Un giorno di metà dicembre ci dissero che quella sera gli orari del refettorio sarebbero cambiati. Avremmo consumato il pasto principale a pranzo e, tra le cinque e le sei, saremmo potute scendere per una cena leggera a base di affettati e insalata: dopodiché la sala da pranzo veniva requisita per la festa di Natale del personale. Forse Isaak lo sapeva, forse era l’occasione che aspettava.
Come al solito andai subito da Ilse.
«Niente nuovi nati oggi» disse alzando gli occhi da alcune pratiche.
«Va alla festa, stasera? Ci saranno tutti?»
Lei fece una smorfia schifata. «Dovresti starne alla larga pure tu».
«Perché?»
Fummo superate da una tirocinante che usciva dalla sala travaglio. Ilse si alzò dalla scrivania, diretta verso una pila di scatoloni accanto alla porta. Mi porse una scatola, ne prese una a sua volta e poi, a voce un po’ troppo alta, disse: «Vieni, aiutami a mescolare il latte in polvere».
La seguii dentro una stanzetta di servizio, ma una volta lì lei non si avvicinò né alle file di biberon né al lavello, e si limitò a sistemare i nostri pacchi di latte in polvere sullo scaffale insieme agli altri. Poi andò alla porta laterale, si sporse alla finestra che dava sulla nursery e gettò un’occhiata ai piccini, così stretti e tesi nelle fasce da sembrare tanti piccoli filoni di pane. «Loro non hanno colpa».
Poi tornò alla porta sul corridoio e la chiuse con cura. «Lo sai che cosa succede, stasera?»
«C’è una festa di Natale. Stamani hanno consegnato birra e grappa».
«Ah, per festeggiare festeggeranno di sicuro. Arriverà anche un carico di ufficiali delle SS, e tutte le ragazze che lavorano qui e ancora non sono incinte lo saranno probabilmente domattina. Quindi, altri bambini! Ecco il grande piano. Quanto a me, vado a casa a trovare mio padre. Ho il fine settimana libero, il primo in un anno».
«Be’, tuttavia… Il resto del personale ci andrà, giusto? Tutte le Sorelle e le infermiere?» Cercai di non assumere un tono troppo ansioso. «Tutte le guardie?»
«Tutto il personale tranne le guardie. Anzi raddoppieranno la sorveglianza, perché stasera non vogliono interruzioni né ospiti sgraditi».
Tentai di apparire semplicemente curiosa. «Di che interruzioni si preoccupano?»
«Anneke, siamo in Baviera. Gli abitanti di qui sono per lo più cattolici: molto, molto conservatori. Già li scombussola il semplice fatto che qui si alloggino ragazze madri; se trapelasse qualcosa su ciò che davvero accadrà stasera, potrebbero inscenare una manifestazione».
«E cosa accadrà veramente stasera? Come fanno a…»
«Ah, nulla di plateale. Sono tutti quanti cresciuti a propaganda, sanno cosa ci si aspetta da loro. La festa è solo una scusa per portare qui i maschi, per dare a tutti un’opportunità d’incontro. Poi si ritireranno nelle camere delle Sorelle».
Volse lo sguardo alla finestra, e io feci lo stesso.
«Loro non hanno colpa» ripeté, «e mi sento male se penso a quello che attende questi bambini una volta cresciuti».
«Che cosa intende?»
«Te lo dico solo se mi prometti di non dirlo a nessuno».
«Ma certo». Ormai ero diventata bravissima a mantenere i segreti.
Sorella Ilse gettò un’occhiata alla porta, poi riprese a parlare a voce molto più bassa. «L’America è entrata in guerra. I giapponesi l’hanno attaccata la settimana scorsa, e poi Hitler le ha dichiarato guerra».
Rimasi senza parole.
«È vero, anche se qui non ne sentirai parlare. Sono giorni che non ci consegnano i giornali, nemmeno lo Stürmer, hai notato? E in clinica ci hanno ordinato di non parlarne. Secondo mio padre è la prova che Hitler è pazzo, perché non saremo in grado di resistere agli americani e agli inglesi insieme. Non abbiamo già più forze, e perderemo la guerra».
«Ne è sicura? E, secondo lei, quando succederà?»
Ilse si strinse nelle spalle. «Presto, spero. Ma papà dice che ci vorrà almeno un altro anno, e che qui nel frattempo le cose potranno solo peggiorare, perché i nazisti vorranno intensificare il ritmo. Io comunque sono contenta, preferisco di gran lunga vedermela con gli americani che coi nazisti. Ma mi preoccupo per questi bimbi, per quel che il mondo penserà di loro, dopo. Tanto varrebbe tatuargli la svastica sulla fronte».
Guardai i piccoli: sei, quattro femminucce e due maschietti. Una sola, nella culla più vicina, era mezza sveglia: gli occhi tremolavano sotto le palpebre traslucide, socchiudendosi di tanto in tanto per dare un’esitante sbirciatina al mondo esterno. Mi carezzai il ventre ormai teso, arrotondato da una nuova vita. «Nessuno gliene farà una colpa. Chi potrebbe fare una cosa del genere?»
«Tu sei giovane, Anneke» rispose Ilse. Sentimmo una porta che si apriva, e un rumore di passi in corridoio. Lei guardò l’orologio. «La mia sostituta. Voglio prendere il primo treno, con tutto il fine settimana libero… Ci vediamo fra qualche giorno».
«Ci vediamo fra qualche giorno» ripetei. Quella sera non sarei fuggita di certo.
Ma le notizie di Ilse mi tirarono su il morale. Quando Neve rientrò in camera dopo pranzo avrei voluto dirglielo e, se non me l’avesse chiesto Ilse, non avrei mantenuto il segreto.
Neve si cavò di tasca un involto e lo mise nel primo cassetto. Dalla volta in cui le avevo preso l’accendino non si era più data la pena di nascondere la sua piccola riserva di provviste, ma non le avevo mai chiesto niente in proposito.
Ora feci un gesto in direzione del cassetto. «Neve, ma… quella roba?»
Lei fece spallucce. «Carpe diem».
«Carpe diem?»
«Nel caso tutto finisse. Potrebbero buttarci fuori domani e almeno non morirò subito di fame».
«Ma perché dovrebbero buttarci fuori?» Mi chiesi se avesse sentito la notizia degli americani, se sapesse qualcosa che io non sapevo.
Lei spalancò le braccia. «Non saprei. Questo è il punto: io non faccio affidamento su nulla. Tu sì? Quand’è stata l’ultima volta che le cose sono andate come pensavi?»
La domanda mi colpì. Ricaddi sul letto ridendo, e quel movimento mi diede una strana sensazione fra le scapole. «Non succede da un po’. O forse non è mai successo, ora che mi ci fai pensare».
Neve alzò gli occhi al cielo e cominciò a svestirsi.
D’un tratto mi venne un’idea. «Neve, che cosa ci fai?»
«Con la roba da mangiare? Circa ogni due giorni la butto nel cesso. Mi piace pensare che contribuisco ad affamare qualche soldato tedesco».
«Il venerdì potresti darmi le cose che altrimenti butteresti?»
«Il venerdì?» Rimase immobile nella sottoveste grigiastra di seconda mano, a riflettere con le labbra contratte. Pareva uno scricciolo, con quelle gambine secche e la testa inclinata sul collo sottile. D’un tratto mi resi conto che mi era molto simpatica, per quanto lei s’impegnasse a evitarlo. «Oh. La donna delle pulizie?»
Annuii. «Voglio cominciare anch’io».
«Non saprei…»
«Le dirò di stare attenta. E se qualcuno se ne accorge, mi prenderò tutta la colpa».
Neve ci pensò su un momento. «Direi che, se il venerdì vai a sbirciare nel mio cassetto, io non c’entro. Ed è meglio che buttare la roba nel cesso». Mi rivolse un accenno di sorriso, poi prese dal guardaroba il suo unico vestito buono e se lo tirò sul pancione. Quindi mi guardò e parve notare per la prima volta che ero già pronta per andare a letto. «Non scendi?»
«No. Rimango qui». Indicai alcuni libri sulle cure prenatali che avevo preso in biblioteca. «Preferisco leggere».
«Tu sei matta» borbottò lei infilandosi le scarpe. «Musica… Da quanto tempo non sento un po’ di musica! E si balla… voglio solo rivedere un po’ di gente che balla».
«Tanto non ti fanno entrare. Lo sai che cosa succede veramente?»
«Sì». Si pettinò i capelli dietro le orecchie, poi se ne soffiò via una ciocca sottile dagli occhi. «La fiera della monta. Non voglio entrare, voglio solo guardare. E ascoltare».
«La cosa non ti disturba?»
«Mi spiace per loro, ma hanno quello che si meritano: niente amore e nemmeno desiderio. Comunque, a che servirebbe? Le tedesche sono tutte capre in fregola».
«Che bel quadretto». Risi. «Non so se riuscirò a rimanere seria, la prossima volta che vedrò la Klaus».
«Ritiro quello che ho detto. Le ho viste, le capre in amore: almeno i maschi si divertono. Ma t’immagini che orrore, avere addosso uno che ti sbatte senza desiderarti minimamente, ma solo per fare il suo dovere? No, grazie, preferisco l’amore, o almeno il desiderio».
«Neve» attaccai. Poi m’interruppi. Lei erigeva alte barriere intorno a certi argomenti. Ma stasera pareva che avesse scostato leggermente il cancello, così azzardai la domanda. «È stato così, fra te e il padre del bambino?»
Lei mi rivolse un sorriso ironico e mi guardò come a dire: è questo il problema, vero? «Un po’ e un po’. Era quello il problema».
Per fortuna non mi rivolse la stessa domanda.
Se ne andò di sotto e io le chiusi la porta alle spalle, ma riuscivo comunque a sentire il fonografo e le risate. L’oscuro boato delle voci maschili sembrava pericoloso, in quel luogo di tenere ragazze in carne. Col procedere della serata i maschi divennero sempre più sbronzi, le loro grida più alte. Mi alzai dal letto per contrassegnare un altro giorno sul calendario. All’improvviso mi venne in mente una cosa, e cominciai a fare qualche calcolo. Sì, era la prima sera di Hanukkah.
Cinque anni erano passati, ma stasera mi sembrava una buona idea festeggiare un miracolo toccato agli ebrei. Presi dal cassetto una candela e l’accesi, mormorando la benedizione rituale.
Da sotto venne un rumore di vetri rotti, seguito da un silenzio stupito; poi altre risa e altri vetri rotti.
Soffiai sulla candela e la rimisi nel cassetto.