43.

Non appena tornai in camera, il sollievo mi travolse. Mi sentivo debole, sfatta, come se muscoli e spina dorsale fossero diventati gelatina sotto un getto di vapore. Aprii il guardaroba e iniziai a considerare che vestiti mettere, uno dopo l’altro.

«La campanella del primo turno è suonata dieci minuti fa».

Sussultai, sentendo la voce di Neve alle mie spalle.

«Che hai?» domandò. «Così agitata per il tuo bel soldatino che ti sei dimenticata di mangiare?»

«Sì… infatti» dissi ridendo, ma la risata sembrò stridula e falsa persino a me. Rimisi tutto nell’armadio e chiusi l’anta.

«Che cosa voleva? Mi pareva avessi detto che era finita».

«Tu scendi? Vengo con te».

Lei si diede un buffetto sul pancione, ormai alto e teso. «Qui ormai non ci sta più niente, però ho sempre fame. Devo solo cambiarmi le scarpe». Da sotto il letto tirò fuori gli zoccoli di legno e se li infilò. «Non ci posso credere, vado in giro con i klompen come una contadina» sospirò. «Ma sono le uniche scarpe che non mi fanno male». Aveva le caviglie gonfie e venate di capillari: il momento si avvicinava. Guardai bene la faccia tirata, con grandi ombre violacee sotto gli occhi. Negli ultimi mesi la figura spigolosa di Neve si era finalmente ammorbidita e aveva assunto un aspetto pieno e rigoglioso, ma ormai sembrava un frutto rimasto troppo a lungo sull’albero.

«Te la senti?»

«Sì, andiamo».

«Ehi» aggiunsi. «Andrà tutto bene».

Non avevo fame, ma prevedevo di camminare per ore al freddo e di non riuscire a trovare niente da mangiare per un pezzo, quindi cenai. Imbottii un panino con una bella fetta di prosciutto e poi, al riparo da occhi indiscreti, me lo infilai in tasca. Al nostro tavolo c’era una nuova arrivata olandese e la salutai, ma lei si girò dall’altra parte e io ne fui lieta. Intorno a me le altre chiacchieravano, ma le loro parole erano come falene senza peso, che mi fluttuavano dentro e fuori dalla testa. Ero concentrata sulle cose da portare via, sulla direzione da prendere, su come fare a capire di chi fidarmi quando avessi deciso di bussare a qualche porta. Guardai fuori dalla finestra, spiando i segni di un’altra nevicata. Era già buio, ma volevo aspettare fin dopo l’inizio del turno di notte, alle otto, quando c’erano meno guardie in giro. Alle otto e mezzo, me ne sarei andata alle otto e mezzo.

«E tu? Tu ti sposteresti, Anneke?»

Rimasi paralizzata, con una cucchiaiata di minestra a mezz’aria.

Betje scosse il capo e alzò gli occhi al cielo. «Non hai sentito niente?»

«Spostarmi dove?» Rimisi cautamente a posto il cucchiaio. «Mi spiace. Il bambino scalciava e non ero attenta».

«Qui. In Germania, se vivessi in Norvegia». Si chinò verso di me e abbassò la voce, anche se adesso, con tante ragazze belghe e olandesi, riempivamo un tavolo intero. «Stamattina ho sentito due infermiere che parlavano: in Norvegia i tedeschi hanno cominciato a incoraggiare le ragazze a venire a stabilirsi qui. Perché accontentarsi del vitello se puoi avere la fattrice? Fanno delle proposte difficili da rifiutare… le corrompono».

«No, le rapiscono» intervenne la nuova. Posò il bicchiere di latte e ci guardò. «O per lo meno le ricattano. Se vogliono occuparsi dei piccoli dopo la nascita, devono trasferirsi».

Betje alzò le spalle. «Un altro anno di guerra e dell’Olanda non resterà niente, come anche della Norvegia. Quelle ragazze dovrebbero venire qui di corsa e ringraziare. Magari potessi restarci io».

Passai in rassegna la tavolata, aspettando che qualcuno ribattesse: La guerra non durerà ancora molto. Non sentivo queste parole da quando avevo lasciato Schiedam, e ora suonavano come un’accusa. M’imposi di pronunciarle io stessa, ma non ci riuscii: Betje aveva ragione. Però comunque mi sentii scoraggiata, quando lei insistette.

Spezzò un panino e si mise a imburrarlo. «I nostri figli saranno tutti qui, gli uomini che ci hanno messe incinte saranno tutti qui. Cosa ci rimane?» Si chinò in avanti e con il coltello indicò la ragazza nuova. «A te, cosa rimane?»

L’altra raddrizzò la schiena. «Niente. Non mi è rimasto niente». Qualcosa, nel tono della sua voce, ci fece voltare tutte verso di lei, che si indicò il pancione, ma senza toccarlo. «Tornavo a casa, ero in ritardo. Dopo il coprifuoco. Sono stati due soldati. Il mio ragazzo non mi guarda neanche più in faccia, anzi, tutti i miei compaesani… Quei due mi hanno preso tutto quello che avevo, e io non rimarrò in questo paese un secondo in più del necessario».

Calò sul tavolo un lungo silenzio nervoso. Tesi la mano e sfiorai quella della ragazza nuova. «Anch’io voglio tornare a casa. Non m’importa di cos’è rimasto, voglio solo tornare a casa».

Per un istante lei mi guardò riconoscente, poi abbassò gli occhi sulla minestra, intatta da così tanto che il grasso aveva formato una sottile pellicola arancione in superficie. Quindi ripiegò il tovagliolo e si alzò: e a me parve che si ergesse alta e senza peso, e che il pancione s’involasse greve al suo seguito, staccato da lei. Si avviò verso le porte del refettorio, fermandosi per un istante come a decidere qualcosa; poi sembrò che le spalle s’irrigidissero sulla spina dorsale, e sollevò il capo. Quando se ne andò, provai un senso di perdita.

Spinsi da parte il piatto, la seguii e la raggiunsi sull’ultimo ballatoio. «È successo anche a me». Non mi ero resa conto che avrei detto quelle parole.

Lei si morse il labbro per un attimo, e lo sguardo si indurì. «Non è mica un circolo privato dove voglio entrare» sbottò a dire dopo un lungo silenzio.

«Pensavo solo…»

«Lasciami in pace!» Si voltò e s’incamminò verso la propria stanza, due porte dopo la mia, dove rientrai dopo che lei si fu chiusa l’uscio alle spalle. Avrei voluto salutarla.

Poi arrivò Neve e mi chiese se scendevo a vedere il film serale.

«Che c’è questa settimana?»

«Alimentazione, igiene, sempre la stessa roba. Chi se ne frega?»

Erano le sette e mezzo. «Ho il mal di testa» le dissi, tastandomi la fronte con le dita. «Ho bisogno di andare a letto presto».

Lei mi scrutò per un istante. «Vuoi un’aspirina?»

M’imposi di sorridere. «No, veramente, vado a letto e basta».

«Va bene, contenta tu» rispose infine, e se ne andò.

Quell’ora passò più lenta che mai, ma finalmente giunse il momento. Mi tremavano le mani. Smagliai il primo paio di calze e litigai con i bottoni del cardigan, poi mi misi al collo il borsellino di velluto e me lo infilai sotto il maglione. Sembravo più imbottita del solito, ma non in modo esagerato. Mi resi conto del problema quando presi il cappotto: non potevo scendere con quello addosso, e nemmeno tenerlo sul braccio; le ragazze stavano per lo più in sala ricreazione a vedere il film, ma poteva esserci qualcuno del personale in giro per i corridoi.

Ripiegai il cappotto in fondo al cesto della biancheria, poi lo coprii con la sottoveste e la camicia da notte che mi ero appena tolta. Gettai un ultimo sguardo alla mia camera, la mia casa per cinque mesi, dopodiché uscii.

Sulle scale non incontrai nessuno, e nemmeno nel vestibolo; sobbalzai incrociando Sorella Solvig nel corridoio est, ma lei si limitò a un cenno del capo. Quel corridoio si biforcava, in fondo: a destra c’era la porta di servizio, sulla sinistra la lavanderia. E proseguendo oltre la lavanderia… Scrutai il passaggio e sperai che il bimbo di Leona in qualche modo capisse, e non avvertisse il veleno dell’abbandono che inaridisce il cuore.

Mi avviai rapida a destra, tolsi il cappotto dalla cesta e lo cacciai in un angolo del sottoscala; quindi portai la cesta in lavanderia, dove non avrebbe destato sospetti, tornai indietro di corsa e mi infilai il cappotto.

Le luci del corridoio si fecero d’un tratto così vivide che mi bruciarono gli occhi, lasciandomi una pioggia di scintille sulle palpebre. Posai una mano sul paletto del catenaccio, ma non riuscivo a imporre al braccio di farlo scivolare indietro. Ancora una volta mi feci coraggio con il solito trucchetto. Dovevo solo raggiungere, mi dissi, il folto degli abeti a metà del vialetto: le Signore Tideman, come dicevano tutti. Un antico residente del luogo aveva battezzato gli alberi in onore delle proprie vicine, tre alte e vecchie zitelle che usavano fare capannello nei loro lunghi abiti scuri, sempre a bisbigliare e a sospirare. Sarei semplicemente arrivata fino alle Signore Tideman a prendere un po’ d’aria – non era poi così strano – e poi, se volevo, sarei potuta tornare indietro.

Ma il trucco non funzionava. A cosa potevo tornare? Sarebbe stato Karl a tornare. Mi strinsi al petto la lettera di mio padre per un attimo, feci scorrere il catenaccio e uscii nella notte.

L’aria era gelida, e così chiara che sembrava aver affilato le stelle. Buon segno: per stanotte non avrebbe più nevicato. Corsi verso gli abeti e penetrai nel boschetto. Anche con quel freddo l’aroma tra i rami era intenso, e rinforzò la mia decisione.

Un uomo di guardia. Quando si accese la sigaretta capii che era solo. Poco tempo dopo controllò l’orologio al lume della brace ardente, poi buttò il mozzicone e s’incamminò. Il cuore mi batteva all’impazzata, ma non mi mossi. Non ancora. Meno di dieci minuti dopo era tornato al suo posto.

Cominciavano a farmi male i polpacci, a causa del mio nuovo peso, ma rimasi ferma dov’ero, limitandomi a inspirare ed espirare con calma l’aria gelida, diventando parte della notte. La guardia lasciò di nuovo la sua postazione ma io ancora non mi mossi, cambiai soltanto posizione. Poi tornò. Se lo faceva per abitudine, stava via giusto sei minuti, forse sette; probabilmente percorreva il lato orientale del perimetro e poi tornava indietro.

Stavolta si fermò più a lungo, passò almeno un quarto d’ora. Avevo il cuore in tumulto. Si accese un’altra sigaretta e, quando si chinò dentro l’alone di luce, boccheggiai: sembrava vicinissimo. A quel punto alzò di scatto gli occhi, come se mi avesse sentito, e scrutò fra gli alberi così a lungo che il fiammifero gli strinò le dita. Lo gettò via e poi allungò appena il collo, fumando, con lo sguardo rivolto all’edificio. Finalmente gettò la sigaretta nella neve e riattraversò il cancello.

Feci un respiro profondo e lo seguii, restando sulla neve per non fare rumore. Mi appiattii contro il muro, tra le pietre gelide, per calmare il cuore; oltre l’ingresso la strada era immersa nell’oscurità, salvo che per due pozze di una fioca luce giallastra sotto la torretta principale, quaranta metri più in là. Mi sarei messa a correre nella direzione opposta, rasente al muro, finché non avessi attraversato per poi ripararmi un po’ sotto una siepe di sempreverdi. La guardia non si vedeva da nessuna parte, non sentivo niente. Feci un passo avanti.

«Dove credi di andare?» Mi afferrò per l’avambraccio e mi fece fare una piroetta. Mi divincolai per liberarmi, ma la stretta era ferrea. «Il tuo soldatino, quello che girava con te prima, è ancora nei paraggi?» Rise con l’aria di chi la sa lunga. «Il galletto passa a trovarla, e la pollastra deve corrergli dietro anche di notte. L’ho sentito dire, di quelle nelle tue condizioni».

«No!» sbottai. Ma poi feci spallucce e assunsi un’aria contrita.

Lui si sbottonò il pastrano e rimise la pistola nella fondina, provocando un crepitio di cuoio e acciaio nell’aria gelida. «Ma sei matta? Si muore di freddo, qui fuori».

«Per favore, mi lasci andare» tentai. «Starò attenta, sono ben coperta».

«Non puoi allontanarti da sola, e lo sai benissimo. E poi può venire a trovarti lui in camera, è una prerogativa dei padri. Parlane con Frau Klaus, ci penserà lei a organizzare tutto. E adesso, su, torniamo dentro».

«Posso andare da sola» lo rassicurai freddamente.

Ma lui mi riaccompagnò, al cancello principale stavolta, dove mi affidò al piantone interno, un sergente, e ne approfittò per ripetere la battuta offensiva.

«La gatta è in calore, e pensava di farsi una passeggiatina in paese per andare a trovare il suo ganzo. Magari mi toccherà darle una mano, appena smonto di guardia». Fece un gesto avanti e indietro col bacino nella mia direzione, nel caso non avessi capito bene.

Il sergente rise e si alzò, spingendo da parte un piatto di cosce di pollo e insalata di cavolo rosso; le labbra erano lucide di grasso, nella vivida luce del vestibolo principale. Mi afferrò sotto il mento, cercando di farmi alzare lo sguardo: le dita unte premettero sul triangolo di pelle ammaccato dall’Oberschütze e trovarono il marchio che non sarebbe mai scomparso.

Girai sui tacchi senza guardarli in faccia e corsi in camera mia.