulanza che mi aveva riportato indietro. Il medico si era scusato: poco prima della mia morte c’era stato un grave incidente in autostrada e i mezzi di soccorso erano stati allertati in gran numero. C’era voluto un po’ di tempo prima che arrivassero alla discoteca dove mi trovavo, sdraiata senza vita accanto alla pista da ballo.

Per tutto quel tempo qualcuno che io ricordavo solo per la voce da mostro aveva cercato di rianimarmi. Nel farlo mi aveva fratturato due costole ma non si era fermato.

Il medico aveva detto che era stata la mia fortuna che quel ragazzo fosse lì in discoteca. Senza di lui non avrei resistito fino all’arrivo dei soccorsi.

Sarei rimasta di là, dall’altra parte, in un luogo oscuro che a ricordarlo ora mi sembrava un brutto sogno.

Ventuno minuti per me avevano fatto la differenza tra la vita e la morte.

Non è un intervallo di tempo così lungo. A volte lo scuolabus impiegava di più nel traffico della mattina. Una puntata della mia serie preferita durava il doppio, eppure mi sembrava sempre troppo breve. E il mio allenamento di nuoto era lungo quasi tre volte tanto.

Ma dopo aver sperimentato ciò che avevo vissuto io, dopo essere stata là dove ero stata io, quell’intervallo di tempo assumeva all’improvviso un significato del tutto diverso. Adesso il numero ventuno era la mia nuova definizione di eternità.

«Nikka? Tutto a posto?»

Il poliziotto mi guardò preoccupato. Si era presentato come commissario capo Stark ed era già piuttosto anziano, sulla cinquantina forse. Aveva capelli rossi tagliati corti e una faccia seria. Mi piacevano i suoi occhi grigi, erano amichevoli e comprensivi.

«Più o meno» gracchiai, poi fui costretta a schiarirmi la voce. «A parte questi dolori alla gola.»

Erano dovuti alla cannula che mi avevano inserito dopo la rianimazione, perché inizialmente non riuscivo a respirare da sola. Da allora avevo la sensazione di aver ingoiato un pezzo di carbone ardente. Il medico aveva detto che sarebbe passato, come pure i dolori al torace.

«Non ricordo praticamente niente» dissi dopo aver bevuta un sorso d’acqua. «Secondo il dottor Mehra è colpa della droga. Una sensazione di merda.»

Il commissario annuì. «Comprendo che per lei non sia facile, ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Dobbiamo scoprire che cosa è successo nel locale. Solo così potremo ritrovare la sua amica.»

«Credo di sapere chi è stato» dissi. «Zoe e io abbiamo visto qualcuno.»

Il commissario si sporse in avanti sulla sedia con espressione trepidante. «Chi? Mi racconti tutto ciò che ricorda. Ogni dettaglio può essere importante.»

Bevvi un altro sorso d’acqua, poi gli raccontai della serata. Intanto non smettevo di pensare a Zoe, che nel frattempo era sparita senza lasciare tracce. La mia migliore amica, che forse, al contrario di me, non ce l’aveva fatta.