13.

Presi le strade secondarie e me ne pentii subito. Così vicino al porto, l’acqua tratteneva l’aspro odore di metallo delle continue saldature tedesche, così simile all’odore del sangue. Mi colse di schianto il pensiero di Karl, della sua bugia e del sangue che Anneke aveva versato per causa sua. Se lo avessi visto in quel momento, l’avrei sgozzato a morsi. Per ben due volte caddi dalla bicicletta e dovetti premermi le mani sul petto, da quanto mi era difficile respirare.

Benché non fosse ancora buio, Isaak non mi rimproverò, quando crollai sulla soglia. Col lavoro che faceva aveva imparato a riconoscere le persone sconvolte. Mi condusse sul letto, mi aiutò a sdraiarmi e poi sedette accanto a me.

«Cosa c’è?»

Strisciai sul suo grembo, mi raggomitolai tra le sue braccia e scoppiai in singhiozzi contro il suo petto. «La rivoglio indietro, la rivoglio indietro, indietro!» Isaak attese. «Era così bella» sussurrai infine con la gola in fiamme. «Pensavo che traesse la luce del sole dall’aria, ed ero così invidiosa. Adesso mi dispiace tanto, così tanto…»

«Cos’è successo?»

Era così difficile raccontare a parole l’orrore che avevamo vissuto, renderlo reale e definitivo. Era quasi impossibile esprimere la violenza che Anneke aveva inferto a se stessa. Ogni parola mi straziava il cuore e avrei tanto voluto che Isaak dicesse che mi sbagliavo, che non poteva essere successo.

Invece lui si limitò ad ascoltare quello che Anneke aveva fatto con la fronte aggrottata. «Stupida». Lo borbottò tra sé quando ebbi finito di parlare, ma lo sentii. «Stupida ed egoista».

Mi ritrassi, mi asciugai gli occhi e lo guardai in faccia. «Isaak… la stai biasimando?»

«Ha soppresso una vita. È sbagliato e…»

Feci un balzo. «Ma come fai a dire una cosa del genere? Pensa a quanto doveva essere sconvolta, disperata, per… correre quel rischio. Non si meritava tutto questo: la colpa è di Karl, non sua. È morta, Isaak! Era bella, piena di vita, buona e generosa. Faceva sorridere tutti, tutti quelli che incontrava! E poi… oh, Isaak, io le volevo bene e lei non mi ha detto niente. Non si è fidata di me».

Ricominciai a piangere, e lui si addolcì. Ma disse soltanto: «Mi dispiace. Lo so che le volevi bene».

Fino a quel momento non mi ero resa conto del danno che aveva subito Isaak a essere cresciuto senza una famiglia. Di quanto si tenesse a distanza dal prossimo. Non era colpa sua, mi ripetei, ma ora gli avrei risparmiato la mia pena.

Mi ricomposi e mi sedetti vicino a lui. «C’è dell’altro. Ho bisogno del tuo aiuto». Gli raccontai dell’avviso fatto passare sotto la porta. «Mia zia è uscita di senno. Ha costretto Oom Pieter ad andarsene: incolpa lui di tutto quanto. E poi si rifiuta di parlare della morte di Anneke. A quelli delle pompe funebri ha detto che ero morta io, non lei, e pensa che questo mi proteggerà: pensa davvero di poter mantenere il segreto, così io potrò allontanarmi e tenere i documenti di Anneke, e crede che chiunque abbia lasciato quell’avviso lascerà perdere. Io non so cosa fare. Puoi venire a casa con me?»

Isaak si alzò, si avvicinò alla finestra e scostò la cortina dell’oscuramento per osservare la notte. Poi si voltò.

«Cyrla, e se… senti, tu volevi rimanere in Olanda e pensavi di entrare in clandestinità, giusto? Ma è molto meglio vivere con i documenti, con un’identità…»

«Hai sentito cosa ho detto?»

Lui prese la sedia dalla scrivania, la piazzò davanti al letto e si sedette di fronte a me. Posò i gomiti sui braccioli e poi il mento sulle mani giunte, nella rassicurante posa in cui lo immaginavo quando incontrava i membri del Consiglio. Fui sopraffatta dal sollievo: ora mi avrebbe ascoltata e avrebbe trovato una soluzione logica e ragionevole.

Mi sbagliavo.

«Fammi finire. I documenti veri sono molto meglio di quelli falsi, ma procurarseli è quasi impossibile. Bisogna che sparisca o muoia qualcuno che ha un’età e un aspetto simili ai tuoi, e i familiari di quella persona devono organizzare lo scambio… non succede molto spesso. Ed ecco che adesso tu hai quel che vorrebbe ogni ebreo d’Europa: i legittimi documenti di una ragazza che ti somigliava tanto da poter essere la tua gemella, e una famiglia disponibile a coprirti».

Non credevo alle mie orecchie. Ero in piedi sull’orlo di un burrone, e le persone di cui più mi fidavo cercavano di spingermi nel vuoto. «Non voglio neanche sentirne parlare. Anneke è morta e io non riesco a immaginare la mia vita senza di lei! Non ricordo nemmeno l’ultima cosa che le ho detto. La rivoglio indietro, la rivoglio indietro e basta!» Sentii montare l’isteria, ma la ricacciai giù. «Mia zia è fuori di sé. Potresti tornare a casa insieme a me e aiutarmi?»

Lui mi ignorò, chiaramente ancora intento a riflettere su quella idea balzana.

«Isaak, non funzionerebbe mai. Non le somiglio nemmeno tanto, tra l’altro».

«E invece sì. Potreste essere gemelle. Avevate persino lo stesso…»

Tese una mano, quasi volesse toccarmi la nuca, là dove tenevo appuntata la treccia. Avevo un neo in quel punto, e anche Anneke, ma il suo era nascosto dai riccioli e Isaak non poteva saperlo.

«…colore» concluse. «Lo stesso colore di capelli. Ma lasciamo stare, non è questo il punto. Il punto è che qualcuno sa di te: quell’avviso era una minaccia. Tu te ne devi andare, e puoi disporre di documenti legali. Se non li vuoi, chiederò a tua zia di farli avere a qualcun altro. È questo quello che faccio io: e conosco almeno cinquanta donne che li prenderebbero all’istante e mi ringrazierebbero. Anzi, centocinquanta. Che non assomigliano per niente ad Anneke, ma che li prenderebbero sperando in una possibilità di sopravvivenza. Le cose peggioreranno, qui, Cyrla. Puoi negarlo quanto ti pare, ma è vero. E adesso i documenti ti serviranno. Potrei farteli avere dall’Olanda libera, ma ci vorrebbe una settimana e sarebbero comunque falsi».

«Isaak» lo interruppi, afferrandogli le mani. Feci un respiro profondo che mi tagliò a metà, come se fossi fatta di cenere e nulla più. Cercai di dissimulare il panico. «Ascolta, per favore. Non si tratta dei documenti. Mia zia è sconvolta. Vuole che io assuma l’identità di Anneke e progetta di mandarmi al posto suo in quella casa per ragazze madri – a Nijmegen – la settimana prossima! È questa la parte più… se prendessi i documenti di mia cugina, e se per miracolo mia zia riuscisse a convincere tutti che sono morta, non potrei sparire ad Amsterdam? Mi aiuteresti a farlo?»

Isaak si alzò e tornò alla finestra. «Mi ero dimenticato del Lebensborn. C’è una clinica a Nijmegen? Non lo sapevo. Quindi Anneke aveva passato le visite? Sì, potresti andare ad Amsterdam, ma sarebbe pericoloso. Perché se i tedeschi aspettano tua cugina, la settimana prossima, non vedendola si metteranno a indagare: ci tengono, ai bambini. Se tu non prendessi quelle carte, se potessi darle a un’altra donna, allora sì, le direi di sparire dentro una grande città, nella speranza di guadagnare tempo. Perché nessun’altra assomiglierebbe tanto ad Anneke da farsi passare per lei nella clinica per ragazze madri. Però, Cyrla, pensaci un attimo: fra tutti i posti in cui nascondersi, forse quello è il migliore. Vivere proprio in mezzo a loro, mentre loro si occupano di te. Circondata da medici e infermiere e da altre ragazze olandesi…»

Sussultai e mi allontanai, perché lui non mi vedesse ricacciare indietro le lacrime. «Smettila! Come fai anche solo a pensare di mandarmi in un posto del genere? Basta, non parliamone più».

Isaak mi si avvicinò da dietro, ma non mi sfiorò. Avrei tanto voluto che mi prendesse tra le braccia, e mi dicesse che ovviamente non mi avrebbe lasciata andare laggiù.

«Sarebbe solo per un po’, finché non riesco a organizzare qualcosa di più stabile. Penso ancora che la cosa migliore sia andare in Inghilterra, specialmente adesso; ma fino ad allora la clinica mi sembra un posto sicuro. Mi pare impossibile che i tedeschi si mettano a caccia di ebrei proprio là dentro. Anzi, potrebbe essere l’unico posto in tutto il paese dove non guarderebbero. Là ci sono dei dottori, non la Gestapo. Pensaci: i documenti di Anneke dicono non solo che lei è olandese, ma che possiede tutti i requisiti ariani per entrare nel programma. Saresti al sicuro lì, credo; e ricorda, sarebbe solo per qualche settimana, un mese al massimo».

Mi voltai a guardarlo. «Un mese? Isaak, mi stai chiedendo di provare a spacciarmi per Anneke, in quel posto, per un mese?» Mi morsi il labbro, ma inutilmente. Ricominciai a piangere.

Isaak mi asciugò le guance con la punta delle dita, e anche in quelle condizioni ne fui consapevole: era la prima volta che mi toccava. Ci erano volute le mie lacrime. «Ti sto dicendo che al momento non ho una soluzione migliore. E potrebbe volerci più tempo» aggiunse. «Nessuno può fare previsioni, oggigiorno. È meglio essere preparati».

Anneke non c’era più. Lo zio non c’era più. E anche la zia, a modo suo. Isaak non mi avrebbe aiutato; potevo contare solo su me stessa per uscirne. Poi mi resi conto che io sola bastavo.

Cominciai a ridere tra le lacrime. Non riuscivo a fermarmi. Ricaddi sul letto piangendo e ridendo. La risposta era rimasta lì tutto quel tempo, così ovvia che non l’avevamo neanche notata.

«Che c’è?» domandò lui, «che ti prende?»

«Oh, Isaak!» Mi asciugai le guance da sola, com’ero abituata a fare. Come avrei dovuto fare per il resto della vita. «Io non sono incinta!»

Poi smisi di ridere.