6.

Il commissario mi ascoltò con attenzione prendendo appunti su un bloc-notes rivestito di pelle marrone. Non mi fece domande e mi lasciò il tempo che mi serviva, quasi si rendesse conto di quanta fatica mi costasse rivivere tutta l’esperienza.

Terminai spiegando come mi fossi risvegliata in ospedale. Con me c’erano Ella e una infermiera. Ella piangeva. Aveva vegliato per tutto il tempo al mio capezzale ed era esausta.

L’infermiera era poi andata a chiamare il dottor Mehra. Conoscevo già il simpatico dottore dal nome indiano. Aveva assistito il nonno qualche anno prima, quando era stato ricoverato in terapia intensiva ormai moribondo. Forse l’avevano messo in questa stessa camera, non me lo ricordavo tanto bene.

Il dottor Mehra mi aveva sottoposto a qualche test, mi aveva chiesto il nome e un sacco di altre cose, per vedere se avevo subito danni cerebrali.

Gli avevo risposto di chiamarmi Nikka e che il mio nome si scriveva con due K. Come Nikka Costa, la cantante preferita della mamma, o almeno era ciò che mi aveva raccontato Ella. Avevo risposto senza problemi anche a tutte le altre domande.

Solo quando aveva voluto sapere che cosa ricordassi, ero rimasta in silenzio. Sapevo solo di essermi sentita male in discoteca, ma non sapevo perché.

Il dottor Mehra mi aveva spiegato che dipendeva dalla droga con la quale ero stata avvelenata. GBL, Gamma-butirrolattone, avevo memorizzato il nome.

Mi aveva spiegato che in realtà si trattava di un detergente, ma purtroppo veniva spesso utilizzato anche come droga da stupro. Era estremamente tossico, portava a perdita della memoria, asfissia e black-out completo.

A volte era addirittura mortale, come nel mio caso. La sostanza mi aveva provocato un collasso cardiocircolatorio. Il cuore aveva smesso di battere. Si era fermato. Per ventuno minuti.

Mentre ne parlavo al commissario, tuttavia, mi resi conto che quelle gocce mi avevano causato ben altro. Avevano completamente stravolto la mia vita, mi avevano quasi ammazzato e poi fatto piombare in un incubo dal quale non mi era possibile risvegliarmi. Perché l’incubo era diventato la realtà, era la mia vita.

Chiunque mi avesse fatto questo, non solo mi aveva rubato ogni senso di sicurezza, ma mi aveva anche portato via la mia migliore amica. Aveva rapito Zoe. Di questo ero convinta.

«Non riesco a credere che non ci siano tracce di lei» dissi. «Qualcuno deve pur averla vista.»

Il commissario alzò gli occhi dagli appunti. «Secondo una testimone, la sua amica è andata alla toilette. È stato poco prima che lei si sentisse male. Subito dopo nel locale è scoppiato il caos e nessuno ricorda di aver visto la signorina Wagner.»

«Zoe sarebbe subito venuta da me se avesse saputo quello che mi era successo» dissi con gli occhi pieni di lacrime.

Lui annuì. «È ciò che penso anch’io. Per questo partiamo dal presupposto che sia successo qualcosa alla toilette.»

«C’è un’uscita posteriore lì dentro?»

«Sì, un’uscita di emergenza. Ma se fosse stata aperta, sarebbe suonato l’allarme.»

Scossi la testa. «È pazzesco! Zoe non può essersi dissolta nell’aria.»

«Sicuramente no. È probabile che qualcuno abbia approfittato della confusione per portarla fuori dal locale senza essere notato. Stiamo ancora esaminando le registrazioni delle videocamere di sorveglianza, ma...» Il commissario ebbe un attimo di esitazione, poi aggiunse sottovoce: «Non voglio illuderla, Nikka. Non abbiamo nessun punto di riferimento per capire che cosa sia accaduto alla sua amica o dove possa trovarsi».

Avevo la sensazione che qualcosa mi si fosse bloccato in gola e fui costretta a deglutire. «Non potete localizzare il suo cellulare o cose del genere?»

Il commissario fece un profondo respiro; il suo atteggiamento tradiva quanto fosse teso. «Ovviamente lo abbiamo fatto. Era nella sua borsa che abbiamo rinvenuto in un cassonetto a poca distanza dall’ingresso del club. C’erano anche le chiavi di casa e i soldi. Quindi non si è trattato di una rapina. Qualcuno voleva sbarazzarsi dei suoi effetti personali.» Gettò un’altra occhiata agli appunti. «Lei è sicura che la persona mascherata davanti all’ingresso del club fosse la stessa che ha visto nel giardino della famiglia Wagner?»

Mi strinsi nelle spalle e questo movimento mi provocò una fitta di dolore alle costole rotte. «Non al cento per cento, ma doveva essere lui. Voglio dire, ha senso, no? Altrimenti perché avrebbe dovuto fissarci così? Deve essere stato lui a drogarmi.»

Il commissario corrugò le labbra. «Be’ sì, sarebbe possibile. Ma potrebbe anche darsi che sia stato qualcun altro a somministrarle quelle gocce. Purtroppo ultimamente accade assai spesso.»

Sbuffai spazientita. «È quello che ha detto anche il dottor Mehra. Mi rendo conto che ci sono in giro un sacco di pazzi fuori di testa, ma provi a pensarci: qualcuno mi droga e qualcun altro rapisce la mia migliore amica, il tutto la stessa sera nello stesso momento? Sarebbe una incredibile coincidenza, non trova?»

«Capisco che può sembrarle azzardato, Nikka, ma non possiamo escludere questa eventualità. È plausibile che qualcuno abbia approfittato della confusione generale per rapire la sua amica. C’è qualcos’altro che le torna in mente? Qual è stata l’ultima cosa che le ha detto la signorina Wagner?»

Feci uno sforzo di memoria nella speranza che mi tornasse in mente un dettaglio. Qualcosa che potesse avere almeno una parvenza di realtà.

Invece la mia mente tornò di nuovo a ciò che avevo sperimentato durante i ventuno minuti nei quali ero stata morta. Quel luogo oscuro non voleva uscirmi dalla testa, sebbene mi apparisse sempre di più come un brutto sogno. Non riuscivo a dimenticare ciò che avevo visto lì. Ma non potevo certo dirlo al commissario. Mi avrebbe preso per pazza. E forse lo ero davvero.

«Nikka? Si sente bene?»

Mi guardò preoccupato e io fissai la cicatrice pallida che gli attraversava un sopracciglio. Mi concentrai su questo piccolo particolare e anche sul bip dell’elettrocardiografo e sull’odore di pioggia che si sprigionava dal giaccone di pelle che indossava il poliziotto.

In quel momento i particolari erano fondamentali per me. Comunicavano con i miei sensi e mi aiutavano a non dubitare della mia mente.

«Sto bene» mormorai. «Ma non riesco a ricordare proprio nient’altro, purtroppo.»

Lui annuì. «Mi rincresce davvero molto se l’ho messa in agitazione e non ho potuto darle notizie incoraggianti» disse alzandosi. Era così alto che fui costretta a piegare il collo per guardarlo in viso. «Adesso pensi a riposare. Le lascio il mio numero. Mi telefoni, se le tornasse in mente qualcosa.»

Sentendo questa frase, mi sembrò di essere la vittima in uno stupido film giallo. Quella invece era la realtà, anche se mi costava fatica accettarlo.

«Trovi Zoe» dissi cercando di trattenere le lacrime. «La prego!»

Lui si infilò il taccuino nella tasca del giaccone.

«Faremo del nostro meglio.»

Un’altra frase di routine, che avrebbe dovuto infondermi fiducia. E invece non funzionava, perché gli occhi grigi del commissario evitavano i miei. Nel frattempo erano passati tre giorni e sapevamo entrambi che cosa poteva significare: le possibilità di trovare Zoe ancora viva si riducevano drasticamente.

E io non posso farci niente!

Il commissario mi rivolse un cenno di saluto e uscì. Lo guardai, poi mi tirai la coperta sopra la testa e lasciai libero sfogo alle lacrime.

Chiunque fosse stato il responsabile di quanto ci era accaduto, aveva distrutto qualcosa dentro di me. In vita mia non mi ero mai sentita tanto impotente come in quel momento.

Tanto disperata.

E tanto arrabbiata.