9.

La persona che tornò a casa domenica sera non era mia cugina.

Quando mi avvicinai, trasalì. Salì subito in camera benché non fossero nemmeno le nove e, quando io e la zia la seguimmo, dapprincipio si rifiutò di rispondere alle nostre domande e persino di guardarci con quegli occhi feriti. O forse non ci riusciva.

«E va bene» disse la zia dandole un bacio. «Ne parliamo domani». Se ne andò, e compresi che avrebbe cercato di farsi dire da mio zio che cosa era successo.

Anneke si tolse il vestito e lo appese, cosa che non le avevo mai visto fare; in cima alle unghie lo smalto si era sfaldato in sottili mezzelune bianche, altra cosa inaudita. Indossò la camicia da notte e si tirò le coperte sulla testa, il tutto con gesti attenti e misurati.

D’improvviso mi sentii in colpa, come se l’avessi delusa. «Ci ho pensato bene. Se te ne andassi me ne andrei anch’io, perché qui senza di te non ci voglio stare… anche se tuo padre me lo permettesse. Quindi perché non ce ne andiamo insieme? Ci cerchiamo una casa ad Amsterdam, e anche un lavoro, là non ci conosce nessuno. Alla gente diremo quello che ti pare».

Lei rispose soltanto: «Sono molto stanca, Cyrla».

«No, aspetta» incalzai. «Isaak mi ha parlato del Lebensborn. Dove sei andata? Dimmi che cosa è successo».

Anneke ebbe un fremito e si rannicchiò ancora di più sotto le coperte.

Mi alzai, mi sedetti sul suo letto e le posai una mano sulla spalla. Era fredda sotto la camicia da notte, ma non tremava. «No» ripetei. «Parla con me, ti prego, altrimenti non mi metto a dormire. Tu in quel posto non ci andrai, e loro non si prenderanno il tuo bambino. Stai bene?»

Anneke sospirò e mi guardò in faccia. «Tu non capisci». I suoi occhi erano ancora lontanissimi, lenti e invecchiati; qualcosa, nel suo intimo, era scomparso. «Sto bene, non è successo niente. Ho visto dei dottori… alla sede… solo qualche esame. Mi hanno misurato… mi hanno misurato tutto. Mi hanno chiesto della nostra famiglia. E basta. Adesso voglio dormire».

«Anneke, mi stai a sentire? Non sei obbligata ad andarci». D’un tratto ebbi un’idea brillante. «Tua madre deve partire per Amsterdam, domani, per prendere quel ricambio che serve a tuo padre. Andiamoci anche noi. Ci vediamo con Frannie e Lijsje, chiediamo loro di darci una mano a trovare un posto dove stare. Ci divertiremo».

Anneke si allontanò ancora di più. «Lasciami in pace, Cyrla». Si girò dall’altra parte. Per un istante mi arrabbiai con lei, che si era cacciata in questa situazione e adesso non mi permetteva di trovare una via d’uscita. Più tardi, quando la sentii piangere, mi vergognai di me.

Il mattino dopo era già in piedi quando mi svegliai.

«Allora» dissi subito, «Amsterdam?»

«Io oggi torno al lavoro. Ma tu vai con la mamma, Cyrla. È una buona idea: vedi cosa riesci a scoprire». Indossò una gonna di lana grigia e una maglia amaranto, e mi sembrò stare meglio, più in forze. «Allora, ci vai?» mi chiese qualche minuto dopo, e attese finché non glielo ebbi promesso. Ero contenta: la mia idea le aveva dato speranza.

Mentre mi vestivo rimase a chiacchierare con me, e mi fece delle domande su Isaak. Come mi sentivo, quando stavo con lui? Lui come si comportava? Ero sicura? Centinaia di particolari.

«Si è mai davvero sicuri?» le chiesi io. E allora lei mi diede altri consigli, riguardo a come avrei capito se lui era quello giusto, a quello che avrei provato, ma io smisi di ascoltarla: Isaak era quello giusto dal giorno in cui l’avevo conosciuto, lo stesso giorno in cui ero arrivata in Olanda. Non c’era alcun dubbio. La cosa importante era che Anneke pareva essersi ripresa; ma non si guardò allo specchio come di consueto prima di scendere, e non si ritoccò lo smalto sulle unghie.

Non avrei mai dovuto lasciarla andare.

Il treno era affollatissimo: i treni erano sempre pieni, a quei tempi. I tedeschi avevano requisito le nostre moderne locomotive elettriche e ci avevano lasciato solo le vecchie motrici a vapore, che non facevano che rompersi, oltre alle carrozze peggiori. Quando raggiungemmo Amsterdam c’erano ormai centinaia di persone a bordo, accalcate fianco a fianco nei corridoi in modo che, se qualcuno fosse svenuto, con ogni probabilità non avrebbe neanche toccato terra, mentre le ultime due carrozze erano vuote: NUR FÜR WEHRMACHT, dicevano i cartelli, solo per l’esercito, malgrado quel giorno non ci viaggiasse neanche un soldato. Lo presi come un buon auspicio: se così tanta gente andava ad Amsterdam, voleva dire che lì c’era lavoro.

Il treno puzzava di chiuso e fuliggine, ma siccome Schiedam era all’inizio della tratta noi ci eravamo potute sedere e ci ritenevamo fortunate. Durante il tragitto la zia mi riferì quello che aveva appreso la sera precedente. C’era una casa a Nijmegen, a neanche cento chilometri di distanza, chiamata Gelderland. Anneke aveva passato tutti gli esami, e sarebbe stata accolta a braccia aperte: di solito le ragazze aspettavano che si cominciasse a vedere la pancia prima di entrare, ma lo zio aveva insistito perché ci andasse subito. Doveva presentarsi il venerdì successivo.

«Hanno un sacco da mangiare. Frutta e verdura fresca tutti i giorni, latte, e tutto di prima qualità. Non è nemmeno troppo lontano…»

«Tante Mies!» la interruppi. «Non penserai davvero di mandarcela?» Ma lo pensava, era ovvio. Avevo sentito le parole che l’avevano indotta a cedere… un sacco da mangiare, prima qualità: parole nutrienti, per la zia, come i pasti che non poteva più prepararci. Io e Anneke eravamo dimagrite, da un anno a questa parte e, da quando aveva incontrato Karl, lei si era assottigliata anche di più, come se si fosse consumata più in fretta e più in profondità. Talvolta la zia misurava con uno strattone il girovita di una gonna, e l’accusa contenuta nella stoffa troppo abbondante l’addolorava visibilmente.

«Ja, penso di sì. Noi non possiamo offrirle nulla di tutto ciò, non riesco neanche a darle da mangiare come si deve. Là hanno dottori e infermiere, avrà le migliori cure mediche…»

«No!» urlai. Molti si voltarono a guardarci, ma non ci badai. «Guarda che non è come pensi tu. Me l’ha detto Isaak: quello è un centro Lebensborn. Lo sai che cosa vuol dire? Hai chiesto che esami le hanno fatto? Hai chiesto a Oom Pieter che cosa ne sarà del bambino? Dove andrà a finire?»

Raccontai alla zia tutto ciò che avevo saputo, poi le dissi che cosa avevo in mente di fare. Non c’era ragione di nasconderglielo: avevamo ormai esaurito tutte le scelte possibili.

Lei mi ascoltò attentamente, mi ascoltò per la prima volta come un’adulta. Non dissentì su niente; anche quando le dissi che non si poteva dire niente a zio Pieter, si limitò a volgere lo sguardo al finestrino sporco e alla campagna che scorreva al di là, annuendo.

«Vi aiuterò» disse quando ebbi finito.

D’un tratto mi sentii piena di speranza. Io e Anneke potevamo rifarci una vita ad Amsterdam, finché la guerra non fosse finita. Non sarebbe stata quella che avevamo immaginato, ma chi poteva dire qualcosa di diverso in Europa? Le ruote del treno cantavano sulle rotaie.

Avevo l’indirizzo di Frannie e Lijsje, e per raggiungere il loro quartiere presi il tram. Era affollato pure quello: uomini e donne in abiti da lavoro, studenti universitari, gente di diverse nazionalità, cose che a Schiedam non si vedevano. Amsterdam era sempre stata una città accogliente, solidale e molto moderna: a volte, dopo esserci stata, tornavo a casa pensando che Schiedam fosse almeno vent’anni indietro. Le ragazze, in particolare, qui avevano un aspetto diverso… ed esaltante. Mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto prima che lo assumessi anch’io, e se me ne sarei accorta.

Mi sentivo anonima e libera, come se già avessi assunto una diversa identità e stessi cominciando una nuova vita. Mi sarei dovuta scegliere anche un nuovo nome: mi era sempre piaciuto Kalie, come la mia prima amica in Olanda, o magari mi sarei ribattezzata Alie, oppure Johanna come mia madre. Anzi no, Johanna no.

Scesi sulla Konigsstraat e m’incamminai verso la casa di Lijsje e Frannie. Il loro appartamento stava sopra a una bottega di ciabattino. Anche questo mi parve un buon auspicio: a Schiedam il calzolaio era senza clienti da mesi. Proprio lì accanto c’era un negozio di formaggi, pieno di gente.

La porta che conduceva all’appartamento di sopra si trovava in una rientranza tra le due botteghe. Gli ingressi erano fiancheggiati da vasi di dalie color del sole e, sopra ai fiori, ciascun negozio ostentava uno dei nuovi cartelli: JODEN VERBODEN, a lettere più grandi e più nere rispetto a quelli vecchi.

«Lo ha visto il cartello?» La voce alle mie spalle mi fece sobbalzare.

«Ma in che mondo viviamo, che ci dicono chi può e chi non può entrare nei nostri negozi? Mi fanno venir voglia di andare a comprare da un’altra parte. Ma che si può fare? Ormai sono dappertutto». L’uomo scosse il capo e mi superò per entrare nel negozio di formaggi.

Salii rapidamente le scale fino all’appartamento e imposi al mio cuore di rallentare, evitando di domandarmi perché avesse accelerato.

Alla porta non rispose nessuno, ma ovviamente Frannie e Lijsje dovevano essere al lavoro. Tornai in strada e mi avviai a piedi. Non sapevo in che banca fossero impiegate perciò, ogni volta che ne vedevo una, mi fermavo a chiedere. Le mie amiche non le conosceva nessuno, ma i cartelli erano dappertutto; e in ogni ufficio chiesi se per caso ci fossero offerte di lavoro. In due banche mi dissero no, spiacenti; nella terza forse, nel giro di una settimana, ritorni. Be’, così avrei detto a Anneke che avremmo certamente trovato un impiego.

Camminai diverse ore, raccogliendo cose da dire ad Anneke su Amsterdam, da portarle come regali: sentii qualcuno che si esercitava al clarinetto; c’era un giovanotto che dipingeva con il cavalletto piazzato di fronte a una casa galleggiante; un gruppo di studenti distribuiva volantini per una rappresentazione teatrale. Ovunque guardassi c’erano soldati tedeschi, ma qui sembravano appartenere alla città, e non viceversa. Qui ci saremmo trovate bene, avremmo ricominciato a vivere.

Era quasi ora di andare all’appuntamento con la zia. Mi fermai in una pasticceria per comprare alcune taartjes per il viaggio di ritorno. Di nuovo quel cartello, sulla porta del negozio: JODEN VERBODEN. Mi passò la fame. Ma proprio mentre mi giravo sulla soglia per andarmene, entrarono tre signore anziane.

Mi appiattii cortesemente contro la porta, sorrisi, augurai a tutte e tre il Goedemiddag e, mentre loro mi oltrepassavano con movimenti segnati dall’artrite, infilai una mano tra la schiena e il vetro, trovai l’offensivo avvertimento, lo strappai via e lo gettai per terra dopo averlo appallottolato. «Bella giornata!» aggiunsi, e poi me ne andai con un sorriso ancora più largo. Sì, io e Anneke ci saremmo trovate bene qui.

Quando arrivammo a casa era buio, e squillava il telefono. Mi affrettai ad aprire la porta per correre a rispondere.

Era il signor Eman della panetteria. Voleva sapere se Anneke era pronta a tornare al lavoro. «Per adesso ci ha pensato mia moglie a coprire i suoi turni, ma se Anneke pensa di assentarsi ancora…»