Decine di ragazze chiacchieravano sottovoce davanti alle porte di vetro ancora chiuse della sala da pranzo, in un frullo di mani che si alzavano come colombe dai pancioni e poi tornavano protettive a posarsi. «Vi presento Anneke» disse Leona avvicinandosi a un gruppetto. «Starà qui per un po’, quindi cerchiamo di fare le brave e non spaventarla troppo la prima sera».
Notai immediatamente le cose su cui Leona mi aveva messa in guardia. Le ragazze francesi e belghe facevano gruppo con le olandesi, mentre le tedesche si facevano un punto d’onore di ignorarci. In refettorio ci sedemmo tutte insieme, riempiendo però solo un capo del tavolo; dall’altra parte c’erano le tedesche, separate da noi da diverse sedie vuote, e da quel lato spirava un’aria gelida.
«Dove sono le più vecchie, quelle sposate?» chiesi a Leona.
«Ah, le Frauen… mai al primo turno… per quello noi scendiamo presto. Stanno tutte al nido perché portano qui a mangiare anche gli altri loro bambini. Poi li mettono a letto e si mettono a parlare dei mariti, come tante vacche che ruminano. Mi passi il pane?»
Le passai il cestino e lei indicò il contenuto. «Visto? Giusto la settimana scorsa… quell’Himmler. Quei bei panini bianchi che ci davano prima… finito, adesso solo pane integrale».
Al tavolo erano arrivate le inservienti con i piatti. Alla vista delle verze sminuzzate si alzò un gemito corale.
«Questa è la cosa peggiore» spiegò Leona. «Due terzi della verdura vanno mangiati crudi – nuova regola – compreso il cavolo. Ma ti rendi conto? Ovviamente non lo mangia nessuno».
Era da almeno un anno che non vedevo tanta roba da mangiare. Ciotole piene fino all’orlo di verdure, patate arrosto, tortini di cipolla; brocche di latte con la panna ben mescolata, in attesa di essere versato in capienti bicchieri; burro autentico da spalmare sul pane. Le ragazze di cucina servirono a tutte una sola porzione di arrosto di maiale, ma si poteva fare il bis di tutto il resto. Mangiai fino a scoppiare e poi, quando arrivò la crostata di frutta, mi mangiai anche quella, e avrei voluto continuare e riempirmi le braccia e le tasche di cibo. L’abbondanza mi fece perdere qualsiasi ritegno.
Un’altra ragazza olandese, Resi, quella che aveva finito il tempo, si era messa a farmi domande su Schiedam. Era andata all’università con una ragazza di laggiù, Juul Kuyper, la conoscevo, per caso? No, non la conoscevo.
«Magari era avanti a te a scuola. Tu quanti anni hai?»
«Diciannove» risposi, e poi mi resi conto dell’errore.
«Ah, be’, lei dovrebbe averne ventuno adesso, come me» disse Resi. Poi cominciò a descrivere l’amica, ma io non riuscivo ad ascoltare.
Quando si udì l’annuncio che in sala ricreazione si sarebbe proiettato un film, dopo il secondo turno della cena, ero ancora scossa. Leona mi disse che lei era troppo stanca per rimanere alzata, e io risposi che lo stesso valeva anche per me, dopo la lunga giornata di viaggio.
In camera Leona si tolse i vestiti. Non avevo mai visto prima d’ora il corpo di una donna incinta, e non potei impedirmi di fissare il ventre ingrossato e venato di smagliature violacee, e i seni pesanti al di sopra. Cercai di figurarmi il mio corpo che si gonfiava fino a scoppiare, con dentro il figlio di Isaak. Di Isaak.
«Tremendo, vero?» rise lei tastandosi l’enorme rotondità. «Sono rimasta vittima della mia lussuria!»
«Lo amavi?»
Leona s’infilò a fatica la camicia da notte e ricadde sul letto con un gran sospiro, come una vecchia. «Quella sera sì. Baciava meravigliosamente, questo va detto. Dio, quanto mi mancano i baci, a te no? Lui ci metteva il tempo che ci voleva, e poi aveva le tessere per il cinema e la cioccolata. Io avevo bevuto troppa birra, e quella sera lo amavo». Sospirò di nuovo, poi si riscosse. «Be’, guarda cosa ci ho guadagnato».
«Ma ne sei quasi fuori».
«Infatti. E me ne torno a casa appena posso. Appena tagliano il cordone». Leona interpretò correttamente il mio sguardo. «Se lo prendo in braccio o comincio ad allattarlo, sarà peggio».
«Hai paura che lo sentirai tuo, a quel punto? E adesso che cosa pensi che sia?»
«Una malattia, una cosa che devo superare. Non mi guardare così, tu non sai ancora niente».
«Hai ragione, scusa».
«Lo so che impressione fa, ma il consiglio me l’ha dato la mia prima compagna di stanza: non pensare che è un bambino, altrimenti potresti impazzire di dolore. Ad alcune capita».
«Impazziscono?»
«Le senti. Gridano, quando gli portano via i bambini. Dalla sala parto non si sente mai volare una mosca, eppure dovrebbero fare un bel po’ di chiasso anche lì. Ma dopo senti le urla… di quelle che hanno fatto l’errore di prenderli in braccio. Viene quasi da pensare che le stiano squartando». Leona si drizzò sui gomiti. «Be’, raccontami del tuo soldato».
Per un istante la parola rievocò in me lui, l’Oberschütze, i capelli chiari a spazzola e il faccione rosso e la rabbia furibonda. Sentii un morso allo stomaco. «Il mio soldato». Quindi ripensai al ragazzo di Anneke, che in panetteria distoglieva lo sguardo da me con una strana espressione preoccupata, mi era sembrato. O disperata. «Si chiamava Karl. È partito, l’hanno trasferito».
«E se lo prende, il bambino?»
«In che senso? Sarà adottato».
«Sì, certo che verrà adottato, è ovvio che non lo lasceranno a te. Ma i tedeschi faranno pressioni sul padre perché lo porti a casa dalla moglie… Te le immagini, queste mogli che accolgono in famiglia i ricordini dei mariti e li allevano? Quella è la prima scelta, se lui è sposato. È sposato?»
«No». Sentii il sudore che iniziava a percorrermi la schiena… tutti quei particolari.
«Allora daranno il tuo bambino a una brava famiglia nazista». Rise, amara. «Una brava famiglia nazista. Non ci posso pensare. Comunque, come ti è sembrata la tua prima sera?»
«Tutto a posto» dissi. «Sono simpatiche, le ragazze con cui abbiamo mangiato».
«Attenta» replicò Leona. «Ti stupiresti di come facciano presto a guastarsi le cose, qui. Cento donne rinchiuse tutte insieme, nessuna vergine e neanche un uomo… già così non è una passeggiata. Ma poi aggiungici una masnada di tedesche patriottiche, puttane di Hitler… sta’ attenta, ecco».
Spense la lampada e d’un tratto il buio mi riportò in quel vicolo, a quelle nocche dentro la bocca.
«Preferisco tenere le tapparelle alzate» disse Leona. «Sarebbe proibito, ma se la luce è spenta non se ne accorgono. Mi piace guardare le stelle, però se ti dà fastidio possiamo lasciarle giù».
«No, lasciamo pure aperto». Avvolsi le gelosie di legno nel loro alloggiamento e guardai fuori. Il cielo almeno non era straniero: quelle medesime stelle splendevano anche sull’Olanda. Erano le mie, e in effetti non ero poi così lontana da casa. Mi sdraiai e chiusi gli occhi. E immediatamente vidi anche le altre stelle, quelle gialle. Erano mie pure quelle, ed ero lontanissima da casa.