«Anneke, è arrivato il padre!»
Il cucito mi cadde in grembo. Fissai Inge, ferma sulla soglia.
«È in sala ricreazione. Mi hanno mandato su a dirtelo».
Provai un istante d’irritazione nei confronti di Isaak per non avermi avvisata del suo arrivo, ma solo un istante. Saltai in piedi e aprii l’armadio: mi servivano i documenti, oppure lui ne aveva di nuovi da darmi? Dovevo fare le valigie? E il pacchettino sotto l’armadio?
Mi sentii addosso lo sguardo di Neve. «Che stai facendo?» chiese. «Cosa aspetti?»
«No, pensavo… Come sto?» Poi afferrai le mani di Inge. «È qui veramente? Tu l’hai visto?»
Lei sorrise. «Bel ragazzo. Se non fossi già incinta…»
Un lampo, il viso di Isaak davanti ai miei occhi. Per un momento fui presa dal panico: lui qui, con i suoi occhi scuri, i suoi capelli neri? Certo, era perfettamente in grado di badare a se stesso, e ora si sarebbe preso cura di me. Cinque mesi di preoccupazioni si dissolsero all’improvviso in un riso sfrenato. «È vero! È bellissimo!» Corsi fuori, non vedevo l’ora di arrivare da lui. Tra un secondo l’avrei visto. Tra due, ce ne saremmo andati. Era finita.
«Piano, stai attenta» borbottò Neve, affrettandosi per tenere il passo.
Ma non ci riuscivo. Volai giù per le scale e schizzai per i corridoi fino alla sala, quasi temessi che lui potesse scomparire.
Quando ne colsi il primo scorcio, attraverso la doppia porta vetrata, mi mancò il fiato: chino sul pianoforte, di spalle, pareva più robusto di come lo ricordavo e indossava l’uniforme della Wehrmacht. Aprii e mi precipitai dentro, col cuore che scoppiava per l’agitazione.
Al rumore lui si voltò. E io rimasi paralizzata.
Poi entrò anche Neve. Rapidissima, contrassi il viso in una maschera e mi costrinsi ad avanzare verso di lui. «Karl, sei venuto». Con gli occhi lo pregai di non dar voce alla domanda che vedevo nei suoi. Poi mi voltai verso Neve. «Scusa, vorremmo stare un momento da soli».
Lei se ne andò, ma nel passare indugiò con le dita sulla boiserie e mi scoccò un’occhiata. Chiusi la porta alle sue spalle.
«Dov’è Anneke?»
«Non c’è. Grazie per non aver detto niente, un attimo fa».
«Devo vederla, Cyrla».
«Non c’è» ripetei. «Puoi anche andartene».
Karl si cavò una busta dal taschino della giacca e me la mostrò. «Ho saputo che è qui. E ho saputo che è incinta, e ha dichiarato che il padre sono io. Quindi devo vederla».
Lo guardai truce, perché si comportava come se la notizia della gravidanza di Anneke l’avesse sorpreso.
«Se n’è andata? È a casa? E tu che ci fai qui?»
La stanza divenne così vivida che i colori sbiancarono. Rischiai di scoppiare a piangere. «Ssst! Non c’è» riuscii a dire per la terza volta. Poi incrociai le braccia sul pancione e mormorai: «Io sto usando il suo nome, lei qui non c’è mai stata, e tu te ne puoi andare».
Karl si avvicinò, la busta ancora stretta in mano. «Allora non è incinta?»
Scossi la testa.
«E quindi… sei stata tu? A dire che ero io il padre, a farmi chiamare?»
Mi limitai a guardarlo.
«O è stata una sua idea?»
«No!» Non riuscivo a pensare con la rapidità necessaria. Vidi che lui cercava di rispondere da solo a tutte quelle domande, ed ebbi un tuffo al cuore. «Cioè, voglio dire, sì. I moduli li ha compilati lei, e non sapevo che ti avesse indicato come il padre. Senti, ho dei buoni motivi per usare il suo nome, ma tu puoi andartene, la cosa non ti riguarda».
«Invece sì». Sventolò di nuovo la busta e si avvicinò, abbassando la voce. «Questi sono ordini: ci si aspetta che mi assuma la responsabilità del bambino, una volta nato, almeno dal punto di vista economico. Non m’importa del perché tu usi il suo nome, ma questa faccenda mi riguarda di sicuro».
«Farò apportare una correzione» mi affrettai ad assicurargli. «Farò cambiare il nome sui moduli».
Karl si fermò un istante, mi guardò, guardò la busta. Poi tornò a guardare me.
«Lo farò oggi stesso». Andai a prendergli il pastrano, fradicio di neve, e glielo porsi.
«Lei come sta?»
Serrai le labbra e distolsi lo sguardo.
Karl prese il cappotto e si avviò alla porta. Posò la mano sul pomello, ma poi si voltò. «Le ho scritto. Non mi ha risposto. Le darai un messaggio da parte mia? Dille che la penso, e spero… be’, spero che sia felice. Dille così e basta».
Riuscii soltanto ad annuire, la bocca ben chiusa per non lasciarmi sfuggire nulla. Guardai la porta con intenzione, ma lui ancora non se ne andava.
«Sai, quando ci vedevamo era come se ci fossi anche tu, perché non la smetteva mai di parlare di te».
Sentii il pericolo addensarsi nell’aria, e il respiro che si accorciava. Basta, per favore. Ti prego, vattene. Ti prego. Ma lui si appoggiò al vetro e mi guardò più attentamente.
«Mi ha fatto vedere le tue poesie. C’era un verso… stava in una poesia sul legno, su quello che il legno significava per te. Adesso non me lo ricordo, ma quando l’ho sentito ho pensato: Sì, è proprio quello che provo io. Volevo solo dirtelo. E guarda un po’» Karl sorrise, i denti così bianchi da abbagliare, gli occhi troppo azzurri, «ce l’ho fatta».
Per un istante ricambiai con un sorriso autentico. Aveva toccato una corda che mi ero dimenticata di irrigidire. «Farò togliere il tuo nome da quei moduli oggi stesso». Il tono era freddo.
Karl mi guardò come se l’avessi percosso. Bene. Aprì la porta e se ne andò, gli stivali che battevano un tempo marziale lungo il corridoio, e io mi afflosciai sul divano con le mani premute sul cuore che batteva all’impazzata. Il sangue mi martellava nelle orecchie e per questo non lo sentii tornare, ma d’un tratto me lo ritrovai nuovamente davanti.
«No» disse, buttando il cappotto su una sedia. «Mi sono ricordato di una cosa».