Mai in vita mia avevo avuto tanta voglia di parlare, di raccontare a qualcuno della morte di Anneke, di quanto mi sentissi impaurita in quel posto, della mia gravidanza, di tutte le cose che bisognava risistemare tra me e Isaak, le cose che dovevo fargli capire.
Ma non potevo parlare, perciò iniziai a scrivere. Non di queste cose, tuttavia: mi misi a scrivere poesie. O meglio, loro si misero a scrivere me.
I versi si manifestavano sfidandomi a comprenderli, a inseguirli fino al nocciolo del proprio significato. Allora mi chinavo sul foglio e costringevo le parole in distici, i distici in strofe e le strofe alla conclusione. Terminavo una poesia e provavo una certa calma, finché non sentivo il bisogno di ricominciare.
Il problema era la carta. C’era disponibilità di fogli di carta da lettere, ma se prelevavo quella poi qualcuno si sarebbe certo aspettato che avessi delle lettere da spedire, no? E a chi mai potevo scrivere? Divenni una bizzarra ladruncola. In tutti gli angoli della clinica tenevo d’occhio rimasugli di cui non si sarebbe sentita la mancanza: involucri della merce in consegna, pezzi di carta per foderare i cassetti, e un giorno una vera manna: un intero foglio di carta da regalo. Scrivevo più piccolo che potevo, tante paroline affastellate, cancellate e poi riscritte decine di volte.
E divenni altrettanto brava a nasconderli, quei foglietti orfani: ci foderavo i cassetti, li infilavo tra il materasso e la rete, facevo scivolare i più piccoli dentro i miei pochi libri.
Ma una volta non fui abbastanza prudente.
Leona aveva buttato via una busta, io l’avevo presa dal cestino e ci avevo elaborato su una poesia per una settimana. L’avevo appena ficcata sotto un libro, sul comodino, quando lei entrò in camera.
Forse riconobbe l’indirizzo o la calligrafia sull’angolino che sporgeva; fatto sta che, prima che potessi impedirglielo, si riprese la busta.
Lesse la poesia, girando e rigirando la busta, socchiudendo gli occhi per decifrare la mia minuscola scrittura, le cancellature e le modifiche. Poi la lesse un’altra volta. Infine mi mostrò il pezzetto di carta, le sopracciglia inarcate.
«Era solo… È una cosa da niente».
«Non è vero» disse in tono di rimprovero, come se l’avessi ferita. «Non sapevo che fossi una poetessa».
Tesi una mano verso la busta, ma lei si spostò e me la risventolò davanti. «Leggimela ad alta voce. Leggimela come dev’essere letta».
Esitai un istante, poi feci sì con la testa e lei mi restituì la poesia. Si sedette sul letto, tirò su i piedi, si appoggiò alla testiera e chiuse gli occhi.
Il tramonto qui è infinito, e tu gradiresti molto
i giri senza meta nella sua lunga ampolla rossa.
Io canto da sola
oltre i rami neri ed i picchetti bianchi
fino al recinto che dice NON SI PASSA.
Il cavallo sauro m’ha sentita cantare dalla strada
così volta la saetta sul muso
e lieve me la infila sotto il palmo.
Capisco a volte perché non sono ancora morta:
devo ancora attirare una persona ai margini del recinto.
Leona riaprì gli occhi e mi guardò pensierosa. «Dimmi cos’è che te l’ha fatta scrivere».
Forse mi fidavo di lei. Forse la poesia mi sembrava un argomento neutro. O magari c’era un limite: dopo cento bugie, o mille, una persona deve semplicemente dire la verità. Quale che fosse il motivo, per la prima volta da quando ero arrivata in quel posto, dissi la pura verità.
«Cercavo di capire che cosa mancava tra di noi… tra me e il padre del bambino. E mi sembrava un buon modo di spiegarlo, dicendo che alla fin fine non l’ho mai portato fino ai margini del recinto».
«Magari non dovresti essere tu ad attirarlo qui. Magari un vero uomo dovrebbe percorrerla da sé, quella distanza».
Scrollai le spalle. «Magari io avrei dovuto fornirgliene più motivi». Isaak non si sarebbe mai spinto fino ai margini del recinto per un singolo essere umano, ma solo per un ideale. Gli ideali non ti abbandonano, non ti fanno del male, non ti deludono.
«È per questo che scrivi poesie? Per comprendere la tua vita?»
Ci pensai su e poi annuii. «In parte. A volte però lo faccio per cancellarmi, credo, dalla mia vita. Per sfuggire a me stessa».
«Allora sei fortunata». Leona disse queste parole nel tono più serio che le avessi mai sentito. «Io sfuggo a me stessa andando a letto con chiunque». Abbassò lo sguardo e si carezzò il ventre enorme. «Delle tue fughe, almeno, nessun altro deve pagare il prezzo».
D’un tratto la busta prese a bruciarmi in mano. La infilai sotto il libro e mi alzai in piedi.
«Aspetta». Leona scosse il capo e mi rivolse il suo strano sorriso: le labbra non s’incurvavano all’insù, ma le fossette ai lati della bocca diventavano più profonde. Poi si alzò e si avvicinò al suo comò, aprì un cassetto e ne trasse una scatola di carta da lettere: grandi fogli color crema, con l’orlo a riccio e un mazzetto di tulipani color lavanda in ogni angolo.
«Me l’ha regalata mia madre prima di partire, perché le scrivessi. Una volta ci ho anche provato, ma non ci sono riuscita: era come se non volessi rendere tutto questo più vero ai suoi occhi. Quando torno a casa voglio solo far finta che non sia mai successo, perciò questi fogli prendili tu: almeno le poesie che finisci scrivile su un pezzo di carta decente, per amor del Cielo».
Per tutta la settimana seguente – la sesta che trascorrevo in quel posto – scrissi tutti i giorni.
Io scrissi: Isaak non mandò una riga e non venne.
Ogni giorno di quella settimana mi svegliai pensando: Accadrà oggi. Appena alzata scrutavo l’orizzonte in cerca di segni di bello o cattivo tempo e cercavo di decidere quale fosse meglio. Ogni giorno lo sguardo deviava sempre più spesso verso la porta della stanza in cui mi trovavo, qualunque fosse, finché un pomeriggio Leona mi chiese cosa diavolo stessi aspettando.
«Niente» risposi con una risata. Però ne rimasi scossa, e imparai a sorvegliare le porte con la coda dell’occhio.
Quella settimana Leona ingrossò ancora, e il suo pancione parve farsi più alto e teso. Poi, una mattina, abbassò lo sguardo mentre si vestiva ed emise uno strillo. «Guarda, Anneke! Mi è scesa la pancia! Non sapevo che me ne sarei accorta coi miei occhi. Però mi sento diversa, addirittura più pesante. Si nota?»
I nostri sguardi s’incrociarono. Sul comodino lei teneva un libricino – I segni che il vostro bambino sta per nascere – e ogni sera me lo leggeva. «Ti sembra che mi si siano ingrossate le caviglie?» chiedeva ansiosa. «Ti sembro più irrequieta, più emotiva?» Il punto quattro diceva: «Quando il bambino si prepara a nascere, spesso comincia la discesa lungo il canale del parto, e tutto il ventre potrebbe abbassarsi».
«Sì, il pancione è più basso. Pensi che succederà oggi?»
«Non lo so. Anneke, e se non ci riesco?»
«Ma certo che ci riesci. Andrà tutto bene».
Per tutto il giorno la sorpresi spesso a fissare il vuoto, concentrata come chi si sforza di udire qualcosa, per poi sciogliersi in un sorriso trasognato, come se ciò che aveva sentito fosse una musica segreta. Allora mi sentii molto sola, e cominciai a preoccuparmi per lei. Non mi sembrava più la ragazza che voleva solo liberarsi di un impiccio.
Il giorno dopo, al risveglio, la trovai già alzata, benché ancora non vestita. Stava in piedi alla finestra, la valigia accanto a sé, e si voltò non appena io mi mossi, come se stesse aspettando proprio quel momento.
Mi rivolse un sorriso flebile, preoccupato ma anche rassegnato. «Sono cominciate un paio d’ore fa».
«Dovevi svegliarmi».
«No, era troppo presto. Per ora sono fiacche, come una stretta, nient’altro. Ed è stato bello stare sola con le doglie. Mi dava una sensazione di… non saprei… di mistero, credo, stare lì sveglia al buio con lui. E poi abbiamo guardato l’alba insieme». Rise. «Strano, vero? Però mi sentivo così: come se io e il mio bambino guardassimo questo nuovo giorno, il giorno della sua nascita, mentre stava nascendo».
Mi alzai e mi avvicinai a lei. «Stai cambiando idea?»
La risposta si fece attendere troppo. «No, no, e comunque che ci farei, con un bambino? T’immagini come lo tratterebbero i miei, e i vicini poi… È solo che, be’, adesso vorrei che le cose fossero andate diversamente, e vorrei poterlo tenere. Vorrei che non ci fosse una guerra in corso e vorrei che lui avesse un padre e una famiglia che lo accolga. È solo che darlo via sarà più dura di quanto pensassi».
Le presi la mano e gliela strinsi forte.
«Tu dovresti scendere» disse quando suonò la campanella. «Io devo rimanere a digiuno».
«No, rimango con te».
«Ma dai, su. Ci vorrà un po’, quando torni sarò ancora qui».
Stetti via giusto un’ora – vi furono degli annunci, fu letta una nuova serie di regole – ma quando tornai in camera la trovai vuota. Il silenzio era pesante, diverso dalla quiete che Leona lasciava quando usciva per un minuto. La ragazza che conoscevo, mi resi conto, era sparita davvero; la prossima volta che l’avessi vista sarebbe stata una persona diversa. Se mai l’avessi rivista. Già ne sentivo la mancanza.
La giornata passava lenta. Ogni volta che vedevo una Sorella in corridoio chiedevo notizie. «Non credo. Non ho sentito di nessuna nascita, oggi» dicevano. Trascorsi il dopocena in piedi davanti alle porte che conducevano in sala travaglio e parto. Finalmente Sorella Ilse montò di turno e si lasciò muovere a compassione.
«Sta bene» mi rassicurò. «Con il primo ci vuole tempo. Tu vai a letto, mancano ancora delle ore».
Obbedii, ma non dormii bene. Nel sonno sentii delle urla. Osservai il sorgere del sole, poi non riuscii più ad aspettare e scesi nel reparto. Ilse veniva giù per il corridoio.
«L’ha avuto?»
«L’ha avuto, intorno a mezzanotte. Un maschio».
«E come sta? È andato tutto bene? Lo so che è presto, ma la posso vedere?»
«Lei sta bene, ma tu non ci puoi andare. Niente visite».
«Ma sono la sua compagna di stanza».
«Sta bene, davvero. È solo che… be’, capita che qualcuna sia sconvolta, alla fine. Partorire è una grande fatica, e la regola è di non far parlare le gestanti con le neomamme».
«La prego, me la faccia vedere. Se è sconvolta posso aiutarla».
Lei assunse un’espressione preoccupata, ma mi resi conto che ci stava pensando su. Tenni duro finché non sospirò e con un cenno indicò la porta sulla destra. «Un minuto solo» ammonì.
Le avevano dato qualcosa, non solo l’etere: Leona aveva le palpebre pesanti, gli occhi gonfi e arrossati.
«Sbaglio» fu tutto ciò che riuscì a dire prima che il viso si chiudesse nel dolore. Ormai vuota di lacrime mi guardò implorante, come se io potessi cambiare qualcosa. «Il mio bambino». Le parole erano lente e viscose, come estratte dal catrame. «Mio. Sbaglio».
«Io non credo» dissi prendendole la mano. «Penso che sei stata coraggiosa e saggia, e che hai fatto la cosa giusta».
Lei scosse il capo. «L’ho visto. Mio. Lasciato andare».
«No, Leona» azzardai. «Vedrai… questo è un momentaccio, ma poi sarà diverso».
Sorella Ilse si presentò alla porta e io ne fui sollevata. «Torno più tardi, così parliamo».
Leona scosse nuovamente il capo.
«Ti vengo a cercare quando finisce la guerra, dammi il tuo indirizzo».
Leona si girò verso il muro e chiuse gli occhi.