25.

«Dove sei stata? Potevano vederti! Lo sai che stupidaggine…»

Isaak mi guardò in faccia e la rabbia nei suoi occhi si tinse di preoccupazione, ma appena una sfumatura. Tese la mano verso la mia bocca; mi premetti il palmo sulla spaccatura sul labbro e, quando Isaak lo spostò, sopra c’era un cuoricino di sangue.

Il calore e la luce della stanza mi diedero le vertigini: crollai sulla branda e mi misi a fissare quel segno, confusa. Sentivo Anneke vicina, che mi baciava il palmo della mano col suo rossetto scuro. Che cosa aveva detto? Che avremmo avuto dieci figli a testa e saremmo vissute per sempre felici e contente? D’un lampo la vidi sotto terra, sepolta in profondità: terriccio fra i capelli, terriccio sui suoi bei denti, regolari e candidi come zollette di zucchero. Terriccio a riempirle le narici, al punto da non respirare più. Anche Anneke aveva smesso di lottare. Alzai lo sguardo su Isaak e lui parve tremare dinanzi a me, ma solo a causa delle lacrime che mi riempivano gli occhi.

«Che c’è, cosa ti è successo?»

«Non riuscivo a respirare» mi sentii dire. Poi mi girai dall’altra parte.

«Ma che dici? Quando?» Mi sfiorò il mento perché mi voltassi, e io feci una smorfia. «Cos’è successo?» chiese nuovamente. Mi sollevò la mandibola. «Hai un segno, qui. E un altro sul collo». Si chinò e mi spazzolò via la sporcizia dalle ginocchia. «Sei caduta dalla bici?»

Gli tesi le mani, mi accorsi che tremavano e le lasciai ricadere. «Devo lavarmi». Non potevo dire a Isaak cos’era successo; sì, avevo paura che sarebbe andato a cercare il soldato. Ma avevo ancora più paura che non l’avrebbe fatto. Mi ritrassi da lui. «Devo lavarmi».

Si sentì bussare. Isaak fece per andare alla porta, ma quella si aprì prima che ci arrivasse. Sulla soglia c’era il rabbino Geron. Non disse nulla della mia presenza, si limitò a guardarmi per un istante con aria interrogativa, poi disse a Isaak che lo volevano al telefono.

Isaak lo seguì, io invece presi i suoi asciugamani e me li portai in bagno. Aprii al massimo il rubinetto dell’acqua calda e, mentre la vasca si riempiva, inumidii una salvietta e cominciai a strigliarmi via di dosso il soldato. Via dal mio bambino, lontano da tutti e due.

M’infilai nella vasca e sprofondai sotto la superficie finché il peso dell’acqua non divenne una mano guantata sulla faccia e non riuscii più a respirare, e allora schizzai fuori all’aria, boccheggiando. Mi strofinai con la spugna dura e il sapone sabbioso fino a quando i tagli presero a bruciarmi e i lividi a pulsare, e ogni parte del corpo toccata da quell’uomo non fu rossa e congestionata.

Ma non servì a niente.

Quando tornai in camera, capii dall’espressione di Isaak che ormai sapeva tutto.

«Era l’uomo che avevo messo a sorvegliare il negozio».

Mi chiusi la porta alle spalle e mi ci appoggiai contro. «Ha visto?»

«Ha visto».

«Ma non ha…»

«E cosa poteva fare? Tu non avresti mai dovuto…»

«Zitto! Non osare!»

Isaak mi fissò a lungo. Lo vidi affannarsi tra le cose che avrebbe voluto dire. E quelle che non poteva dire.

«Ti serve un dottore?» chiese infine.

«No». E allora compresi: non era la giornata sul tetto che avrebbe diviso in due la mia vita, in un prima e un dopo: era oggi. Ma a partire da domani non avrei più vissuto la mia vita, e quello che era accaduto stasera non era successo alla persona cui stavo per rubare l’esistenza. «Mi serve un ago».

«Ma ti senti bene…»

Lo respinsi con un gesto. «Trovami un ago».

Lui fece una faccia perplessa, ma se ne andò e tornò qualche istante più tardi con un ago e un po’ di filo nero. Posai il filo sul letto, porsi l’ago a Isaak, poi m’infilai la mano in tasca e gli diedi anche gli orecchini di Anneke.

«Guarda che farà male» mi ammonì.

«Ma io lo voglio».

Isaak accese un fiammifero e scaldò alla fiamma prima la punta dell’ago e poi gli orecchini. «Questo qui è rotto» disse. «È rovinato, mi sa».

Sollevai il minuscolo orecchino. La pietra mancava, e la filigrana d’oro intorno alla montatura era rimasta schiacciata. «È rotto, ma non è rovinato». Glielo resi e, quando Isaak m’infilò l’ago rovente nel lobo dell’orecchio, non sentii nulla.

Stentai a dormire. Continuavo a ripetermi che ero già incinta, l’avevo capito con certezza. Quando l’alba illuminò la stanza sgusciai fuori dalla branda e mi sedetti sul davanzale con il quadratino di velluto che avevo recuperato dal tetto. Quella giornata sembrava lontanissima. Con il velluto confezionai un semplice borsellino, e usai lo spago che teneva legati i documenti di Anneke per farne una coulisse. Tolsi ogni cosa dalla tasca del cappotto: il fazzoletto e lo smalto di Anneke, i gioielli e il fermacapelli di mia madre, la lettera di mio padre. La busta era spiegazzata e segnata da una pesante impronta di stivale. La strappai e la gettai via, poi piegai la lettera in quattro e riposi tutto nel borsellino. Presi anche una matita da disegno dalla scrivania di Isaak e infilai dentro pure quella, poi mi appesi il borsellino al collo e mi vestii. Dopo quasi vent’anni di vita, quello era tutto ciò che avevo di prezioso.

Isaak si svegliò e mi venne vicino.

«Stai bene?»

Lo guardai, troppo amareggiata per rispondere.

«Voglio dire… sei in grado di viaggiare?»

Annuii e mi sfregai gli occhi con i pugni chiusi. Poi mi voltai, mi spruzzai il viso e i lobi irritati con l’acqua della brocca, e riposi la camicia da notte nella valigia preparata dalla zia. Isaak tentò di discorrere con me a proposito di piccole cose, particolari che dovevo ricordare, lo svolgimento della giornata. Lo zittii. Qualunque cosa stesse per succedere, era ormai fuori del mio controllo, e anche del suo. «Tu vieni a prendermi e basta» conclusi.

Uscii che ancora non era giorno e m’incamminai verso la fermata del tram per Scheveningen. Sul tram c’erano dei soldati e, ogni volta che ne guardavo uno, sentivo odore di olio da motori e mi si mozzava il respiro. Feci tutto il percorso con gli occhi chiusi, stringendomi al petto il borsellino di velluto.

Isaak mi aspettava alla stazione con la valigia. Fingemmo di non conoscerci. Solo poco prima della partenza del treno per Nijmegen lui mi si avvicinò con noncuranza e mi piazzo la valigia davanti.

«Che il Signore ti accompagni» disse. «Vengo a prenderti presto. Ricorda: riceverai una lettera, e poi ci ritroveremo».

Non risposi perché d’un tratto le mie labbra si struggevano per baciarlo, e non mi mossi perché le braccia volevano stringerlo per sempre.

«Verrò a prenderti presto, te lo prometto» ripeté.

Presi la valigia e salii a bordo, scegliendomi un posto dall’altro lato della carrozza in modo da non poter controllare se Isaak sarebbe rimasto a vedermi partire. Mi appoggiai al finestrino e guardai davanti a me: nuvole grigie gravavano sull’orizzonte, dolenti di pioggia.