Mia zia era seduta sulla panca sotto la finestra della cucina; aveva accanto una copia di Libelle e una tazza di tè ancora piena. Rimisi a posto la tessera annonaria e lei non se ne accorse.
«Lo sai com’è fatta» dissi sbottonandomi il cardigan. «Non sono neanche le otto». Andai a prendere la tazza della zia per versarci del tè caldo, nel caso si fosse raffreddato. «Sta bene» aggiunsi, irritata con Anneke. Era proprio da lei dimenticarsi di chiunque altro, se si stava divertendo.
La zia mi afferrò il polso. «Oggi c’erano soldati dappertutto… nuovi posti di blocco…»
Posai la tazza e ritrassi la mano. «E perché dovrebbero infastidire Anneke?» E io? avrei voluto chiedere. È per me che dovrebbero preoccuparti, i nuovi posti di blocco.
Poi mi immobilizzai di colpo.
L’odore di zucchero cotto.
«Aspetta qui». Corsi su per le scale fino in soffitta e spalancai l’uscio della cameretta che non veniva usata da quando era morta la nonna. Anneke era sdraiata sul letto e dava le spalle alla porta; la luce del corridoio s’incurvò lungo la linea del suo fianco. Sembrava piccola, vulnerabile. Mi inginocchiai accanto a lei, con un braccio intorno alle sue spalle.
«Dimmi».
Anneke si voltò a guardarmi.
«È uno stupido» sussurrai. Le scostai un piccolo orecchino di lunaria dalla guancia; sulla pelle umida la filigrana d’oro aveva impresso un marchio simile a una trina. Piangeva da ore. «Non ti merita». D’un tratto mi sentii in colpa, come se la mia avversione alla sua partenza avesse causato tutto questo; mi dispiaceva per tutto ciò di cui avrei voluto privare mia cugina. «Non devi tenerlo per forza, il bambino. Se però vorrai tenerlo, ti aiuterò io».
Anneke trovò la mia mano. I suoi occhi si riempirono nuovamente di lacrime, ma ancora non disse una parola.
«Tua madre è preoccupata. Devi dirglielo. Ce la fai a…? Lascia stare». Le diedi un bacio su una guancia. «Non ci metterò molto».
La zia invecchiò di colpo, quando le dissi della gravidanza di Anneke; si premette le mani sulla bocca e mi guardò come se l’avessi picchiata. Non mi era mai venuto in mente che potesse nutrire segrete aspirazioni per la figlia, ma adesso erano tutte lì, rivelate dai suoi occhi, ed era terribile vederle andare in pezzi e svanire. Non proferì un solo rimprovero contro Anneke e nemmeno contro Karl, ma la vidi serrare le labbra per non pronunciare le parole.
Portammo Anneke nel suo letto e per un’ora ci limitammo a occuparci di lei. Le spazzolammo i capelli e le mettemmo una camicia da notte pulita. Rifeci il bendaggio sul dito: la ferita non stava guarendo bene. Anneke ci permise di fare tutto questo, ma tenne lo sguardo sempre rivolto alla finestra, come se riuscisse a vedere oltre la carta dell’oscuramento. Le preparai la cioccolata calda e del pane tostato con gli ultimi resti di marmellata di uva spina, la sua preferita, poi portai su il vaso bianco e azzurro di maiolica di Delft con dentro le rose gialle che stava sul davanzale in cucina. Mia zia non le chiese niente, mormorava soltanto: «Lieveling, lieveling». Mi domandai quanto le costasse ingoiare tutti i “come hai potuto?” e i “se solo”: le conseguenze, con tutte le loro ramificazioni, erano sempre facili da vedere quando ormai era troppo tardi.
Finalmente Anneke si drizzò a sedere e cominciò a parlare. Non che Karl non l’amasse, solo che doveva partire. Lo rimandavano in Germania. Peggio ancora, ad Amburgo aveva una fidanzata, e quando fosse rientrato l’avrebbe sposata. Anneke crollò un’altra volta. «Non gli importa niente di lei» riuscì a dire. «Ma non ha scelta. Gliel’ha promesso».
Mi sentii colma d’indignazione. Verso Anneke, che difendeva quell’uomo, e anche verso Karl: che imbecille, a sposare una che non amava e a lasciare Anneke sola con un bambino. Mantenere quella promessa non aveva niente a che vedere con l’onore vero: il mattino dopo sarei andata a cercarlo e l’avrei ricondotto alla ragione.
D’un tratto Anneke si ricordò del padre. «È ad Amsterdam» le disse Tante Mies. «È partito oggi pomeriggio per un carico di lana che però è stato trattenuto, e lui dovrà pernottare là». Anneke si afflosciò per il sollievo. «Però torna domani con il treno della sera» l’ammonì Tante Mies. «E sai benissimo che non possiamo nascondergli la faccenda».
Anneke la supplicò con gli occhi di prendere tempo. «Andrà tutto bene» la rassicurò la zia accarezzandole la fronte. «Glielo dirò io, e andrà tutto bene».
Poi la zia le diede un sonnifero e mi chiese di rimanere lì a leggerle qualcosa finché la pastiglia non avesse fatto effetto. Mi guardai attorno in cerca del libro giusto. Accanto al mio letto c’era una nuova raccolta di Albert Verwey, e poi il Libro d’ore con le poesie di Rilke, con le pagine ispessite per quanto le avevo sfogliate. Adoravo Rilke: mi sembrava che avesse scoccato le sue poesie da un’altra epoca come frecce dirette proprio al mio cuore. Ma quelle poesie avrebbero ferito Anneke, quella sera.
Chiesi alla zia di portare su la copia di Libelle che avevo visto in cucina. Era una rivista femminile, piena di articoli stupidissimi che io e Anneke ci reputavamo troppo navigate per leggere, ma poi divoravamo tutti i mesi. Si rivelò una buona scelta, e Anneke presto si addormentò.
Io non ci riuscii, però. Tornai nella camera in soffitta, spinsi il letto in mezzo alla stanza, ci saltai sopra e aprii il lucernario per guardare fuori. Prima dell’aggressione tedesca, io e Anneke adoravamo quella finestra: da quel punto in alto riuscivamo a vedere tutto il profilo di Rotterdam e il porto alla foce del fiume Maas. Qualunque ora fosse, la città era sempre accesa di vita. La notte del 14 maggio tutti, in famiglia, avevamo fissato increduli la sagoma carbonizzata della città, nera e perduta contro le fiamme, finché non eravamo più riusciti a respirare di fronte a quella vista fuligginosa. La nostra cittadina rimase avvolta per giorni in una bufera di cenere, mentre Rotterdam bruciava; e i tedeschi sparavano a chiunque cercasse di spegnere gli incendi, come monito a tutti gli altri. Da quella sera non avevamo più guardato fuori.
Adesso sentivo il bisogno di farlo. La luce di un quarto di luna calante – da quando c’era l’oscuramento eravamo diventati tutti esperti delle fasi della luna – si riversava sulla città buia, che dopo un anno e mezzo ancora appariva bruciata e in rovina. C’erano pochi deboli lumi a est, dalla parte dei moli: probabilmente i tedeschi sulle loro agili navi grigie. Stilai un piano di quanto avrei detto a Karl il mattino dopo, qualunque cosa ritenessi necessaria.
Infine richiusi il lucernario e mi sedetti sul letto: c’erano cose che dovevo dire anche a Isaak, e ripercorsi con la mente la conversazione avuta in precedenza. Lui voleva che partissi perché mi amava. Non me l’avrebbe mai detto, non era nella sua natura parlare di sentimenti. Dovevo essere io a trarre i significati più teneri dalle sue parole aspre.
Ma adesso ero al sicuro. Anneke non aveva più un marito tedesco con cui parlare e, fintanto che nessuno sapeva che ero mezza ebrea, le nuove restrizioni non avevano alcun effetto su di me. E poi erano solo dei decreti: insultanti e fastidiosi, ma non minacciosi. Isaak si preoccupava troppo di cose che forse non sarebbero mai successe. Se invece lui fosse stato in pericolo, allora ce ne saremmo andati. Insieme. Gliel’avrei fatto capire.
Mi svegliai all’alba, lasciai un biglietto e me ne andai in centro con la bici.
La zia aveva ragione: c’erano più soldati in giro, adesso. Ce n’era una coppia davanti a ogni ingresso del parco, dall’altra parte della strada. Altri stavano inchiodando avvisi. Ce n’erano anche alle fermate del tram, a controllare le carte d’identità. Uno mi lanciò un’occhiata mentre passavo e, anche se poi si portò la mano all’elmetto e sorrise, provai un vuoto allo stomaco. Il reparto di Karl era acquartierato in diverse case sulla Ruyterstraat; la settimana precedente Anneke mi aveva mostrato la sua, ma quando ci arrivai non ero certa che le gambe mi avrebbero sorretto. Ricorrevo sempre a un trucco quando volevo costringermi a fare una cosa e avevo paura: mi dicevo che bastava fare il primo passo.
Oggi, per esempio, dovevo solo bussare a una porta. Dopo avrei potuto andarmene.
La porta fu aperta da una signora bassa e tonda, con un’antiquata cuffia bianca e un lungo grembiule. «Goedemorgen!» Mi rivolse un sorriso e io ricambiai il buongiorno: ecco fatto. Un momento dopo le chiedevo di vedere il soldato tedesco di nome Karl, e poi eccomi nella sua cucina, che era colorata di rosa e sapeva di chiodi di garofano, di varechina e di normalità. La signora mi offrì il caffè. «Surrogato, bleah!» Fece una smorfia e alzò gli occhi al cielo come a dire, Eh, che cosa ci vuoi fare!
Mi condusse alla porta sul retro. «Eccoli là: fanno ginnastica in giardino. La settimana scorsa mi hanno devastato tutto il gelsomino. Forza, vai».
Due militari. Mi davano le spalle, ma notai subito che nessuno dei due era Karl. Un altro colpo allo stomaco, ma a questo punto non avevo scelta. Udendo i miei passi si voltarono, e rimasi sconvolta nel vedere quanto fossero giovani.
Chiesi loro di Karl Getz.
«Non c’è» disse il più alto dei due. Aveva i capelli castani, il viso rotondo e l’aria di non essersi ancora mai fatto la barba.
«Quando torna?»
Il soldatino socchiuse gli occhi per un attimo, poi sembrò giudicare che non rappresentavo una minaccia. «No, è andato via. A Monaco. L’hai mancato per un’ora».
Il tedesco lo parlavo bene, ma ero certa di avere capito male. «A Monaco? Ma non gli avevano ordinato di tornare ad Amburgo?»
No, mi assicurarono tutti e due, Karl non era andato ad Amburgo. Si scambiarono un’occhiata e poi l’altro ragazzo, quello più tranquillo, con i capelli chiari e ricci, si avvicinò d’un passo e mi chiese se ero la ragazza di Karl.
Ignorai la domanda. «E la sua fidanzata? Si sposano comunque?»
I soldatini si guardarono di nuovo, sogghignando. «Mi sa che ci ha nascosto qualche segretuccio».
Allora capii. «Non fa niente».
«Aspetta» disse il più basso. «Come ti chiami?»
Mi accorsi che si sentiva semplicemente solo, ed era così ansioso di parlare anche soltanto per un minuto che mi fece pena. «No, io… mi spiace avervi disturbato». Mi voltai per andarmene, ma lui insistette.
«Mi chiedevo se…» S’interruppe e distolse lo sguardo, poi si ravviò i capelli come se gli fossero ricaduti sulla fronte. Sentii che faceva un respiro profondo, poi tornò a guardarmi. «Mi chiedevo se ti andava di fare qualcosa stasera… vedersi in un caffè, magari? È solo che assomigli tantissimo a mia sorella, e non la vedo da un sacco di tempo».
Borbottai la scusa che la sera lavoravo, e scappai via.
Mi misi a pedalare per le vie lastricate più in fretta che potevo. Il mondo si stava spezzando in due. Da una parte c’erano soldati ragazzini che avevano nostalgia delle sorelle e avrebbero voluto sedere al caffè con le ragazze. Dall’altra c’erano uomini che avvolgevano le teste delle ragazze nelle camicette impregnate dei rifiuti sudici di una latrina, e mi avevano strappata alla mia famiglia, e non mi avrebbero permesso di entrare in un parco o salire su un tram se avessero saputo chi ero.
Il mondo si stava spezzando in due, e io cadevo nel vuoto.