22.

Venerdì. Per la prima volta Isaak si era addormentato accanto a me nell’angusta brandina, la sua coscia lunga e rigida tra le mie, molto più morbide. Pensavo che sarei potuta rimanere così per sempre, pelle a pelle contro di lui, con l’alito a scompigliargli dolcemente i peli del petto e la pioggia che batteva dura contro il vetro, con un rumore di sassi. Ma Isaak si destò e si mise a sedere sul bordo del letto.

«Non te ne andare» gli dissi. «Non andare al lavoro. Ci rimane pochissimo tempo».

Lui si sfregò il viso per svegliarsi. «Torno dopo avere sbrigato qualche commissione. Abbiamo ancora una settimana».

Se ne andò, e l’attesa del suo ritorno fu resa ancor più triste dal temporale.

Mi sedetti al suo tavolo perché volevo scrivere a mio padre, ma ci provai due volte e per due volte stracciai il foglio. Che cosa potevo raccontargli di tutto questo? Feci un terzo tentativo e cercai di essere breve, affinché non potesse leggere tra le righe o intuire che mentivo.

Caro papà,

ho una notizia da darti, ma devi promettermi di non rattristarti né preoccuparti. Sto per lasciare Schiedam: è solo per precauzione e solo per poco, ma probabilmente avrai sentito che qui vigono maggiori restrizioni, adesso. Io e Isaak abbiamo pensato fosse meglio che mi allontanassi per un po’, e abbiamo trovato un posto sicuro. Come sempre, spero tanto che voi due possiate conoscervi presto: lui ti piacerà immensamente, e avrebbe fatto un’ottima impressione anche alla mamma.

Per certi versi mi sento meglio così, sapendo che se voi vivete nascosti e vi sacrificate per rimanere al sicuro, ora lo faccio anch’io; in questi ultimi anni ho condotto un’esistenza tanto comoda che ho cominciato a sentirmi in colpa.

Ti prego di scrivermi e dirmi come state voi tutti… non ho più notizie da tanto tempo, ed è dura non sapere nulla. Potete usare lo stesso indirizzo di sempre, zia Mies saprà come farmi recapitare la lettera. Qui stanno tutti bene e vi salutano. Tanti baci ai miei fratellini, che ormai saranno diventati due fratelloni: Levi va per i nove anni… quanto vorrei rivederlo. E non mi riesce di credere che il piccolo Beniamin ne abbia già sette. La guerra è quasi finita, e quando terminerà io tornerò da voi.

Con tutto il mio affetto, tua figlia,

Cyrla

Posai la penna e subito le mani trovarono il ventre piatto e vuoto e tuttavia, forse, già così pieno. Non ero più l’ultimo anello nella catena della mia famiglia, e anzi, chissà, forse adesso lo portavo raggomitolato dentro di me. Al sicuro. Strappai la lettera.

Quel pomeriggio riposai, camminai avanti e indietro, lessi e mangiai le provviste che Isaak mi aveva lasciato. Anneke mi mancava moltissimo, come se mi fossi resa conto davvero, per la prima volta, che non c’era più. Piansi fino a pensare di non poter piangere mai più, e poi piansi ancora: se solo non l’avessi lasciata… Avevo dato tutto per scontato, l’avevo lasciata sola, e lei aveva ceduto.

Feci il giro della stanza, improvvisamente ansiosa di lasciarvi una mia impronta. E se avessi spostato la lampada a stelo? Riordinato i libri di Isaak? Alla fine tolsi dal muro le stampe di Leonardo e le rimisi a posto in un ordine diverso. Poi pensai a dove sarei stata quando lui se ne sarebbe accorto, e la paura mi prese allo stomaco.

Al suo rientro gli dissi che in quel posto non ci sarei andata. «Resto qui finché non mi avrai organizzato il passaggio. O finché non mi trovi un corredo di documenti falsi, così posso rimanere nei paraggi».

Lui sedette alla scrivania e si mise a sfogliare una pila di carte. Si cavò di tasca un paio di occhiali, li inforcò, poi se li tolse e si sfregò gli occhi. Alzò lo sguardo verso le stampe, serrò le labbra per un attimo ma non disse nulla. Aveva l’aria stremata.

«Isaak, mi hai sentito?»

«Tanto per cominciare, qui non puoi rimanere. È il posto più ovvio in cui venirti a cercare».

«Ma nessuno sa che sono scomparsa. Sono morta, ricordi?»

«Lo sa tuo zio. Non resterà a lungo lontano da casa, e io ho messo qualcuno a sorvegliare casa e bottega. Anche i tedeschi sorvegliano il negozio. Non è tornato, ma tornerà, e verrà a cercarti qui».

Montai sul letto e mi appiattii in un angolo, con le spalle al muro, perché non riuscisse a piegarmi. «Non mi cercherà, sarà contento di non vedermi più. Isaak, si tratta della mia vita, devo scegliere io».

Lui si guardò le mani posate sulle ginocchia e allargò le dita. «Ne abbiamo già parlato: non hai scelta. Se Anneke non si presenta, la cosa desterà troppo scalpore».

Non mi piaceva il tono della sua voce, neanche fossi una bimba cocciuta. «Isaak, non funzionerà. Si accorgeranno subito che non sono Anneke… gli occhi! Tante Mies diceva sempre che erano scuri come il mare d’inverno, mentre quelli di Anneke erano chiari come il mare d’estate! Tu hai detto che le hanno misurato il colore degli occhi…»

Isaak si chinò sul cestino della carta e ne trasse le mie lettere strappate. Spalancò gli occhi quando vide la parola “papà”.

«Dimmi che non è vero».

«Infatti. Mi sono resa conto che era un rischio. E poi non saprei più da dove inviarle».

«Tu non ti rendi conto…»

«Non dirlo!»

«Ma devo! Tu credi di poter semplicemente evitare di presentarti in quel posto? Che non ci saranno problemi se i nazisti scoprono che Anneke è morta, ma che sua cugina sta usando i suoi documenti e, oltre tutto, è pure ebrea? La settimana scorsa ci sono state delle retate a Twenthe e a Enschede! Lo sapevi?»

«Isaak, smettila».

«Li hanno portati al campo di lavoro di Westerbork. Ma non ci resteranno a lungo, li manderanno ad Auschwitz. E lo sai che cosa succede dopo? Abbiamo appena ricevuto un rapporto… li uccidono col gas».

«Non è vero. Non può essere vero».

«Non ci sono conferme, ma non possiamo più chiudere gli occhi… lo sappiamo che ammazzano la gente, in quei campi! Tu vuoi correre quel rischio? Pensi di correre quel rischio con il tuo bambino? Con il mio bambino?»

Lo fissai inferocita.

Lui cedette e per un po’ rimase a sedere immobile. «Hai ragione, ho esagerato. Ma tu devi capire che corri un rischio troppo grosso se non ti presenti. E ci sono altre persone coinvolte».

Incrociai le braccia e mi appoggiai di nuovo al muro. «È solo che non riesco più a controllare niente».

Dopodiché restammo a sedere in silenzio per qualche istante. Poi Isaak tirò fuori da sotto un fastello di libri il pacchetto che gli aveva dato la zia, e venne a sedersi sul letto. «Diamo un’occhiata qui, è ora che ne parliamo». Aveva un tono conciliante, e io mi lasciai ammorbidire. Era così che Isaak dimostrava il suo amore: paventando il peggio che poteva accadere e occupandosi di tutto.

Svolse i documenti, scelse una busta e mise da parte il resto. L’accordo tra Anneke e la clinica Lebensborn: Isaak me lo fece leggere tenendomelo davanti agli occhi, come se sapesse che non sarei riuscita a prenderlo in mano.

«Vedi» disse poi, «qui non si parla del colore degli occhi, né di connotati. Quelle informazioni sono schedate. È importante che impari i nomi scritti in fondo: c’è il nome di una donna, e immagino sia stata lei a compilare la pratica per l’ammissione di Anneke. Evitala, se puoi. E vedi quest’altro nome, Inge Viermetz? È la responsabile di tutti i centri Lebensborn fuori dalla Germania ma, come puoi vedere, c’è solo un timbro, quindi non credo che la troverai lì».

«Come fai a sapere tutte queste cose?»

«Ho chiesto a un mio contatto tedesco come funzionano le cliniche Lebensborn. Le informazioni che ho avuto ieri vengono da quella di Klosterheide, vicino a Berlino, ma mi sorprenderei se le procedure non fossero identiche ovunque. I nazisti sono così, uniformi in tutto. Ad ogni modo è il massimo che possiamo fare, e ora ascolta. Devo dirti un sacco di cose.

«Quando una ragazza fa domanda per entrare, loro la sottopongono a molti esami. Anneke li ha già passati tutti, lo sappiamo. Qui c’è il nome del dottore; sarà meglio che tu stia lontana anche da lui. Però ascolta: nel centro di Klosterheide, quanto meno, le ragazze non subiscono più altre visite fino al sesto mese, e per allora non sarai più lì».

«E se qualcuno si accorgesse comunque che non sono la persona che ha visto la settimana prima?»

«La gente vede quello che si aspetta di vedere. Laggiù si aspettano di vedere Anneke, venerdì, e tu devi solo dargli quello che vogliono».

«Ma il mio accento, Isaak…»

«Lo so, ci ho pensato. Il personale è tutto tedesco, però, e in clinica parlerai tedesco. L’hai imparato qui, no? Dovrebbe funzionare».

«E come farai a tirarmi fuori da lì?»

«Manderò una lettera. Verrà dalla madre di Anneke, e dirà che il melo è stato abbattuto dal vento. Il giorno e l’ora in cui è caduto – lunedì a mezzogiorno, per esempio – saranno il giorno e l’ora in cui partirai. La direzione da cui proveniva il vento, sarà la direzione che prenderai. T’incamminerai per una passeggiata in giardino, e qualcuno verrà a prenderti. Hai capito?»

Presi i documenti e li misi da parte. «Io lo so cosa succede se lasci sole le persone».

«Ti chiederei di far questo anche se fossi mia sorella. E giuro che verrò a prenderti nel giro di qualche settimana… un mese al massimo, posso quasi prometterti che non sarà più di un mese. Ma già che ci siamo, pensi che… pensi di essere incinta?»

Ero arrabbiatissima con lui perché era in grado di paragonarmi a una sorella.

«È troppo presto per dirlo. Tuttavia, Isaak…» Cercai di sostenere il suo sguardo mentre facevo scivolare la mano in basso, ma lui chiuse gli occhi.

«Aspetta» disse, «dobbiamo parlare di altre cose. Voglio prima finire».

«Isaak, io non sono tua sorella».