2.

«Me ne vado. Io me ne vado di qui!» Adesso Anneke non la smetteva più di parlare. «Ci sposeremo qui, in municipio credo. La famiglia di Karl abita fuori Amburgo; magari a guerra finita troveremo una casa lì, magari con un giardino per i bambini, o vicino a un parco… ad Amburgo, Cyrla!»

«Ssst!» la zittii. «Ti sentirà». Non era a mia zia che dovevamo stare attente, ma alla signora Bakker della casa accanto, il cui muro confinava con il nostro. Era vecchia e non aveva niente di meglio da fare che spiare i vicini e spettegolare su quello che scopriva. Tutta la mattina se ne stava seduta nel soggiorno sul davanti e osservava ciò che succedeva sulla Tielman Oemstraat grazie ai due specchi attaccati alle finestre. Dai colpi di tosse sapevamo che la sua camera da letto era accanto alla nostra, e non pensavamo che si sarebbe fatta scrupolo di appoggiare un bicchiere alla parete per ascoltare. Ma in verità a me non importava molto della signora Bakker: volevo solo interrompere i discorsi di Anneke.

Svolsi le bende dal dito e lo pulii con l’acqua della brocca. «Cambiati la camicia da notte, io vado di sotto a prendere altre garze». In corridoio mi imposi di riprendere a respirare normalmente. Presi le strisce di mussolina, e anche un bicchiere di latte e un piattino di spekulaas: Anneke praticamente non aveva cenato, ma adorava i biscottini speziati che portava a casa di nascosto dalla panetteria. Se riuscivo a distrarla, non avrei dovuto ascoltare i suoi progetti. E se lei si fosse resa conto di quanto aveva bisogno di me, forse avrebbe capito che andarsene era uno sbaglio. Andarsene era sempre uno sbaglio.

Ci sedemmo sul suo letto e le fasciai di nuovo il dito; non riuscivo a guardarla in faccia, benché sentissi che lei mi scrutava. «Sei sicura? E poi, com’è… non siete stati attenti…?»

Anneke distolse lo sguardo. «Sono cose che capitano». Dopodiché si sciolse nel suo smagliante sorriso, quello che mi disarmava sempre. «Un bimbo… ma ci pensi?»

Le buttai le braccia al collo e le posai la testa sul petto, inalando l’aroma che portava a casa dalla panetteria: zucchero cotto, tiepido e dolce, così adatto a lei. A me che odore rimaneva attaccato? mi chiesi. L’aceto delle conserve che avevo preparato per tutta la settimana? La lisciva dalla bottega del tappezziere?

Anneke mi asciugò le lacrime con una carezza. «Mi dispiace, Cyrla» disse. «Mi mancherai tantissimo. Più di chiunque altro».

Mia cugina era fatta così. A volte trascurava i miei sentimenti, non per cattiveria, ma in quel modo innocente che è tipico delle belle ragazze, come se la sensibilità fosse una cosa che non hanno mai avuto bisogno di imparare. Tuttavia, quando a me ci pensava, la sua dolcezza assolutamente smisurata mi riempiva sempre di vergogna.

«Io sono tanto felice, però!» proruppe, come se il suo viso già non lo manifestasse abbastanza. «E lui è bellissimo!» Si ributtò sul letto, le mani giunte sul cuore. «È identico a Rhett Butler, non credi?»

Sospirai, fingendomi esasperata. «Ma dai, non gli assomiglia per niente. Tanto per cominciare è biondo».

Anneke liquidò questo particolare con un cenno della mano fasciata.

«E poi ha gli occhi azzurri. E non ha i baffi». Mi alzai e le portai il bicchiere di latte dalla toletta al comodino. «D’accordo, è bellissimo. Ma francamente, cara, me ne infischio».

Anneke rise e si drizzò a sedere. «Diventerai zia! E la guerra finirà presto, e potrai venire a trovarci».

Credeva veramente, lo sapevo, che sarebbe stato così facile. Nella vita di Anneke era tutto facile: il suo stesso nome significava “grazia”, e talvolta pareva che la grazia le si riversasse sopra direttamente dal cielo, così abbondante che lei poteva raccoglierla nelle sue belle manine e lasciarsela scorrere tra le dita.

Non sembrò mai rendersi conto che io mi trovavo in una situazione diversa. Pareva aver deciso fin dal mio arrivo che avevo semplicemente lasciato la mia metà ebrea in Polonia, esattamente come vi avevo lasciato l’infanzia. Oh, sì, avrebbe potuto pensare se mai si fosse posta la domanda, Cyrla è stata bambina in Polonia, ed era ebrea: ma adesso non è più una bambina! Lì in Olanda vivevo come tutti quelli che mi stavano intorno e, siccome le somigliavo al punto che spesso ci scambiavano per sorelle, lei si limitava a vedermi così.

In Polonia abitavo con mio padre, la sua seconda moglie e i miei due fratellastri più piccoli. Dopo il nuovo matrimonio, papà era diventato più osservante, e avevamo cominciato a celebrare le ricorrenze ebraiche; dopo un po’ mi era parso che non mi restasse più niente della mia mamma olandese, a parte i capelli biondi.

A dire il vero, il punto di vista di Anneke era proprio l’argomento che aveva usato mio padre quando l’idea di scappare in Olanda mi era sembrata un tradimento. «Non rinneghi una metà di te stessa solo perché accetti l’altra metà: correggerai soltanto una situazione squilibrata. Va’ nel mondo di tua madre. Impara a inserirti nella sua vita, e scoprirai in che modo lei si inserisce nella tua».

Il primo venerdì dopo il mio arrivo in Olanda mi ero ritrovata in mezzo al soggiorno al calar del sole, sentendomi persa senza la mia matrigna che accendeva le candele a segnare l’inizio dello Shabbat. Mia zia se ne accorse; scosse il capo, mi venne vicino e mi abbracciò stretta. «No» sussurrò. Cinque anni dopo, il venerdì sera era una serata come un’altra. Mentalmente tenevo il conto delle festività, ma avevo imparato a scacciare il senso di colpa per la loro mancata osservanza. Manca poco, e poi potrò tornare a casa senza pericolo, mi dicevo. Così tornerò a essere la persona che ero.

La Polonia risaliva a tanto tempo prima.

Anneke però avrebbe dovuto sapere quanto fosse devastante per me l’idea del marito che si era scelta. Invece negava l’altra metà della questione esattamente come negava la mia metà ebrea.

«Ma lui è un maestro d’ascia, costruisce barche» argomentava all’inizio quando io e mia zia cercavamo di persuaderla a non frequentare Karl. «Non è un nazista, è un coscritto, non ha avuto scelta».

Nessun altro la pensava così sui soldati tedeschi. Le amiche di Anneke a volte millantavano che sarebbero uscite con loro solo per farli ubriacare e poi buttarli in un canale, anche se non avevo mai sentito che ne fosse morto qualcuno in quel modo. Tutti si scambiavano battute sui soldati, e li mettevano in ridicolo per rendere più sopportabile l’occupazione. Tutti poi facevano la loro parte per boicottare i nazisti ogni volta che potevano: scambiavano i cartelli stradali, fingevano di non capire il tedesco alla richiesta di un’indicazione, oppure scrivevano OZO – le iniziali dell’espressione olandese “l’arancione vincerà” – ovunque possibile, nel colore nazionale che era stato proibito.

Anneke però era diversa. Avrei dovuto capire fin dall’inizio quanto fosse presa da quel tipo. Avrei dovuto fermarla.

Non avrei provato simpatia per Karl nemmeno se fosse stato un militare dell’esercito olandese. Lo avevo visto una volta sola, una settimana prima: Anneke aveva organizzato un incontro casuale in panetteria, quando lui veniva a prenderla, perché potessi dargli un’occhiata e vedere quant’era bello. E lo era, anche se a me piacevano gli uomini come Isaak: bruni, con gli occhi seri e premurosi. Karl invece era alto e biondo, e il suo volto aveva qualcosa di sfuggente. Quando Anneke ci aveva presentati, il suo sguardo mi era scivolato sopra: se fosse stato ansioso di guardare mia cugina anziché me lo avrei capito, e addirittura apprezzato, ma al contrario lui aveva perlustrato il negozio come se cercasse una via di fuga. Questo però ad Anneke non lo dissi.

«Be’, gli occhi» le dissi invece, «con quel celeste che spicca sul bianco, mi ricordano i giacinti quando fioriscono dopo l’ultima nevicata». Il commento le piacque, e in effetti era vero. Ma sarebbe stato meglio, pensavo in quel momento, se le avessi detto ciò che avevo intuito… su che tipo d’uomo era.

C’erano molte cose che non mi andavano, ma quella prima sera pensai soltanto che Anneke mi avrebbe lasciata. Il cumulo di cose che avrei voluto dirle formava un groppo così grosso, in gola, che non fui capace di dire nulla. Spensi la luce e mi voltai dandole le spalle, ma non riuscii a dormire.

Intorno a mezzanotte ebbi bisogno di andare in bagno. Sgattaiolai in silenzio lungo il corridoio, in modo da non svegliare nessuno e, nel passare davanti alla camera degli zii, ne sentii le voci.

«…se significa mettere la nostra famiglia in pericolo» diceva mio zio.

«Lei è la nostra famiglia, Pieter» replicò con rabbia la zia.

«Lei è la tua famiglia» la corresse lui. «Non la nostra, la tua».

La mattina dopo osservai Anneke che si preparava per andare al lavoro. Dalla cura che metteva nel vestirsi era evidente che dopo avrebbe visto Karl.

«Quando lo dirai ai tuoi?» chiesi dal letto.

«Be’, stasera lo dirò alla mamma, penso». Scelse un rossetto color delle ciliegie mature e si dipinse le labbra. «Prima voglio dirlo a Karl».

Balzai a sedere. «Anneke! Non lo sa ancora?»

Lei rise, e la sua immagine allo specchio mi rivolse il solito guizzo con le dita… come se le preoccupazioni fossero solo moscerini da scacciare. «Sarà contentissimo, vuole una famiglia numerosa. Ha una nipotina che adora».

«Ma tutti quei progetti?»

«Sei troppo seria, katje!» Era da tantissimo tempo che non mi chiamava gattina: era il nomignolo che mi aveva dato quand’ero arrivata, e avevo solo quattordici anni, mentre lei ne aveva sedici. Si avvicinò e si sedette sul letto accanto a me. «Dammi la mano, ti leggo il futuro».

Le tesi il palmo e lei lo baciò, lasciandoci sopra un’impronta rossa a forma di cuore. «Guarda qui» disse. «Questo è un ottimo segno, significa che ti innamorerai presto. E ti sposerai, anche, e vivrai per sempre felice e contenta e noi due avremo dieci figli a testa e ciascuno di loro avrà dieci figli e io e te invecchieremo insieme e saremo sempre molto felici».

Richiusi le dita sopra il segno sul palmo. «Ma tu sei sicura, Anneke? Lo ami, almeno?»

Lei tornò al cassettone, si tolse le forcine dai capelli e si pettinò le lunghe onde prima di rispondere. «Ne sono innamorata. Voglio sposarmi… e non è che ci siano più tanti uomini in giro, con tutti quelli che sono entrati in clandestinità. Lo avevi notato?» Sospirò e voltò le spalle allo specchio. «Lui mi ama. Io voglio andarmene da qui. E adesso sono incinta. Credo che basti». Tornò da me e si sedette sul letto. «Dai, lasciati spazzolare i capelli; anzi, dovresti permettermi di tagliarteli, prima che me ne vada. Così non li porta più nessuno, e tu saresti bellissima».

Bellissima non lo sarei mai stata. Io e Anneke avevamo gli stessi lineamenti – quelli delle nostre madri – ma anche i panini pregiati e i filoni grezzi sono fatti con gli stessi ingredienti. E i capelli non me li sarei mai tagliati; li portavo intrecciati e raccolti in una crocchia, come già mia madre prima di me. Lasciai che Anneke me li spazzolasse dopo averli sciolti e, quando se ne andò, non scesi immediatamente; le piegai la camicia da notte, gliela infilai sotto il cuscino e rimisi il cappuccio al rossetto. Poi raddrizzai le foto che aveva ritagliato dalle riviste e infilato nella cornice dello specchio: la principessa Elisabetta e sua sorella Margaret, Gary Cooper, Carole Lombard. Come sarebbe stata questa camera senza le sue cose? Senza di lei?

Dopo la morte di mia madre, mio padre aveva percorso tutta la casa radunando le sue cose senza guardarle, il viso irrigidito in linee rabbiose. Tutto quello che lei aveva sfiorato, ora era imballato in casse scure, perché vedere quegli oggetti gli faceva troppo male. Ma a me aveva fatto ancor più male non vederli più. Ricaddi sul letto di Anneke, colta di sorpresa dalle lacrime.

Più tardi, mentre portavo secchio e spazzolone sui gradini dell’ingresso per pulirli, la signora Bakker mi chiamò dalla soglia di casa.

«Sentita la novità? Le leggi di Norimberga entreranno in vigore anche qui».

«Ja» assentii cauta, versando l’acqua sugli scalini. L’avevo sentito dire, anche se lo zio non si era espresso proprio in quel modo. Mi chinai sui mattoni e mi misi al lavoro.

«Mi sa che da queste parti le cose si metteranno molto male per gli ebrei» seguitò lei, e qualcosa nella sua voce mi mise in allarme. «Per chiunque abbia del sangue ebraico».

Imposi alle braccia di continuare a strigliare, ma d’improvviso l’aria non mi bastava più, e i rumori della strada si fusero in un unico sibilo. Tenni la testa bassa, concentrandomi sul disegno di mattonelle blu e grigie che orlava la soglia, per non mostrare la mia reazione. Da quando ero arrivata, nessuno mai mi aveva chiesto di mio padre o della mia vita in Polonia; e mai, per quanto ne sapevo, la zia o lo zio avevano spiegato le ragioni del mio arrivo, se non facendo qualche vago riferimento alla morte di mia madre. Era un argomento che non discutevamo nemmeno tra noi.

«Be’» concluse la signora Bakker, «abbi cura di te, Cyrla». Poi chiuse la porta.

Finii di pulire i gradini più in fretta che potei. In casa la zia pelava le pere: erano settimane che faceva bollire la frutta per poi conservarla sotto vaso.

«Adesso vado a fare la spesa» le dissi, prendendo le tessere annonarie dallo scaffale. Senza attendere risposta, afferrai la bici e partii.

Ma non ero diretta al mercato.