«Io vicino alla finestra non ci dormo». Queste furono le sue prime parole.
Quando Leona se n’era andata mi ero presa il suo letto perché ci si stava più caldi, giacché era più lontano dallo spiffero della finestra ma, visto il poco tempo che mi restava da passare lì, non m’importava dove dormivo.
«Facciamo cambio» dissi, «per me è lo stesso. Mi chiamo Anneke».
«Neve».
Tolsi la biancheria e rifacemmo i letti, poi mi sedetti sul mio e la guardai disfare i bagagli. Si era portata un’unica valigina, ma le ci volle un po’ perché piegava e ripiegava ogni capo di vestiario finché non diventava piatto e con gli spigoli vivi. Neve era una ragazza interessante, diversa dal tipo olandese prevalente: alta di statura, angolosa, dall’ossatura sottile. La pancia tonda sembrava fuori posto, come fosse stata appiccicata su tutti quegli spigoli, e i capelli erano d’un biondo chiaro, diritti e tagliati corti. Ciglia e sopracciglia erano quasi bianche, e il viso fragile, a eccezione del mento: quadrato e arrogante, pareva sfidare chiunque a pensare di volerla proteggere.
Oltre ai pochi indumenti, si era portata solo una spazzola e le forbicine per le unghie, che allineò con precisione sul comò, e poi un accendino con tre pacchetti di sigarette che ripose nel primo cassetto. Nessun ricordo, niente foto di famiglia. Nessun legame.
Osservai il guazzabuglio di oggetti sul mio comò: la matita di Isaak, gli orecchini di mia cugina e le cose che mi aveva messo in valigia la zia. Il pettine e il cerchietto di Anneke; la foto di noi due con lo stesso cardigan azzurro, fatta quando ero appena arrivata in Olanda, e la statuina di un cavalluccio impettito che avevo vinto a una fiera. Ma era tutta roba finta: nemmeno io avevo legami.
Neve seguì il mio sguardo fino al cassettone e accennò col mento alla sciarpa che avevo drappeggiato sullo specchio. «Così non ti vedi» disse.
Mi alzai in piedi. «Ti faccio fare un giro. A cena è meglio scendere al primo turno, quando mangiano per lo più le ragazze madri, ed è meglio stare alla larga dalle Frauen sposate. A volte sono…»
«D’accordo» tagliò corto lei, con la voce affilata come le clavicole che sbucavano dal camicione che le cascava addosso.
Per me non c’è problema, pensai: se hai bisogno di aiuto, chiedilo a qualcun altro. Ma Neve non fece neanche una domanda.
Dal fondo della borsa cavò due libri che posò accanto all’abat-jour: Fondamenti di ingegneria aeronautica, e un libricino così consunto che non mi riuscì di leggere il titolo. Presi in mano il secondo libro: Amelia Earhart, una biografia. «È precipitata» attaccai a dire.
«No» mi corresse la mia nuova compagna di stanza, quasi con ferocia. Mi strappò di mano il volume e lo rimise accanto all’altro in modo che i dorsi fossero perfettamente allineati. «Lei volava».
Al suono della prima campanella chiuse la valigia di scatto e se ne andò senza aprire bocca. Mi alzai, mi avvicinai allo specchio e mi sporsi per guardare da vicino. La cicatrice sul labbro si vedeva ancora, benché fosse ormai solo un puntino, netto e candido ma frastagliato come una saetta. Una sola s runica, che come sempre mi tormentava: dov’era la sua compagna? L’Oberschütze aveva forse lasciato dentro di me il resto del suo marchio? Rimisi la sciarpa sullo specchio e scesi a mangiare.
A cena Neve si sedette accanto a me, ma mi rivolse la parola solo per chiedermi di passarle qualcosa. La vidi mentre prendeva freddamente le misure alle altre e mi chiesi se davvero fosse alla prima esperienza in una di queste cliniche, perché mi pareva troppo a suo agio. Però forse era molto sicura di sé per indole. Dopo cena rimase di sotto a vedere il film serale, e tornò in camera verso le nove e mezzo. Io ero a letto, leggevo, e quando la salutai lei si limitò a un cenno del capo.
Stavo qui da settimane, ed ero diventata bravissima a valutare i vari stadi delle gravidanze: Neve era intorno ai sei mesi. Ero contenta di andarmene molto presto: chi l’avrebbe sopportata per dei mesi interi, una così?
«Ho bisogno di dormire» disse una volta infilatasi a letto. «Quindi… le luci».
«D’accordo». Misi un segnalibro e spensi l’abat-jour, poi tirai su la tapparella. Era inutile dare inizio a una battaglia con quella ragazza: non era il caso di farsi dei nemici. Era ovvio che non saremmo diventate amiche del cuore, ma almeno avrei tentato di essere cordiale. «Di dove sei?»
«E le tapparelle, anche. Se rimangono alzate non riesco a dormire».
Richiusi le Rolladen e mi misi a dormire. Ma nel cuore della notte mi svegliai immersa in un’oscurità così fitta da opprimermi il petto. Avevo sognato di essere sepolta viva, col peso della terra a premermi addosso mentre cercavo di liberarmi. Mi drizzai a sedere, boccheggiando, sollevai la tapparella accanto a me e mi misi a guardare fuori finché non mi riuscì di vedere le stelle, poche e rade a pungere la notte nera. Poi ne apparvero altre: erano sempre state lì, e mi spiacque di non conoscere i nomi delle costellazioni, le stesse che facevano la guardia anche sopra l’Olanda. Poi tirai su pian piano tutta la gelosia e mi rimisi a dormire.
Ero scesa in battaglia, alla fine.
Con il mese di novembre il tempo peggiorò. Ogni mattina mi svegliavo davanti alle cime dei monti incappucciate di nuvole fitte: la scabra dentatura sembrava ora ricoperta da un freddo labbro grigio e, in qualche modo, appariva più malaugurante di quando era nuda. Continuavo a uscire più che potevo, ma adesso le foglie morte che si raggruppavano sul ciglio dei sentieri in viluppi marcescenti mi mettevano a disagio, e l’odore mi rivoltava lo stomaco. Passammo un lungo periodo con pochissimi giorni di sole; più volte il cielo grigio scurì e s’increspò e si mise a sputare neve, ma non ci fu mai una bufera. Era come se le intemperie si stessero radunando nell’attesa di qualcosa, proprio come me; il tempo era entrato in tensione proprio come me. Lettere non ne arrivavano, e di giorno in giorno era sempre più difficile convincermi che Isaak stava per venire, e persino che qualcuno sapesse dove mi trovavo.
Decisi di arrischiarmi a scrivere. Non direttamente a Isaak: avevo bisogno di far recapitare la missiva tramite un indirizzo sicuro, di inviarla a qualcuno di cui mi fidavo, che la inoltrasse senza fare domande. Il problema era che, con ogni probabilità, chiunque potesse fare questo per me mi credeva morta. Finalmente mi decisi a provare con Jet Haughwout, una vecchia amica di Anneke; dovevo solo sperare che la zia avesse proseguito nell’inganno, e che Jet non rimanesse sorpresa nel ricevere notizie da mia cugina. Scrissi in stampatello, cercando di imitare i corti caratteri stondati di Anneke, e mentre li vergavo pensai: Sono una ladra. Non c’è nulla che non ruberei a mia cugina.
Cercai di essere breve: dissi a Jet che stavo bene e che in seguito le avrei raccontato più cose, ma per adesso poteva farmi un favore? Ti prego, fa’ in modo di impostare questa lettera, scrissi. È per il ragazzo di mia cugina. È ancora molto rattristato per la sua morte, e volevo mandargli qualche parola di conforto. Non stetti a spiegare perché non potevo inviare io stessa la nota; ci avrebbe pensato lei a farsi venire in mente qualcosa.
Poi scrissi a Isaak.
Tre volte. Le prime due lettere erano piene di paure e domande, del mio dolore al pensiero che mi avesse abbandonata. Le stracciai entrambe. Poi scesi al bancone dell’ingresso per prendere una cartolina illustrata della clinica, che la faceva sembrare un hotel a cinque stelle. Sul retro scrissi un’unica parola: Sbrigati. Chiusi la cartolina dentro una busta, la indirizzai alla sinagoga e poi la infilai dentro la lettera per Jet. Chiusi anche quella e feci un respiro profondo.
Poi mi resi conto del problema.
Neve teneva un accendino nel primo cassetto. Controllai il corridoio per accertarmi che non stesse tornando, dopodiché chiusi la porta, andai al suo comò e, nel prendere l’accendino, notai una cosa. Il cassetto era pieno di roba da mangiare: mele, gallette, qualche panino indurito, un pezzo di formaggio che scuriva agli angoli, avvolto nella carta oleata. Lo richiusi per bene.
Tenendole sospese sopra il catino vuoto, con tutte le loro parole pericolose, bruciai le prime due lettere. Poi scossi la cenere fuori dalla finestra e portai il catino nel bagno in corridoio per sciacquarlo. Al ritorno trovai Neve ritta al centro della stanza, con l’accendino in mano e un sopracciglio alzato.
«L’ho preso io, scusa. Avevo voglia di una sigaretta».
Lei fece un sogghigno: la finestra aperta e l’odore di carta bruciata rendevano assurda la mia bugia. Ma poi si sistemò sul letto e mi guardò come se, per la prima volta, mi trovasse interessante. «Perché sei venuta qui così presto?» mi chiese.
«Non avevo altro posto dove andare. I miei mi hanno buttata fuori di casa».
Lei annuì. «L’avrebbero fatto anche i miei, se gliel’avessi detto. Quando si è cominciato a vedere sono andata a vivere da un’amica».
«I miei non posso biasimarli, però. Odiano a morte i tedeschi».
«I miei no. Loro odiano me». Rispose al mio sguardo comprensivo con un’alzata di spalle. «Ma è ormai da un pezzo che so badare a me stessa. Non è quello che facciamo tutte quante, qui?»
«Badiamo a noi stesse? In che senso?»
«Tre o quattro mesi prima della nascita del bambino, quattordici dopo: un anno e mezzo di vitto e alloggio, al caldo, e nessuno che ti guarda come se fossi la feccia dell’umanità».
«Ti fermi per tutto il periodo? Allatterai il piccolo?»
«Ma certo. Quattordici mesi senza la preoccupazione di cercarmi un tetto, e in cambio devo solo badare a un neonato? Ci puoi giurare». Neve s’irrigidì in volto e si alzò, poi prese la lettera dal mio cassettone ed esaminò l’indirizzo. «Schiedam? Abiti lì?»
Annuii.
«Allora eravamo praticamente vicine di casa». Lasciò cadere la busta sul mio letto e uscì.
La ripresi in mano. Non scrivermi, aveva detto Isaak. Una lettera potrebbe far saltare tutto. Ancora una settimana, mercanteggiai fra me: se il primo dicembre sono ancora qui, correrò il rischio.
Il giorno dopo, ventiquattro novembre, arrivò un pacchetto: piatto e rettangolare, dalla forma e dimensioni di una piccola risma di fogli. Ringraziai la Sorella che me l’aveva portato e sperai che non notasse che mi tremavano le mani mentre lo prendevo. Il mittente era indicato come un certo L. Koopmans di Amsterdam… Il mio contatto? La mia nuova identità?
Corsi in camera con il pacchetto, controllai che non ci fosse in giro nessuno per i corridoi, poi chiusi la porta e mi lasciai scivolare sul pavimento. Strappai l’involucro senza curarmi di rovinare la carta. Ero così sicura di cosa avrei trovato dentro che pensavo di non doverla più risparmiare.
Nel pacchetto c’era un bloc-notes vuoto, di quelli usati nelle ultime classi delle superiori. Non era accompagnato da un biglietto, ma c’era una riga di dedica sul retro della copertina: Per le tue poesie. Conservale.
Scagliai il taccuino dall’altra parte della stanza, e nascosi disperata la testa tra le ginocchia.
Solo dopo compresi che immenso regalo mi avesse fatto Leona.
Le scrissi ringraziandola, promettendo di andarla a trovare quando fossi potuta tornare in Olanda, e poi chiedendole di inoltrare il mio messaggio a Isaak. Lei l’avrebbe fatto, e senza chiedere nulla. Stracciai la busta per Jet, tirai fuori la cartolina, la chiusi dentro quella per Leona, quindi corsi giù all’ingresso dove si raccoglieva la posta in uscita. Avrei fatto in tempo per il prelievo delle quattro.
Poi cominciai a sfinirmi di calcoli su quanto avrebbe impiegato ad arrivare. Avevo sentito dire che in Germania le poste funzionavano ancora bene, erano ancora efficienti; ma in Olanda non erano più molto affidabili… Tre settimane, forse quattro. Per metà dicembre – sicuramente per la fine del mese – Isaak avrebbe saputo dove mi trovavo, e un giorno di gennaio sarebbe venuto a salvarmi. Ogni sera rimanevo sdraiata nel buio a sognare il momento in cui avrei potuto sussurrargli: Abbiamo concepito un bimbo. Il peso di quelle parole, l’inesprimibile meraviglia che mi avrebbe legata a lui.
A meno che…
No. Non si poteva concepire un bambino in quel modo.
Il sei dicembre era San Nicola e la notte della vigilia, in Olanda, il santo portava regali. Nicola era il patrono dei bambini ma anche dei rapinatori, dei profumieri, dei marinai, dei viandanti… e delle ragazze nubili. Ormai in clinica c’erano altre undici ragazze olandesi, così la sera del cinque ritagliai undici zoccoletti di legno nella carta da regalo che avevo conservato e, dietro ciascuno, scrissi una poesiola augurante buona fortuna. Quindi li feci scivolare sotto gli usci di tutte loro.
Io avevo già avuto il mio regalo. Presto lui sarebbe venuto a prendermi.
Ma il nove, giorno del mio compleanno, ci svegliammo sotto la tormenta, e per terra c’era già mezzo metro di neve. A colazione alcune tedesche parlavano tra loro dell’inverno in Baviera. Appena mi fu possibile sgattaiolai nella nursery da Sorella Ilse.
«Ma è vero che potremmo rimanere bloccate dalla neve per una settimana?» le chiesi.
«Alle volte capita». Un bimbo cominciò a frignare nella culla e lei corse a prenderlo in braccio. «Questo qui è un vero porcellino, ha sempre fame. Guarda che fossette, però!» Me lo passò. «Cerca di tenerlo buono intanto che vado a scaldare il biberon; dovrò andare all’orfanotrofio per farmi dare un altro po’ di latte in polvere».
Scostai la copertina dal viso del piccolo. Lui si accigliò ancora di più e corrugò la fronte nuova di zecca, già indignato. Me lo premetti contro il collo e fiutai il debole odore del latte in polvere, che lì dentro era l’odore dell’abbandono. Poi lo strinsi più forte, e lui smise di piangere. Non aveva fame di latte.
Una volta tornata, Ilse si diresse col neonato verso la sedia davanti alla fila di finestre e si sedette. Ne presi una per me e sorrisi al piccolo, il quale prese a succhiare con avidità il biberon. Poi mi accomodai e guardai fuori: i fiocchi si erano ingrossati, e mi sentii soffocare.
«Quanto ci vorrà per ripulire le strade?»
Ilse mi guardò perplessa.
«Se rimaniamo bloccate…»
«Ah, non molto. La città è grande, sono i paesini di montagna che rischiano di essere tagliati fuori anche per un mese. Ma la gente lassù sa cosa fare».
«Sì, ma noi?» insistetti.
«Be’, non siamo in cima alla lista, ma nemmeno in fondo. Non ti preoccupare, Anneke: le scorte sono abbondanti e il riscaldamento funziona».
«Ma se ci fosse un’emergenza? Se qualcuno avesse bisogno di allontanarsi?»
Stavolta mi rivolse uno sguardo acuto. «Ma di che ti preoccupi? Io mi sono già fatta due inverni qui, ed è andato tutto bene. In clinica c’è sempre un medico, quindi è questo il luogo più sicuro in cui stare. E tu finisci il tempo in maggio, giusto?»
«Sì, è solo che… non sono abituata a sentirmi in trappola, mi sa. In Olanda non nevica in questo modo».
Sorella Ilse tolse delicatamente la tettarella di bocca al piccolo e poi lo rigirò per fargli fare il ruttino. Prima di rispondere gli descrisse piccoli cerchi sulla schiena.
«In trappola». Mi guardò negli occhi troppo a lungo. «Be’, neve o non neve io direi che sei intrappolata qui comunque, Anneke. Dove altro vorresti andare?»