29.

Mi svegliai urlando. Leona era accanto a me e mi stringeva le mani. «Un brutto sogno» disse. «Ora stai meglio?»

Ebbi un brivido; la camicia da notte era madida di sudore, appiccicata alla pelle. Leona mi rimboccò il copriletto fin sotto il mento. «Ce la fai a riaddormentarti?»

Non ci riuscivo. Quando chiudevo gli occhi mi mancava il fiato, il tanfo d’olio da motori mi copriva il volto come un sudario; quando li riaprivo vedevo le montagne fuori dalla finestra, immense, le cime bianche e frastagliate come denti rotti, scintillanti sotto il chiaro di luna.

Volevo Isaak, volevo il suo corpo accanto al mio. Rivedevo il suo viso, così addolorato: «Non posso amare nessuno». Un singhiozzo mi montò nel petto come un’onda. Mi alzai in silenzio e trovai la sua matita da disegno sopra la cassettiera; tornai a letto tenendola stretta e cercai di pensare a quando mi sarebbe venuto a prendere. Ci sarebbero volute due settimane, almeno; fino ad allora, dovevo riuscire a superare le notti. Di giorno sarebbe stato più facile: bastava che mi tenessi a distanza dal personale, che parlassi con meno ragazze possibile e approfittassi delle risorse disponibili qui.

Tanto per cominciare, i bambini. Mi calmai un po’, pensandoci: quel posto era pieno di bimbi, a decine, una vera delizia. Alla prima occasione avrei chiesto se si poteva far visita alla nursery per vederli. O addirittura prenderne uno in braccio.

Osservai l’alba: così normale, come se al sole non importasse nulla di trovarsi in Germania. Si sentì una campanella. Leona si riscosse e aprì gli occhi. Fece una faccia meravigliata al vedermi nel lettino accanto ma poi sorrise, come davanti a una bella sorpresa. Tese una mano verso il comodino, trovò l’orologio e disse: «Sarà meglio che scendiamo».

Ci vestimmo, Leona con il suo ampio camicione e io con la gonna del giorno prima. Adesso pareva tirare un po’ in vita… possibile, di già? O era solo per l’abbuffata di ieri?

Di sotto c’era una fila di ragazze nel corridoio, più di quelle della sera precedente.

«A che ora apre la sala da pranzo?» chiesi.

«Oh, è già aperta» rispose Leona. Si stava ancora abbottonando il cardigan. «Solo che oggi è giorno di pesa».

«Giorno di pesa?»

«Ogni sabato mattina. Piazzano la bilancia sulla porta del refettorio… e ti rovinano l’appetito, credimi».

Le ragazze chiacchieravano e la fila avanzava spedita. Sentii un sapore di metallo in bocca, e un rivolo di sudore freddo lungo la schiena.

«Frau Klaus. Cerca di non guardarla negli occhi» mi avvisò Leona in un sussurro mentre ci avvicinavamo. «Non sorriderle nemmeno. Io una volta… se ti piglia di punta per qualunque motivo…»

Leona salì sulla bilancia e gemette di fronte al verdetto.

Poi venne il mio turno.

«Nome?»

Glielo dissi.

«Togliti le scarpe. E sbrigati, che le altre aspettano».

«Cinquantanove chili» annunciò poi Frau Klaus, e se lo appuntò. Scesi dalla bilancia e mi riavvicinai a Leona.

«La mia pancia pesa cinquantanove chili da sola!» sospirò lei.

Chiama la prossima, per favore, supplicavo in silenzio.

«Aspetta».

Mi voltai molto lentamente, fingendo di non sapere chi stesse chiamando.

La donna si accigliò e fendette l’aria con il foglio. «Erano cinquantatré e mezzo, all’ultima pesata». Guardò nuovamente il modulo. «Undici giorni fa».

Assunsi un’aria sconcertata. «Mi sono mangiata tutto quello su cui ho posato gli occhi» dissi poi con la massima cordialità. Il chiacchiericcio delle altre ragazze era svanito.

«Ma sono cinque chili e mezzo, è impossibile».

Allora mi venne un’idea. «Aspetti» dissi. «È sicura che sia cinquantatré? Perché l’infermiera che mi ha pesato l’altra settimana aveva detto cinquantotto e mezzo: me lo ricordo perché era più di quello che pensavo».

Frau Klaus rimase dov’era, con la mia cartella in mano.

«Non è che quel tre potrebbe essere un otto, in realtà?»

La donna scosse il capo e serrò le labbra in una sottile linea bianca. «Dove ti hanno pesato?»

Mi resi conto allora che non lo sapevo. Dov’era andata, Anneke, quel giorno? «In Olanda» risposi.

Lei mi squadrò ancora per un momento.

«Mi sono sembrati piuttosto sciatti, laggiù» le confidai. «Non bene organizzati come qui».

La Klaus annuì, soddisfatta. «Incompetenti». Poi tornò a sedersi e con la penna corresse il tre in otto. «La prossima. Nome?»

In refettorio Leona mi passò un piatto e io lo presi con tutte e due le mani per non farlo tremare. Ancora una volta rimasi colpita dall’abbondanza di cibo: da quasi un anno e mezzo mi ero dimenticata che si potesse anche scegliere. C’erano vassoi di frutta fresca, vere uova, müsli, formaggi; e tre tipi di marmellata. Di nuovo mi venne l’impulso di prendere tutto, di riempirmi. A ciascun lato del tavolo era posata una zuppiera di farinata d’avena.

«Pappa d’avena tutte le mattine» borbottò Leona. «E se non la mangi sono guai».

«Ma tengono il conto di tutto quello che mangiamo?»

«No, solo della stramaledetta pappa… Himmler ne è ossessionato: gira voce che lui deve mangiarla perché ha dei tremendi dolori di stomaco, e mi auguro sia vero. Quindi, immagino che secondo lui la debba mangiare anche il resto del mondo».

«Io non mi lamento» disse Aimée, in coda dietro di noi. Era belga, e aveva l’aria amabile come il suo nome. «Su da me, al paese, la gente lo avrebbe ringraziato».

Accanto a lei c’era l’altra ragazza belga. «Verissimo» concordò. «Qui non c’è proprio niente di cui lamentarsi. Alla clinica di Liegi era molto, molto peggio».

Prendemmo posto a tavola, e mi trovai fra Leona e Aimée. «Cos’era che non andava, lassù?» le chiesi a voce bassa, per non farmi sentire dalle inservienti che versavano il tè dall’altra parte del tavolo.

«Tanto per cominciare, l’unico dottore che c’era era un dentista!» Si indicò il pancione. «Questo ti sembra un dente cariato?»

«Il personale era tutto avventizio» confermò l’altra ragazza. «E c’era sporco ovunque. Una volta hanno trovato dei pezzetti di fil di ferro nel brodo dei bambini, e ho sentito che i pitali della nursery li lasciavano traboccare, prima di svuotarli».

«E poi non potevi tenerci niente di valore» aggiunse Aimée. «Le infermiere facevano piazza pulita, si prendevano quello che volevano – eravamo sempre a corto di sapone e biancheria – e si rubavano anche metà della roba da mangiare. No, puoi dire quello che vuoi dei tedeschi, ma almeno qui le cliniche le fanno funzionare».

«Be’, per rubare rubano anche qui, però» intervenne Leona. «La mia ultima compagna di stanza è arrivata con una pelliccia – Dio solo sa perché, in estate – che è sparita in un batter d’occhio. Dopo non si fidava più neanche di me… e dormiva con tutta la sua roba sotto il cuscino».

Pensai alla lettera di mio padre e alla fotografia in fondo all’armadio. Forse avrei potuto sotterrarle fuori.

D’un tratto Greetje, seduta di fronte a noi, lasciò cadere il cucchiaio e si alzò. «Basta!» proruppe, buttando la scodella di farinata sulla tovaglia. «Non la posso più vedere, questa merda. Boicottiamola! E facciamolo sapere al signor Himmler».

Seguì un istante di sconcerto generale, come se le altre pensassero quel che stavo pensando anch’io. Ma il viso di Greetje diceva: Tanto, che possono farci? E aveva ragione: eravamo galline sul punto di deporre uova d’oro, sicure almeno fino al parto. Poi le altre si misero a ridere, e qualcun’altra gettò a sua volta la pappa d’avena sulla tovaglia, schizzando di grumi grigi il cotone bianco e le zuccheriere d’argento.

«Tra quindici giorni potrete riferirglielo di persona» disse Aimée, e la tavolata si azzittì.

«Me l’ero quasi dimenticato» disse Leona. «Il sette».

Ce la mettevo tutta per parlare poco e ascoltare molto, ma quella cosa volevo saperla.

«Che cosa succede il sette?»

«È il suo compleanno… del Reichsführer in persona, il mangiatore di farinata d’avena. E ci farà la grazia di una cerimonia di imposizione dei nomi… Io cercherò di farmi venire il mal di testa e, se dovessi andare in travaglio proprio quel giorno, vi prego di tenermi strette le gambe».

In quella arrivò Resi e si sedette al posto lasciato vuoto da Gretje. «Magari potessi aspettare fino ad allora». Aveva il pancione tanto grosso e alto che arrivava al tavolo con difficoltà.

«Perché?» domandai confusa.

«Perché se il tuo bimbo nasce il sette, gli spettano dei regali speciali, non solo il libretto bancario».

Stavo per chiederle che cosa intendesse dire, ma sentii un buffetto di Leona sulla coscia, sotto il tavolo. Poi cambiò subito argomento.

Più tardi, in camera, mi spiegò: «Il ragazzo di Resi è un olandese arruolato nelle Waffen-SS. Per quel che mi riguarda sono i peggiori: traditori. Loro due si sposeranno e terranno il bambino, sicché ci sarà presto un altro piccolo collaborazionista in Olanda. Mi sembrava meglio dirtelo; attenta a come parli, quando c’è lei in giro».

Mi tornò in mente d’un tratto l’immagine, vista una volta su un libro di scuola, di un apicoltore con la faccia, la testa e il collo ricoperti di api. Le api lo ricoprivano tutto: l’uomo non portava la camicia, diceva la didascalia, ma dalla foto nessuno l’avrebbe capito: braccia e torace erano neri di api. «Le api sono pericolose solo se disturbate» assicurava al lettore la didascalia, ma quell’immagine mi aveva tormentata per settimane.

Ripensai ora a quelle api, immaginando che mi si posassero sulla pelle.

«Leona, perché in camera ci tengono divise per nazionalità?»

«Divide et impera, secondo me. Non credo gradiscano che una decina di ragazze di paesi nemici stiano insieme più del necessario. Come se potessimo fare qualcosa, poi… Ma che gli passa per la testa? E ovviamente non vogliono certo che dividiamo le stanze con le ragazze tedesche».

«Troppi litigi?»

«Ja, per quello, ma c’è anche dell’altro… Io non c’ero ancora quand’è successo, però la mia prima compagna di stanza me l’ha raccontato. Tre o quattro mesi fa è scoppiato un gran casino, qui, si sono messi tutti in… Pare che una delle più anziane non facesse che vantarsi di essere stata nella Gestapo – a Smolensk, credo – e del fatto che ammazzavano gli ebrei. Una volta ha detto che uccidevano anche i neonati, con un colpo di pistola alla nuca… Te l’immagini?»

«Neonati?»

«L’hanno fatta stare zitta, ovviamente. Hanno detto alle altre che era matta, e lo era di certo per inventarsi una cosa del genere: qui siamo tutte incinte, sant’Iddio! E ci sono molti prigionieri dei campi che lavorano qui: le donne delle pulizie e gli uomini di fatica, nel parco. A proposito, con quelli non ci devi parlare».

«Ma, Leona, tu ci credi? A quello che ha detto?»

«Dei neonati? No, certo che no. Per quanto… No, tentava solo di terrorizzarci. E ha funzionato: alcune ragazze dell’Olanda e del Belgio hanno cercato di andare via. Da allora hanno deciso la politica degli alloggi separati per le tedesche, e di tenere insieme le altre divise per nazionalità, se possono. Per me va bene».

«Anche per me» osservai. «Leona, senti…»

«Sì?»

«Adesso dov’è?»

«Chi?»

«Quella che lavorava per la Gestapo. È ancora qui?»

«Be’, non lo so. Ma ne dubito. Quelle più anziane di solito tornano subito a casa. Però non lo so. Perché?»

Non risposi.

Un colpo di pistola alla nuca.