26.

Piovve per tutto il tragitto. Accanto ai binari, fossi e crateri di bombe si riempivano di acqua bruna, creando un fangoso alfabeto Morse di punti e linee che scivolava oltre i sudici finestrini del treno. Alla stazione mi sedetti su una panchina che guardava i campi inondati, pensando che nulla era più triste della pioggia in una stazione ferroviaria. Ma mantenni gli occhi asciutti: a che mi servivano le lacrime?

Quando arrivarono due soldati tedeschi mi portai di scatto la mano al labbro tagliato e mi sentii raggelare. Ma naturalmente lui non c’era. Quel lui – l’Oberschütze – non l’avrei rivisto mai più. Questi erano due sergenti, che mi notarono e vennero verso di me. Finalmente un buon segno: avevo passato il primo esame.

«Anneke Van den Berg?» chiese uno.

«Sì» risposi, sollevata dalla bugia.

Lui mi gettò un’occhiata dubbiosa all’altezza dei fianchi ma prese i documenti mentre l’altro, più alto e con la faccia lunga, afferrava la valigia. Li seguii fino alla macchina e mi sedetti dietro con la valigia; davanti, i due militari parlavano di gomme nuove che dovevano arrivare… o meglio, parlava quello che guidava, mentre Faccialunga si limitava ad annuire o a concordare, benché fossero di pari grado. Rimasi ad ascoltarli, ancora guardinga, cercando di convincermi che adesso ero Anneke, circondata dalla grazia, non dal pericolo.

Ma non ci credevo.

Gli alberi ci passavano accanto in una nebbia di foglie scure, percorsa da scrosci color peltro. Stava arrivando l’inverno, ma per allora io sarei stata al sicuro altrove. Si trattava solo di poche settimane. Comunque facevo fatica a respirare. Dopo un quarto d’ora circa, scorsi un segnale che indicava il confine.

«Scusate» feci, interrompendo i due che mi guardarono, quasi sorpresi che fossi ancora lì. «Nijmegen l’abbiamo già superata».

L’autista mi lanciò un’occhiata nello specchietto, poi fece spallucce.

«Abbiamo superato Nijmegen! Dove stiamo andando?»

«A Steinhöring. Fuori Monaco». Lo disse come se si aspettasse che ne fossi al corrente.

«No. C’è un errore. Io devo entrare nella clinica di Nijmegen».

L’altro si voltò verso di me. «Quale clinica di Nijmegen?»

«La clinica di Nijmegen! Devo presentarmi oggi».

Faccialunga scosse il capo e rise. «Là non c’è nessuna clinica. Si parla di costruirla, ma per adesso non c’è niente. Chi gliel’ha detto?»

«Mio… mio padre. Tornate indietro, per favore. C’è stato uno sbaglio».

Il soldato prese un fastello di carte dal sedile accanto e me lo sventolò davanti. «Steinhöring. Non c’è nessuno sbaglio».

Il cuore prese a martellarmi così forte che ero certa che lo avrebbero sentito, non fosse stato per il rombo del motore. «Ma è lontanissimo. Io non posso lasciare l’Olanda» dissi, capendo immediatamente quanto suonassi illogica e disperata. «La mia famiglia» ritentai. «Nessuno saprà dove sono…»

«Può scrivere» rispose lui.

Ci eravamo messi d’accordo: niente lettere. L’indirizzo di Isaak non era sicuro, e la zia non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasta via, né quando sarebbe tornato lo zio.

«No, tornate indietro! Ho cambiato idea!»

Faccialunga si girò di nuovo. Posò il braccio sul finestrino accanto a me, così vicino che vidi la peluria sul dorso della mano e una sottile cicatrice bianca sul pollice. Mi ritrassi di scatto.

«Noi abbiamo l’ordine di portarla a Steinhöring. Ed è quello che faremo». Il tono ammonitore della sua voce riscosse anche l’autista, e i due si scambiarono un’occhiata.

«Faremo tutta una tirata senza fermarci» spiegò poi l’autista. «C’è un cestino, dietro, ed è roba migliore di quella che mangiamo noi». Quindi accelerò. Per un istante pensai di aprire la portiera – di correre il rischio e buttarmi fuori – ma ormai eravamo sulla strada principale.

Perché mio zio aveva detto ad Anneke che sarebbe andata a Nijmegen? I tedeschi gli avevano mentito? Oppure… un padre poteva davvero essere così arrabbiato con la figlia da volerla bandire dal suo paese?

Le mie domande correvano insieme al paesaggio.

Troppo presto raggiungemmo il confine. Ci fermammo solo un momento, mentre una guardia in uniforme color fango si chinava verso l’abitacolo, diceva due parole e ci controllava i documenti. Rimpiansi di non aver portato con me un ricordo da Schiedam: un sasso, un rametto, qualunque cosa. Adesso avrei potuto stringerlo nella mano come un amuleto, fino a farlo sparire nella carne.

Ero in Germania. E Isaak non lo sapeva.

Ci dirigemmo verso sud, sempre più veloci. Il terreno s’innalzava rispetto ai campi fradici che sarebbero stati la mia ultima visione dell’Olanda, ma più salivamo, più io mi sentivo precipitare. Ovunque, sulle strade, c’erano colonne di camion e campagnole militari, oltre a convogli di lentissimi carri armati. Non si vedevano civili, né in bicicletta né a piedi, solo militari: una nazione di soldati. Potevo solo guardare, mentre venivo scaraventata in fondo al cuore del mio nemico, inerme e raggelata.

No. Mi tastai l’orecchino con la pietra lunaria nel lobo ancora gonfio.

«Buona l’idea, però». Mi chinai in avanti tra i due uomini e mi costrinsi a sorridere, il tono contrito. «Potrei scrivere ai miei. Non è che per caso avete carta e penna? Vorrei farlo subito, così posso imbucare la lettera al più presto».

L’autista mi porse una penna; l’altro infilò una mano sotto il sedile, ne trasse un blocco e strappò un foglio. «Può usare il retro».

Li ringraziai e mi misi la valigia sulle ginocchia per usarla come piano d’appoggio. Cari mamma e papà, scrissi in grande, cosicché i soldati potessero leggere, se si voltavano. C’è stato un cambiamento di programma. E poi, a lettere piccolissime più sotto: Posto di blocco a Beek. E, SE, poi E. Passata Essen. Verso il Reno.

Mangiai un po’ di cibo preso dal cestino, incartai il resto e me lo infilai in tasca. Accostammo sull’autostrada una volta sola, perché i due potessero fare i loro bisogni. «Scenda anche lei, se vuole. Ci sono delle siepi» proposero. Considerai la possibilità di scappare, ma oltre le siepi si stendevano campi aperti in ogni direzione, e sul fianco dell’autista avevo scorto il luccichio di una pistola. Inoltre, se anche fossi riuscita a scappare, con pochi fiorini in tasca dove sarei andata? Scossi il capo e ci rimettemmo in marcia.

Seguivamo il corso del Reno. Le montagne dispiegate su entrambe le sponde si fecero più ripide, e uscì un sole che accese le cime incappucciate di neve in lontananza. Il paesaggio era bellissimo, ben più straordinario di quanto avessero mai lasciato trapelare i miei libri di geografia, ma era aspro, non dolce come quello olandese. Dolce era il fiume, tuttavia, da cui si levava una foschia che velava i vigneti e i paesini che ruzzolavano fin sulle sponde. Il Reno scorreva anche in Olanda, e dunque la sua presenza mi confortava un poco ogni volta che s’incurvava alla vista sotto di noi, come un filo d’argento che mi legava a casa mia. Tranne una volta, quando il fiume si allargò e apparve un’isola a dividerne la corrente: proprio al centro, come nell’illustrazione di un libro di fiabe, si ergeva un castello di pietra. Rimasi a fissarlo mentre ci passavamo accanto, il conforto immediatamente mutato in un senso di terrore: nelle fiabe c’erano sempre grandi malvagità, grandi pericoli.

Bonn, verso est. Coblenza. Pollicino che lasciava le sue briciole.

Verso metà pomeriggio i soldati cominciarono a parlare di fermarsi. A Wiesbaden doveva sorgere un nuovo centro Lebensborn, c’erano già stati per i lavori preliminari, e conoscevano un ristorante.

Parcheggiammo davanti a una taverna ma, prima di entrare, l’autista indicò una tabaccheria dall’altra parte della strada. Dovevano comprare le sigarette. Così attraversammo, io stretta tra i miei guardiani, e fu allora che le vidi.

Fiorite sulla sinistra di ogni cappotto con la repentinità delle giunchiglie… quello pensai che fossero, dapprima: gaie giunchiglie infilate nei taschini, un segno di sfida o di speranza contro la tetra realtà della guerra. Ma nell’avvicinarci a un’anziana coppia notai la grossolana lucentezza della stoffa, il colore troppo acceso per essere naturale, e poi, al centro, le pesanti lettere gotiche che dicevano JUDE. Isaak mi aveva raccontato di quelle stelle: presto le avrebbero portate anche gli ebrei di Schiedam. I due vecchi si rintanarono contro un portone mentre passavamo, gli occhi bassi, e il lato sinistro del petto prese a bruciarmi.

«Che c’è?» mi chiese Faccialunga. Si era fermato e mi fissava, e io mi resi conto di avere posato le mani sul cuore.

«Niente, niente». Mi imposi di lasciar ricadere le mani sui fianchi, sorpresa che la stoffa del cappotto non fosse già in fiamme.

Al ristorante mi allontanai per andare in bagno. Bevvi un po’ d’acqua fresca nel cavo della mano, poi mi chinai, aggrappandomi al lavandino, per guardarmi bene allo specchio. La mia faccia mezza ebrea. «Non lo sa nessuno. Non lo sa nessuno». Rimasi lì, tremante, finché non venni riscossa da un colpo alla porta.

L’autista. «Sta bene? La cena è servita».

Avevano ordinato zuppa, salsicce e pane, ma io non riuscii a mangiare nulla. Non riuscivo nemmeno a reggere la tazza del tè, perché le mani non smettevano di tremare.