42.

«Che cosa ci fai tu qui?»

L’espressione nei suoi occhi non era ostile, ma io feci un balzo indietro.

Lui si raddrizzò e io seguii il suo sguardo. Dietro le altre porte vetrate, quelle che conducevano al refettorio, due inservienti di cucina intente ad apparecchiare per la cena si erano fermate a osservarci. Dall’altro corridoio veniva uno scroscio di chiacchiere.

«Facciamo una passeggiata». Mi porse il braccio, per aiutarmi a tirarmi su dal divano.

Lo respinsi, ma gli dissi che andavo a prendere il cappotto. Di sopra, mi accasciai sul letto. Sapevo cosa gli era tornato in mente: quello che gli aveva detto Anneke. L’avevo capito da come mi guardava. L’altra sera, a cena, una ragazza si era messa a bisbigliare di alcuni ebrei scoperti in clandestinità a Zaandam. Mi alzai, raggiunsi la toletta e mi spruzzai sul viso l’acqua del catino. Il panico era un lusso che il mio bambino non poteva permettersi. Avevo ancora scelta, e un’unica possibilità.

Mi sarei ricomposta, avrei fatto una passeggiata con Karl, e gli avrei detto qualunque cosa potesse indurlo ad andarsene senza denunciarmi fino al suo rientro in caserma. Qualunque cosa. Perché nel giro di poche ore avrebbe fatto buio.

All’ingresso principale c’era Frau Klaus dietro la scrivania. Karl si identificò e le disse che avremmo fatto una passeggiata nel parco della clinica.

«L’aria fresca farà bene alla signorina» concordò lei. «Le ragazze non escono abbastanza, in questa stagione». Ci squadrò e parve approvare. Mi imposi di fare un bel sorriso a Karl, come se fossi felicissima di rivederlo. Lui me lo restituì, e io capii come si fosse guadagnato la cieca fiducia di Anneke: quello era il genere di sorriso che poteva farti credere a qualunque bugia. Io non avrei ripetuto il suo errore, però.

Fuori aveva smesso di nevicare, ma tirava ancora vento. Sul gradino Karl si voltò e mi rimboccò un poco il cappotto. «In vita non si abbottona più, te ne serve uno nuovo». Poi estrasse i guanti dalla tasca del suo, e a me si fermò il respiro. Sentii in bocca il cuoio e l’olio da motori. E il sangue.

«Che succede?»

«Niente». Mi allontanai. Lui non era l’Oberschütze, ma era altrettanto pericoloso. Mi avviai verso il giardino posteriore, lungo il vialetto cosparso da virgole di neve gelata, e lui mi venne dietro. «Che cosa vuoi sapere?»

Karl passò dall’altra parte e si mise a camminare di traverso, bloccando il vento freddo col proprio corpo. «Tutto. Che cosa ci fai qui? Tu non sei al sicuro in questo posto».

«Sono incinta, tutto qui».

«Non è tutto qui. Perché usi il nome di Anneke?»

Distolsi lo sguardo.

«Ah, i documenti. E adesso come fa Anneke con i documenti? Dov’è?»

Continuai a evitare i suoi occhi. «Hai ragione, avevo bisogno dei suoi documenti. A lei non servono. Ora te ne puoi andare, Karl».

«No. C’è qualcosa che non mi torna. Perché vuoi stare qui?»

«Che t’importa? La cosa non ti riguarda».

«E invece sì. Non scordarti che in teoria il padre sono io, e penso che questo mi dia il diritto di sapere che cosa sta succedendo. Allora, che cosa ci fai qui?»

Tu non hai diritto di sapere un bel niente, pensai. Tu non hai uno straccio di diritto perché non hai chiesto niente del bambino di Anneke. Del tuo bambino. Perché fingi che non ne sapevi nulla. Mi morsi le labbra per non farmi scappare le parole.

Girammo l’angolo, e una folata d’aria gelida mi punse il viso. Karl si mise di fronte a me, camminando all’indietro, in attesa della mia risposta. Ma io non volevo la sua protezione, così mi voltai di nuovo e mi diressi verso il cortile.

Mi raggiunse. «E va bene. Indovino da solo. Sei rimasta incinta e questo posto ti sembrava l’ideale, c’è da mangiare e ci sono i dottori. Ma pensavi di non riuscire a entrarci senza le carte giuste, perciò hai usato quelle di Anneke. Lei è partita, Cyrla? Dov’è andata?»

«Lei non c’è». Se udì la mia voce tremare, Karl non lo diede a vedere.

«Continuo a non capire perché abbia fatto il mio nome».

«Te l’ho detto, a quello ci penso io».

Avevamo raggiunto il cortile. Karl indicò una panchina un po’ discosta, riparata dal vento. «Siediti». Si tolse il cappotto, me lo posò sulle spalle e mi sedette accanto, così vicino che riuscivo a sentire il suo profumo… mandorle e pino silvestre. Troppo vicino.

«È arrabbiata con me, e questo era un modo per farmi del male… Ho indovinato? No, è un’idea stupida e pericolosa, non credo che avrebbe fatto una cosa del genere. E non credo che tu sia incinta di un soldato tedesco. Cyrla, dimmi che cosa sta succedendo».

Ero così tesa che la pelle mi sembrava una rete di ronzanti fili elettrici. Ma ero anche furibonda. «Altrimenti cosa fai, mi denunci?»

«No, ovviamente no. Voglio solo sapere cosa succede. E non me ne vado finché non me lo dici».

«Non puoi costringermi. Ti dirò una bugia».

«No, non lo farai». Lo disse con grande sicurezza, come se mi conoscesse bene.

Allora lo guardai dritto negli occhi, pensando a quanto odiavo quell’uomo e dissimulando i miei sentimenti. Lui non mi conosceva affatto, ma io conoscevo lui: era un grandissimo egoista, aveva mollato mia cugina dopo averla messa incinta, dopo averle mentito parlando d’amore. L’aveva lasciata talmente sola e disperata che lei era morta dissanguata, cercando di svuotare l’utero che lui aveva riempito. Era uno schifosissimo vigliacco.

Avrei voluto rivolgergli tutte queste accuse, costringerlo ad affrontare un processo almeno davanti a me. Ma non potevo permettermi di suscitare la sua collera e le parole trattenute erano un peso dentro il petto, che s’induriva come un diamante e dissipava la paura. Karl aveva ragione: non gli avrei mentito. Quel che sapeva di me non importava più, ormai.

«E va bene. Mi sto nascondendo, qui dentro. Qualcuno mi ha denunciata, o ha minacciato di farlo. Tu, probabilmente».

Karl tese una mano guantata e io mi allontanai di scatto. Ma non voleva toccarmi il viso: mi scostò gentilmente i capelli e con delicatezza sfiorò l’orecchino di Anneke. Aveva gli occhi colmi di sorpresa e dolore.

«Lei non se li mette?»

Li tolsi entrambi e glieli porsi.

«Erano di mia nonna» disse lui scrutandoli sul guanto, come se non riuscisse a capire da dove fossero venuti. «Non li vuole più?»

Poi mi guardò negli occhi, e io non mi girai abbastanza in fretta.

«Come? Oddio, no. No!»

Ma il mio silenzio gli rispose .

«Cyrla, Anneke è morta? Che cosa è successo?»

Alzai le mani e scossi il capo, sentendomi le lacrime agli occhi. Karl fu sul punto di abbracciarmi, poi si trattenne.

«Dimmelo, ti prego. No… non può essere morta».

Per un istante provai l’impulso di consolarlo, poi tornai in me. Quell’uomo aveva ucciso mia cugina, proprio come se le avesse piantato una pallottola nel cuore; e quella sera senza dubbio mi avrebbe denunciata. Però voleva bene ad Anneke, questo era vero: e d’un tratto mi resi conto, come se lei in persona me l’avesse sussurrato all’orecchio, che il suo bisogno di sapere che cosa era successo sarebbe stato la chiave della mia fuga.

«Torna domani» sussurrai. «Ora non posso parlare. Torna domani e ti racconterò tutto».

Karl esitava.

«Te lo prometto. Domani».

Annuì. «Torno domattina».

«Mi troverai qui» mentii.