89.

Quattro giorni più tardi fui dimessa. I miei parametri erano tornati normali, mi sentivo meglio e il dottor Mehra era soddisfatto.

«L’unico aspetto che continua a lasciarmi perplesso è il tuo stato neurologico» disse durante il nostro colloquio. «La tua attività cerebrale è ancora sopra la media. In parte addirittura più alta dell’ultimo esame. Ma non sappiamo spiegarcelo. Hai ancora qualche disturbo, emicrania o sonno agitato?»

«No, nelle ultime notti ho dormito come un ghiro.»

«Hai avuto incubi?»

Scossi la testa e sorrisi mio malgrado. «No, nessun incubo.»

Per fortuna!

Guardò la mia cartella clinica e aggrottò la fronte. «È molto strano. Ma finché non ti provoca disturbi e non ne conosciamo la causa, dovremo semplicemente accettare la cosa.»

Il dottor Mehra mi consegnò il foglio di dimissioni e mi augurò ogni bene. Dopo avermi salutato ed essere andato alla porta, si girò ancora una volta verso di me. Sembrò che volesse dirmi qualcosa, poi fece un breve sorriso e uscì.

Io non vedevo l’ora di andarmene da lì. Non ne potevo davvero più dell’odore di disinfettante, delle visite continue e del rancio da ospedale che solo con molta fantasia poteva essere definito cibo.

Ero ansiosa di tornare a casa e quasi quasi anche di tornare a scuola. Le vacanze autunnali erano già finite e avrei avuto un bel po’ da recuperare, ma avevo voglia di rimettermi a studiare e di far nuovamente parte della vita normale.

Ovviamente all’inizio sarebbero circolate ancora delle voci e quello stupido video di Samara mi avrebbe perseguitato ancora per un po’, ma in un modo o nell’altro avrei superato tutto. Volevo lasciarmi alle spalle l’oscurità e ricominciare daccapo.

Sascha aveva insistito per venire a prendermi. Sarebbe passato subito dopo la fine del suo turno a mezzogiorno ed Ella aveva promesso che ci avrebbe preparato un ottimo pranzo. Approfittai della mattinata che mi restava per andare a trovare Zoe. Sarebbe rimasta ricoverata un’altra settimana, finché non si fosse stabilizzata del tutto, avevano detto i medici.

Nel frattempo era stata trasferita. I genitori le avevano fatto approntare una raffinata camera singola nel reparto di degenza privata, con un grande televisore, connessione a Internet e cibo decisamente migliore. Inoltre la madre le aveva permesso di ordinare qualunque cosa le andasse di mangiare da qualsiasi servizio di cibo a domicilio in città. E, come se non bastasse, l’ultima volta che era stata a trovare la figlia, Maria Wagner le aveva portato cinque pacchetti di Oreo, quattro per Zoe e uno per me.

Mi misi seduta sul letto insieme a lei e chiacchierammo e ridemmo mentre guardavamo per l’ennesima volta Stranger Things sul suo iPad. Zoe conosceva a memoria tutti i dialoghi della sua serie preferita, in particolare, ovviamente, le parti di Eleven.

Arrivati al punto in cui il bambino scomparso riesce a comunicare con sua madre dal mondo parallelo grazie a una catena di luci natalizie, Zoe fermò il film e mi guardò seria.

«L’abbiamo fatto veramente? Voglio dire, anche noi abbiamo comunicato mentre ero via?»

«Non saprei» risposi. Era passata poco più di una quindicina di giorni, ma per qualche motivo mi sembrava molto di più. E ogni giorno somigliava sempre di più al ricordo di un brutto sogno che sbiadiva a poco a poco. «Di sicuro ero convinta che fossi tu. La tua ombra continuava a seguirmi. Come un fantasma. Come se volessi comunicarmi di aver bisogno del mio aiuto.»

Zoe si guardò le mani pensierosa. «Io non lo ricordo. So solo che ti ho vista nel tunnel, in quell’oscurità e in quell’orribile gelo. Che sensazioni...» Scosse la testa, poi aggiunse: «All’inizio, quando Vanessa mi ha portato in quella cantina, ho pensato di morire. Il dottor Mehra ha detto che è stato per colpa della droga, che mi aveva provocato un collasso cardiocircolatorio. Quasi come è successo a te. Ha detto anche che il nostro incontro nel tunnel è stato solo un’allucinazione. Ma a me sembrava così autentico! Forse perché ti ho vista lì».

«Che cosa hai provato mentre eri lì?»

Aggrottò la fronte e vidi che le costava fatica ripensare a quei momenti. «Avevo una paura tremenda ed era tutto molto strano. Mi sembrava di delirare. Era tutto distorto in qualche modo. Come nella galleria degli specchi dove siamo state una volta. Volevo solo andarmene. C’era quella luce, ma non riuscivo a raggiungerla. Non riuscivo a muovermi, e poi...»

Si passò una mano tra i capelli corti e sospirò come chi si rende conto che sta raccontando qualcosa di incredibile. La cosa non mi sorprendeva, per lei era un’esperienza nuova e non aveva avuto ancora il tempo di ragionarci su. Anch’io avevo dubitato a lungo di me stessa.

«All’improvviso sono tornata in cantina» proseguì. «Con me c’era Vanessa. Credo sia stata lei a riportarmi indietro. Non voleva certo che morissi.»

«Lo credo anch’io» dissi. Per quanto fosse stata invidiosa e piena di un assurdo rancore per la sorella, nutriva un grande rispetto per la vita. Paradossalmente, per quella di Zoe.

«All’inizio ho pensato che fosse solo la mia immaginazione, perché era uguale a me. Ma quando l’effetto della droga è diminuito e ho cominciato a pensare più lucidamente, mi ha spiegato ogni cosa, tutta la sua pazzesca storia. Ce l’aveva con me, anche se non le avevo fatto niente. È stato terribile, dopotutto non sapevo niente di lei.»

«Però sapevi che i tuoi genitori ti avevano adottata.»

Zoe annuì. «Non te ne ho mai parlato. È stato un errore, e mi dispiace. Ma sai, non mi è mai sembrato così importante. Mamma e papà me lo hanno detto che ero ancora piccola, la cosa non mi ha mai creato problemi. Per me loro sono sempre stati i miei genitori. E lo saranno per sempre.»

Ripensai alle parole di Rolf Wagner, che l’adozione non aveva mai significato niente per Zoe, e annuii. Già, in circostanze normali non avrebbe avuto alcuna importanza che Zoe non fosse la figlia naturale dei Wagner. Soltanto l’arrivo di Vanessa aveva cambiato le cose. E nessuno poteva immaginare che sarebbe successo.

«Credo che tra noi due esista un legame particolare» dissi, guardando l’iPad dove si vedeva ancora il fermo immagine con le luminarie natalizie. «È per questo che continuavo a vedere la tua ombra. Una volta mi sei apparsa per davvero, mentre ero in bagno.»

Zoe mi guardò sgranando gli occhi. «Sul serio? Ero nel tuo bagno?»

«Sì, è stato molto inquietante. Ma è così che ho capito che la ragazza a casa tua non potevi essere tu. Perché lei non portava il nostro braccialetto dell’amicizia.»

«Wow» bisbigliò Zoe. «Non so che dire. Ne sei proprio sicura?»

Mi strinsi nelle spalle. «Effettivamente quella notte non stavo tanto bene. Avevo appena fatto un brutto sogno. Forse si è trattato solo di un’allucinazione, un messaggio del mio subconscio, oppure no.»

Zoe mi prese la mano e i nostri braccialetti colorati si toccarono. «Io comunque non ho mai smesso di pensare a te, Nikka. Sapevo che mi avresti cercata e mi avresti trovata. Di sicuro avevamo stabilito una specie di contatto, in qualche modo eravamo unite. Suona assurdo, vero?»

«Sì, decisamente assurdo» risposi. «Ma niente può distruggere la nostra amicizia.»

Fece un sorriso raggiante. «Ci puoi scommettere!»