18.

Radunai le mie cose.

«Sta’ calma» disse Isaak. Ma si stava rivestendo in fretta pure lui. «Magari non verranno a guardare quassù».

Ma magari sì. La porta per la scaletta era nel retrobottega, e non ricordavo più se l’avevo chiusa o se avevo lasciato dei segni che potessero condurli là sopra.

Vetri che si frantumavano sul pavimento.

«Io scendo» dissi.

Isaak mi trattenne per un braccio. «No! Resteremo qui finché non se ne vanno».

Sentii altri vetri, e legno scheggiato. «Tu rimani. Io li mando via». Mi divincolai, afferrai la camicetta e corsi giù per le scale, abbottonandomi mentre scendevo.

Loro erano già dentro. Cercai di sembrare arrabbiata, mentre uscivo dal magazzino. «Che cosa volete?»

Erano due SS, non due uomini della Wehrmacht, e dalle uniformi vidi che si trattava di un capitano e di un altro graduato, un Oberschütze. Avevano rotto la finestra accanto alla porta, e il più basso in grado stava dietro al bancone e tirava fuori delle carte da un cassetto.

«Abbiamo una faccenda da sbrigare con Pieter Van den Berg. Dov’è?» L’ufficiale cercò di entrare nel magazzino, ma io mi ci piazzai davanti. Lo zio teneva i soldi là dietro, nascosti nella custodia vuota di una macchina per cucire.

«Non c’è. È via».

Troppo tardi mi resi conto di com’ero vestita: la camicetta mezza slacciata, niente sottoveste né calze. Incrociai le braccia sul petto, ma l’Oberschütze mi stava fissando: aveva le spalle larghe e un portamento possente, il taglio a spazzola così corto da sembrare quasi rasato, e un viso piatto e rossastro come una bistecca. Il suo sguardo mi spaventò, neanche fossi una prostituta a passeggio nel Vondelpark di Amsterdam. Feci un passo indietro.

«Quando torna?» chiese il capitano.

«Oh, domani» mentii.

Poi successe una cosa tremenda. Percepii una sensazione umida tra le gambe, dapprima calda e poi più fredda man mano che mi scivolava lungo le cosce nude. Quando mi resi conto di che cos’era mi vennero le lacrime agli occhi, ma le ricacciai indietro.

«Torni domani» raccomandai all’uomo.

«Abbiamo qui un ordine per seicento coperte. Sono pronte?»

Il fluido scivolò ancora più giù. Quanto ne lasciava, un uomo, dentro una donna? Abbastanza da tradire Isaak? «È andato a prendere un pezzo di ricambio per la macchina. Per il vostro ordine. Gli riferirò che siete stati qui».

L’ufficiale mi scansò per superarmi e l’altro soldato lo seguì. Stavolta non cercai di fermarli: sospettavano che mio zio avesse portato via la loro stoffa per venderla al mercato nero e pensavo che, se l’avessero vista ancora qui, si sarebbero ritenuti soddisfatti.

Il capitano tornò sulla soglia con una pezza in mano. «Prendi il resto e caricalo sul camion» ordinò all’altro mentre usciva.

Mi domandai preoccupata se avrebbero notato che mancavano due rotoli, e cominciai a escogitare una possibile spiegazione. Perciò non ero preparata a quello che successe a quel punto.

L’Oberschütze si fermò accanto a me e attese l’uscita dell’ufficiale. Quindi mollò la lana che aveva in mano e mi diede uno spintone per poi immobilizzarmi sul banco da taglio; con l’altra mano mi tirò su la gonna e mi afferrò il fianco. Quando scoprì che sotto non portavo niente si mise a ridere, e cominciò a strofinarsi con forza contro di me.

Tentai di divincolarmi, sgomenta all’idea che si accorgesse che ero appena stata con un uomo, e lottai per salire sul tavolo… dall’altra parte era appeso un paio di forbici. Una mano mi strinse il collo, e fiutai odore di olio per motori. Poi udii lo scatto della fibbia, lo strappo dei bottoni.

Mi morsi le labbra in modo da non proferire alcun suono che potesse spingere Isaak a scendere, tesi più spasmodicamente il braccio e trovai le forbici; poi m’inarcai all’indietro e gli puntai la lama scoperta contro la gola, più forte che potevo.

«Troia!» Mi fece saltare di mano le forbici, arretrò e alzò le mani contro di me.

D’un tratto l’ufficiale rientrò nel negozio. «Levati di lì!» gridò, strappandomi il soldato di dosso. «Animale! Questa è incinta, va al Lebensborn».

Il soldato allentò la stretta e mi lanciò un’occhiataccia, tutto sudato e paonazzo in volto, risistemandosi l’uniforme. Poi prese da terra la lana che aveva lasciato cadere.

Arretrai contro il bancone, temendo che le gambe non mi reggessero. L’ufficiale si sporse e mi tese una mano. «Sta bene?»

Respinsi la mano: pareva che si aspettasse di essere ringraziato. Aveva detto al sottoposto di lasciarmi stare perché portavo in grembo un bambino tedesco, come se quello fosse l’unico motivo per cui non dovevo essere violentata. Non avevo la minima intenzione di ringraziarlo.

«Dica a suo padre che torniamo domani, e sarà meglio che abbia qui quel ricambio». L’ufficiale raddrizzò la schiena e fece cenno all’altro di andare.

«Aspetti» replicò quello. «Controlliamole i documenti».

Allungò una mano verso il mio collo. Mi vide guardargli schifata le dita, nere d’unto, e sorrise, poi se le ripulì lentamente sulla mia camicetta, sopra il seno. Gli allontanai la mano con uno schiaffo e gli sputai in faccia; allora lui arretrò e di nuovo alzò il braccio, e di nuovo l’ufficiale lo fermò, stavolta mettendo mano alla pistola.

«Nein» disse poi. «La conosco, avevo visto una foto. È la figlia di Van den Berg».

Se ne andarono, non senza che il soldato esitasse sulla soglia quanto bastava a gettarmi un’occhiata di puro odio, come se tutto il male del mondo fosse colpa mia. Mi accasciai sul pavimento.

Isaak venne giù dal tetto – aveva spiato la partenza dei due – e mi trovò così. Si accovacciò vicino a me. «Cos’è successo?»

Distolsi lo sguardo per potergli mentire. «Si sono presi la lana».

Lui accennò alla baraonda di carte sul pavimento, le forbici e tutto quello che era caduto durante la colluttazione. «Gli hai tenuto testa? Per un po’ di stoffa?»

Posò lo sguardo sulla stria di grasso sopra il mio petto e io mi voltai di nuovo, cercando di non piangere.

«Che stupidaggine, Cyrla!» Scosse il capo. «Non sai di cosa sono capaci, non ne hai idea. Le regole le fanno loro, e non c’è nessuno a impedirglielo. Pensa a che cosa poteva succedere».

«Non è successo niente, Isaak. Se ne sono andati. Volevano le coperte e cercavano mio zio».

Isaak guardò fuori dalla finestra, riflettendo. «Ma torneranno domani e, se tuo zio non c’è, verranno a casa tua. E tuo zio… sarebbe meglio se non ti trovassi là. Quando fa buio, verrai a casa con me. Avviserò tua zia».

Annuii, grata per la sua calma, la sua logica e il fatto che avesse smesso di interrogarmi. Mi avvolse nel proprio cappotto e mi aiutò a tornare sul tetto, dove ci sedemmo di nuovo sul velluto ad aspettare che calasse la sera. Ogni volta che mi si faceva strada nella testa il ricordo di ciò che aveva tentato di fare il soldato, lo cacciavo via. Ma una volta non fui abbastanza rapida, e mi misi a pensare a quello che sarebbe potuto accadere: e se fossi rimasta incinta di lui? Mi sfuggì un grido, e Isaak mi chiese cos’avessi. «Niente» risposi, e mi sentii sciocca per aver permesso che una cosa che avevo solo immaginato mi ferisse. In qualche modo, avrei dovuto cancellare l’aggressione dai miei ricordi di quella giornata. Oggi io e Isaak abbiamo fatto l’amore… ecco che cos’è successo oggi.

Più tardi osservammo il tramonto del sole sulla chiusa di Schiedam e mangiammo le cose che ci aveva preparato la zia. Lessi a Isaak la poesia sul bacio e, mentre lo facevo, fui colta dall’improvvisa certezza che quella non era stata la sua prima volta. Non capivo come facessi a saperlo, ma lo sapevo. Lui era già stato con una donna. Ero la sua amica più cara da quando aveva sedici anni e non me n’ero mai accorta. Cercai di mantenere la voce ferma mentre terminavo la poesia, ma la gola mi doleva come se me l’avessero tagliata. Anche questo avrei dovuto cancellarlo dal ricordo di quel giorno.

Prima di andare via incisi con i denti due tacche nell’angolo del velluto su cui ci eravamo sdraiati, e ne strappai un quadratino da conservare. Lo riposi sul fondo del paniere, poi presi il tesserino di legittimazione e me lo riappesi al collo, dando le spalle a Isaak. Avevo capito che la gioia non cascava dal cielo, non era una cosa da sperare: la gioia bisognava rubarla.