53.

Arrivata a casa, fui accolta da un profumo irresistibile. Sembrava di essere in una pasticceria. Ella era indaffarata in cucina a preparare delle torte per il mercatino di beneficenza che si sarebbe tenuto il giorno dopo in parrocchia.

Era troppo occupata per badare a me e questo fu la mia salvezza. Quando mi guardai nello specchio del guardaroba, infatti, mi spaventai. Dopo la notte insonne e lo sfogo nel bosco, sembravo veramente un cadavere ambulante. Ci mancava solo la camicia da notte e sarei stata uguale a Samara anche senza trucco.

Mi feci una doccia veloce e mi ritirai in camera mia. Qui scaricai sul portatile le foto del cellulare. Il venditore aveva ragione, la qualità delle immagini era straordinaria. Ero riuscita a fotografare nitidamente la maggior parte dei documenti di Rolf Wagner.

In realtà esisteva un solo motivo per spiegare la incredibile somiglianza di questa ragazza con Zoe. Da qualche parte avevo letto che in media ogni persona ha sette sosia al mondo, ma la probabilità di incontrarne uno era pari a quella di infilare un sei al lotto due volte di seguito.

Questa ragazza poteva solamente essere la sorella di Zoe. Una gemella monozigote, che per qualche motivo non era stata adottata insieme a Zoe.

Nei documenti però non trovai nessun indizio di questo genere. Niente. Assolutamente niente.

Sul certificato di nascita era scritto che Zoe era nata a Braunschweig. I documenti che avevo trovato sul fondo del raccoglitore risalivano a pochi giorni dopo la nascita. Erano firmati da una certa dottoressa Anna Wegemann. Si trattava di analisi del sangue, test per l’epatite e altre cose che non capivo.

Di sicuro Sascha avrebbe saputo aiutarmi a interpretare tutti quei termini medici. Decisi che glielo avrei chiesto in seguito, ma adesso c’era un’altra cosa molto più importante. Una domanda alla quale Ella forse avrebbe potuto darmi una risposta.

Andai in cucina e la trovai intenta a decorare con la panna una torta alla frutta. Quando mi vide entrare, mi sorrise. «Ciao, tesoro. Vuoi una fetta di torta? Ho preparato anche quella al cocco che ti piace tanto. È ancora tiepida.»

Aveva già preso in mano un coltello per tagliarne una fetta, ma al momento ero troppo nervosa per pensare al cibo.

«Grazie, magari più tardi» le dissi. «Posso farti una domanda?»

«Ma certo.» Ella mise via il coltello e si pulì le mani infarinate sul grembiule. «Di che cosa si tratta?»

«In passato hai lavorato da un notaio. Hai esperienza in fatto di adozioni?»

«Un po’, sì. Perché me lo chiedi?»

«Se qualcuno volesse adottare un bambino di una coppia di gemelli, dovrebbe essere scritto nei documenti?»

Lei mi guardò meravigliata. «Certamente. Ma perché qualcuno dovrebbe voler adottare solo un gemello?»

Mi ero fatta anch’io questa domanda, ed era l’unico punto debole della mia teoria. Perché i Wagner non avevano adottato anche la sorella di Zoe? Non riuscivo a trovare la risposta. Per questo motivo non me la sentivo di confidare a Ella le vere ragioni della mia domanda.

«È un quesito puramente teorico» dissi. «Mi serve per la scuola.»

Ella si strinse nelle spalle. «Mi spiace, ma temo di non poterti aiutare. Non ho mai incontrato un caso del genere. Normalmente i gemelli o i fratelli possono essere adottati solo insieme. Sarebbe molto difficile per loro crescere in due famiglie diverse. Deve esserci un motivo veramente valido per separarli. Ma sarebbe un’eccezione quanto mai rara.»

«In ogni caso nei documenti dovrebbe essere indicato che il parto è stato gemellare?»

Ella annuì. «Senza dubbio. Se non altro perché i due fratelli conoscano uno l’esistenza dell’altro e possano mettersi in contatto. È un loro sacrosanto diritto. Ho risposto alla tua domanda?»

«Credo di sì» dissi, con la testa piena di pensieri. Avevo ottenuto una risposta, che però sollevava altre domande.

«Ricordi qualcuno che sia stato adottato tra i nostri conoscenti?» mi informai circospetta.

Ella ci pensò su un attimo. «Solo il piccolo Jean-Luc dei Bachmann. Un bambino così bravo, si è subito integrato. Se avessi mai pensato a un’adozione, avrei scelto un orfano di un paese in via di sviluppo. Ma dimmi, tesoro, sei proprio sicura di non volere una fetta di torta?»

Nemmeno Ella era al corrente dell’adozione di Zoe. Lo avevo immaginato, perché altrimenti me lo avrebbe detto già molto tempo prima. Declinai un’altra volta l’offerta della torta e tornai in camera mia.

C’era qualcosa che non andava nella faccenda, ma non potevo chiedere altre informazioni ai genitori di Zoe. Mi veniva in mente un solo modo per scoprire la verità.

Presi il cellulare e composi il numero di telefono indicato accanto al nome della dottoressa sui documenti. Un messaggio registrato mi informò che il numero non era più esistente. La cosa non mi meravigliò, erano passati quasi diciotto anni. Cercai la clinica in rete e chiamai il nuovo numero che trovai sul sito Web.

«Mi dispiace ma la dottoressa Wegemann non lavora più qui» disse la centralinista. Aveva un tono brusco e stressato e in sottofondo sentivo rumori e voci. Probabilmente aveva molto da fare.

«Mi sa dire dove lavora adesso?»

«A quanto ne so non lavora più» fu la risposta. «La dottoressa Wegemann è in pensione da diversi anni.»

«Potrebbe darmi un suo recapito?»

«No, mi dispiace, ma sono informazioni riservate. Arrivederci.» Detto questo riagganciò.

«Stupida bisbetica» mormorai, poi consultai di nuovo il motore di ricerca onnisciente. Nel giro di due minuti avevo trovato due dottoresse Anna Wegemann. La prima aveva trentadue anni, un account Facebook con foto pubbliche e lavorava in Namibia in un ospedale pediatrico. L’altra aveva solo un classico contatto con numero di telefono e abitava a Wolfenbüttel, ovvero a pochi chilometri di distanza da Braunschweig.

Alla faccia delle informazioni riservate, pensai annotando l’indirizzo.

Poi consultai la pagina delle ferrovie. Quando cercai il collegamento migliore e vidi il prezzo della tratta, sussultai. Avrei dovuto consegnare giornali per un bel po’.

Ma come diceva sempre il mio allenatore di nuoto: per raggiungere qualcosa bisogna fare sacrifici. Avrei dovuto mandare giù l’amaro boccone.

Il mio piano era alquanto semplice: una telefonata si poteva interrompere in qualsiasi momento, come aveva fatto quella bisbetica della clinica. Ma quando ti trovavi faccia a faccia con qualcuno, era più difficile sottrarsi alle domande.