Trascorse tutta la settimana. Proprio nel bel mezzo, Isaak partì per due giorni di incontri ad Amsterdam e io temetti di impazzire per la solitudine. Non vedevo l’ora che tornasse ma, quando arrivò, fu come se avesse perduto per strada una parte di sé. Se gli facevo una domanda rispondeva, ma diversamente non mi rivolgeva la parola. Ogni sera facevamo l’amore sulla branda, ma anche quello nel più assoluto silenzio. Mi mordevo le labbra per non scoppiare a piangere.
E poi chissà come venne il mercoledì, la vigilia del nostro ultimo giorno. Mi destai squassata da un desiderio di lui che era una fame, e d’un tratto capii: ero incinta. Dovevo esserlo: avevo percepito una specie di scarto nell’intimo, come se nel profondo mi fosse cresciuto un secondo cuore. Ancora una volta Isaak doveva partecipare ad alcune riunioni; nel giro di quarantott’ore sarei stata su un treno diretto a Nijmegen, non l’avrei visto per settimane e la sola idea mi rendeva famelica. Mi buttai sul suo materasso, scostai la coperta e lo cercai con la bocca.
Lui si svegliò e mi spinse via, poi si allontanò e mi guardò come se non mi conoscesse. Be’, come poteva… nemmeno io mi riconoscevo. O meglio, no: la persona che ero stata prima di quella settimana, era lei l’estranea. Una che non sapeva niente di niente, che non portava un bambino in grembo. Mi sdraiai sul suo petto e riavvolsi entrambi nella coperta, ancora sopraffatta dal mio bisogno di lui. «Isaak». Non c’era altro da dire: e certo lui mi avrebbe chiamata per nome, ora. Non lo fece, ma sentii il suo corpo che s’irrigidiva.
«Va tutto bene». Alzai la testa per sorridergli. «Sono incinta».
Mi scrutò per un istante. «Come lo sai?»
«Lo so e basta».
«Be’… bene. Mi fa piacere». Ma non ricambiò il sorriso. Scivolò via da sotto il mio corpo e si alzò, per poi sedersi sul letto. Si reggeva la fronte con le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia, la posizione che assumeva quando era preoccupato. «Che cosa vuoi?» mi chiese. «Che cosa vuoi?»
Mi alzai e feci per sedermi accanto a lui, ma d’un tratto mi accorsi che a ogni mio tentativo di avvicinarmi lui si allontanava di più. Allora mi drappeggiai addosso la coperta e andai verso la finestra. «Te».
Pregai che si alzasse e venisse da me. Invece distolse lo sguardo e nel mio petto si schiuse un freddo, rigido seme di paura.
«Non è per questo che l’abbiamo fatto».
Mi bruciava la faccia. Attraversai la stanza d’un balzo e mi inginocchiai di fronte a lui. «Isaak, io ti amo. Cosa c’è di tanto difficile? Anche tu mi ami».
Gli presi il viso tra le mani e vidi che si ritraeva, pieno di rimpianto.
«No». Allontanò da sé le mie mani e sospirò. «Per amor del cielo, Cyrla, non rendere le cose… se potessi amare qualcuno, saresti tu. Dovresti essere tu. Ma non posso. Non adesso».
A quel punto la paura si gonfiò fino a riempirmi il petto, una pressione contro le costole che mi impediva di respirare. Anni prima ero uscita con un’amica sulla barca da pesca di suo padre; si era alzata una burrasca, e io e lei avevamo passato tutto il pomeriggio sotto coperta in preda al mal di mare e al terrore, sballottate di qua e di là in quella tana oscura. Ora mi sentivo di nuovo così, scossa da colpi di cui non vedevo la provenienza e incapace di trovare un appiglio.
Ma poi fu Isaak a gettarmene uno.
«È colpa della guerra» disse. «È troppo pericoloso avere dei legami, delle complicazioni».
«Complicazioni? Oh, Isaak. È troppo pericoloso non amare nessuno, ora». Lo presi per mano e mi sedetti accanto a lui. «Amare qualcuno ti dà una ragione di vita: altrimenti che motivo avresti di fare tutto il lavoro che fai? Perché aiuti la gente a scappare, se non perché possa vivere la propria vita? Questo significa amare le persone».
«Ho fatto quello che ho fatto perché tu potessi prendere il posto di Anneke. Nient’altro». Isaak distolse lo sguardo dai miei occhi e dall’accusa che contenevano. «E va bene. Sì, volevo un bambino. Casomai…»
«Ma chi lo crescerà questo bambino, Isaak? Quando la guerra sarà finita verrai a prendermi in Inghilterra, no?» La paura era ormai diventata rigida e immensa in gola, ma dovevo chiederglielo. «Torneremo qui e metteremo su famiglia. Non sono questi i tuoi progetti?»
«Ma perché non riesci mai a vedere le cose come sono? Perché non apri gli occhi e guardi?» rispose lui alzando la voce, improvvisamente brusco. «È pericoloso progettare qualunque cosa, in questi tempi. La speranza nel futuro è un ostacolo, rende vulnerabili. Io non progetto proprio niente».
«Tu sbagli tutto! La speranza rende forti. Quando la guerra sarà finita…»
Isaak si stava vestendo in fretta. «Quando la guerra sarà finita tu sarai al sicuro, e anche il bambino. È questo che faccio, adesso. Se poi sarò ancora qui, farò tutto il necessario per te e il nostro bambino. Ma non penserai davvero che sarò ancora qui, eh? Sono ebreo, e sono visibile. Sarò il primo a sparire».
«Ma fai parte del Consiglio».
Lui scosse il capo. «Due settimane fa, a Duba˘sari, in Moldavia, hanno pubblicamente impiccato alcuni uomini che si erano rifiutati di entrare nel Consiglio ebraico. Ma pochi giorni dopo, a Piotrków, in Polonia, hanno giustiziato undici membri del Consiglio accusati di collaborare con la resistenza. Non importa: in un modo o nell’altro, noi siamo semplicemente più visibili».
«E allora smetti di fare quello che fai. Da morto non puoi aiutare la gente, Isaak. Vieni con me in Inghilterra, subito. Organizza tutto… io ho bisogno di te!»
«Molto meno di altri. Questo è il mio posto».
«Anche questo è il tuo posto». Mi alzai, lasciai cadere a terra la coperta e mi posai la mano di Isaak sul ventre. Lui cercò di ritrarla, ma io la tenni ferma. «No. Guardaci. Abbiamo bisogno di te. In Inghilterra c’è tutto il nostro governo… potresti agire da là».
«Questo è il mio posto» ripeté lui. «Questo è il mio popolo. Non lo abbandonerò».
Abbandonerai me, invece? Il nostro bambino? Non lo dissi ad alta voce, ma sapevo che Isaak aveva sentito. «Hai detto che, se potessi amare qualcuno, quella sarei io. E Anneke mi ha detto che ci vuole molto coraggio per amare qualcuno. Io credo che tu voglia diventare un eroe per non dover essere coraggioso. Isaak, sii coraggioso, adesso».
In quel momento, con la mano di Isaak premuta sulla pancia, sentii la nostra famiglia che nasceva. Ma poi lui la ritrasse e si voltò per mettersi le scarpe.
«Hai ragione» disse senza guardarmi. «Io non sono coraggioso. Ma tu sì. E questo è esattamente il motivo per cui non funzionerà mai tra noi, nemmeno se la guerra finisse domani. Non lo capisci?»
La stanza si mise a girare mentre la mia vita ci precipitava dentro. «Capire cosa, Isaak? Capire cosa?»
Lui raggiunse la porta, poi si voltò. «Questo: che io disegno uccelli, e invece tu voli».
Isaak rimase lontano da me tutto il giorno e tutta la notte, anche quando era presente, come se dietro ai suoi occhi vivesse qualcun altro. Non mi sfiorò e a malapena proferì parola. Nel più assoluto silenzio mi guardò rimettere le stampe nell’ordine originale.
Quando alle due se ne andò, diretto all’ennesima riunione, mi ammonì come al solito di non uscire, ma le parole suonarono dure e fredde, gettate contro di me come sassi. Non risposi.
Tornò portando con sé un barattolo di minestra e un filone di pane nero e acido. Mangiammo in silenzio. Una sola volta le nostre dita si sfiorarono, per aver teso la mano nello stesso momento per prendere un pezzo di pane, ed entrambi la ritraemmo di colpo, come se si fosse scottata. Secondo Anneke, una volta fatto l’amore sarebbe stato come se i nostri corpi dicessero: “Ti conosco, ti conosco”: ma si sbagliava.
Dopo mangiato Isaak mi riferì qualche notizia sul pomeriggio trascorso, cose che avrebbe potuto dire a un estraneo. Di nessuna importanza. Ma poi, alla fine, proprio mentre ci preparavamo per andare a letto, d’un tratto disse: «Anneke».
Gli sorrisi, contenta che avesse voglia di parlare e che stesse pensando a mia cugina. «Sì» dissi, «ci penso tantissimo anch’io. Mi manca moltissimo».
«Anneke!» ripeté lui.
Quando mi resi conto di cosa stava facendo gli diedi uno schiaffo. Schiaffeggiai quel viso che amavo più di ogni altro. «Non chiamarmi così!»
«Dovrai abituarti. Non puoi permetterti errori».
«Andrà tutto bene. Risponderò come si deve. Ma tu non chiamarmi mai più così, Isaak».
Allora mi sentii libera, come se non m’importasse più nulla di quel che sarebbe accaduto. Non perché fossi al di sopra della preoccupazione, ma come se fossi caduta troppo in basso. Una volta perduto Isaak, e perduti tutti gli altri che avevo lasciato, non avevo più nulla di prezioso da perdere.