47.

Dopo tutto quello che era successo con Neve, trascorsi sempre più tempo all’orfanotrofio: anche quattro ore al giorno, talvolta, a stringermi forte Klaas al petto, a mormorargli menzogne sul fatto che era al sicuro, che tutti gli volevano bene. Cominciai a tenere un diario per Leona, sul retro del blocco che mi aveva regalato:

Ha tre ciuffetti di capelli, tre! E un gran senso dell’umorismo… appena lo prendo in braccio mi tira per la manica e mi chiede di nascondermici dietro, per poi fare capolino, così lui ride. Ha la tua risata, e le tue stesse fossette…

Misera consolazione, ma del resto quelli erano giorni di misere consolazioni. A Leona avrebbe fatto piacere scoprire che ritrovavo pezzi di lei in suo figlio, e io mi rallegravo al solo pensiero. Mi sorpresi a domandarmi cos’avesse preso Klaas dal padre: potevo forse escludere per un momento i tratti di Leona e scorgere qualcosa dell’uomo che lei aveva amato, almeno quella sera? Il modo di dormire con i pugnetti sotto il mento? Le orecchie grandi? Che tipo d’uomo era, l’esperto di baci con i biglietti omaggio per il cinema?

Occuparmi di Klaas mi riempiva le giornate, e la notte pensavo solo a come sarebbe andata quando Isaak fosse venuto a prendermi con il disgelo, come avevo deciso. Nient’altro sembrava reale, là dentro, e mi ero completamente dimenticata anche di Karl, quando lui d’un tratto ricomparve. Ero nervosa perché non ero preparata: al mio ingresso nel salottino si alzò e mi venne incontro sorridendo. Scrutai quel sorriso, cercando di capire quali minacce nascondesse: solo un ricatto, speravo. Magari ci aveva ripensato e aveva deciso di ricavare qualcosa da quello che sapeva.

«Come stai?» chiese. «E il bambino?»

«Che cosa vuoi?»

«Ho scoperto alcune cose. Dovrei parlarti, Cyrla».

Corsi con lo sguardo alla porta.

«Lo so» disse Karl. «Non ti chiamerò così, se c’è in giro qualcuno. Possiamo parlare?»

Feci un respiro profondo e spalancai le braccia. «Va bene».

«D’accordo, però sediamoci. Hai l’aria stanca».

Mi accomodai in poltrona, così non avrebbe avuto la possibilità di sedermi accanto, così quell’uniforme non mi avrebbe sfiorata. Lui avvicinò la poltrona gemella alla mia ma poi saltò subito in piedi, si avvicinò a una sedia vicino alla porta e da sotto il pastrano tirò fuori una grossa scatola che mi portò, sorridendo suo malgrado. «Apri».

Gli scrutai di nuovo in volto i segni del pericolo.

«Apri» ripeté lui. Ma non attese: s’inginocchiò vicino a me, tolse il nastro argentato dalla scatola e poi sollevò il coperchio. Ne trasse un cappotto che mi drappeggiò in grembo: di lana blu cobalto, spessa e morbida, con ampi risvolti neri di agnellino ricciuto.

«Ti piace? Ti va bene, lo so già. Mi ha aiutato mia sorella a sceglierlo perché è stata… be’, ha avuto un bambino. Guarda, si chiude a portafoglio, così potrai mettertelo anche dopo».

«Ma che cos’è?» lo interruppi, ricacciando il cappotto nella scatola. «Cosa credi di fare?»

«Ti serve un cappotto nuovo. Quello vecchio non ti si abbottona più».

«Ma non lo voglio da te. Non mi serve proprio niente, da te».

Karl rimise il coperchio sulla scatola e la posò sul pavimento. «Invece credo di sì». Andò alla porta, la chiuse e tornò a sedersi vicino a me. «Credo che tu non abbia nessun altro perché, se ce l’avessi, ti avrebbe almeno fatto avere un cappotto che si abbottona».

Guardai fuori dalla finestra: la nebbia sfilacciata che ormai ogni giorno si aggrappava alle cime delle montagne oggi era più scura e densa, e strisciava più bassa.

«Aria di neve» disse Karl, leggendomi nel pensiero e facendomi arrabbiare anche per questo. Gli voltai le spalle e non risposi.

«Senti, ho parlato con qualcuno. Prima cosa: non hai tolto il mio nome dai moduli, vero?»

Scossi il capo. Dopo che la guardia mi aveva sorpresa nel tentativo di fuggire, avevo cercato di non attirare più l’attenzione. E poi, dopo Neve, mi ero sentita più insicura che mai.

«Bene. Non farlo, è la cosa più importante. Quando il bambino arriva, sarà molto meglio per lui se c’è una paternità sul certificato di nascita. E anche per te, perché la cosa ti offre delle scelte. Te l’hanno detto?»

Scrollai le spalle, senza dire né sì né no.

«E se sui moduli appaio io, posso prendere decisioni che a te sono precluse».

Incrociai le braccia e continuai a guardare fuori dalla finestra.

«Per esempio, su dove va a finire dopo. Tu ovviamente cercherai di portarlo via con te, e come pensi di poter fare?»

Mi guardai le mani. Mi ero di nuovo laccata le unghie, e il rosso vivo mi sorprese come accadeva ogni volta: le mie mani assomigliavano moltissimo a quelle di Anneke, adesso. Nascosi le punte delle dita nei palmi, spinsi le mani lungo i fianchi, le seppellii nel crine rigido dell’imbottitura.

«Oh, mio Dio. Vuoi andartene prima che nasca? Sei in Germania, Cyrla. Come pensi di fare? Hai qualcuno fuori che possa aiutarti?»

Colsi l’occasione per mettere fine a quell’interrogatorio. «E va bene» sussurrai guardandolo in faccia. «Sì, tornerò a casa presto, perciò queste cose non hanno nessuna importanza e non ti riguardano».

«Che intendi dicendo che torni a casa?»

«Ssst… intendo a casa, a Schiedam! È tutto organizzato. Lo capisci o no, adesso, che non abbiamo veramente nulla da dirci? Te ne puoi andare».

Ma Karl non lo fece. Al contrario mi guardò in un modo che non mi piaceva per niente, e si avvicinò. Il suo sapone… mandorle e pino silvestre, ancora.

«Cyrla, quando è stata l’ultima volta che hai parlato con tua zia e tuo zio?»

«Oh, un paio di giorni fa».

Poi feci un gesto noncurante con la mano e lui tentò di afferrarla, ma io la ritrassi.

«Almeno sai dove sono?» chiese piano.

La stanza fu invasa da un odore di bruciato, come se le tende avessero preso fuoco.

Karl si accomodò contro lo schienale, le dita premute sulla fronte, e mi studiò attentamente. «Devo dirti una cosa. Dopo che mi hai detto di Anneke, avrei voluto scrivere una lettera ai tuoi zii. Ma sapevo che con ogni probabilità l’avrebbero buttata via, perciò ho chiamato un amico che è ancora di stanza a Schiedam e gli ho chiesto di passare di persona a porgere le mie condoglianze. L’ho sentito ieri».

«E allora?» Il sangue mi scorreva così tumultuoso in testa che a malapena sentii le mie parole.

«Non ci sono più». Karl vide la mia espressione sconvolta e si affrettò a spiegarsi. «No, voglio dire che se ne sono andati. La casa è stata requisita come alloggio per gli ufficiali».

«Dove sono?»

«Non lo so. Il mio amico non è riuscito a sapere nulla, salvo che l’abitazione è stata confiscata diversi mesi fa. Tra parentesi, non gli ho mai detto il tuo nome, perciò non ti ho fatto correre nessun rischio. Non devi preoccuparti».

Come se io mi preoccupassi per quello. La gente muore, se la lasci sola.

«Quindi perché non mi dici che cosa stai progettando veramente? Se avessi una via d’uscita – un modo per andartene – credo che a questo punto l’avresti già fatto. Io posso aiutarti».

Esaminai l’uomo che avevo di fronte, lo guardai negli occhi per la prima volta. Era un bugiardo, ma adesso non stava mentendo.

«Puoi scoprire dove sono? Se stanno bene?» gli chiesi.

«Ci posso provare. Però io intendevo…»

«È questo che puoi fare, per aiutarmi».

«E va bene. Hai idea di dove potrebbero essere andati?»

«Di’ al tuo amico di chiedere agli Schaap, alla porta accanto… La casa sulla destra, con il portoncino verde e la ringhiera di ferro sul vialetto. Probabilmente diffideranno di lui, ma un tentativo può farlo. E può vedere se il negozio di mio zio è aperto».

Karl annuì e si alzò per andarsene. Sentii un’ondata di speranza: a quest’uomo era permesso andarsene così, con le sue gambe, e una volta fuori poteva usare il telefono.

Poi, d’un tratto, ripensai a Neve. Carpe diem.

«Aspetta» dissi. «Vuoi davvero fare qualcosa per me?»