48.

«Portami fuori a cena. Con te posso uscire, lo sai».

«Lo so. “Escursioni non oltre le quattro ore, da concludersi prima delle otto di sera, soggette ad autorizzazione da parte del capo del personale di turno”».

«Esattamente» risposi meravigliata.

«Insieme alla notifica mi hanno mandato il regolamento» spiegò Karl. «Solo che non mi aspettavo…» Si aprì in un sorriso. «Dove ti piacerebbe andare?»

Nei mesi in cui frequentava Karl, Anneke perdeva il filo nel bel mezzo di una conversazione, con un’espressione tenera e trasognata. Rammentai a me stessa di fare attenzione con quell’uomo. Con quel sorriso. «Dove ti pare» risposi. «Adesso andiamo, però. Mi cambio e arrivo».

«Subito?»

Azzardai un’inerme alzata di spalle e mi diedi un buffetto sul pancione. «Abbiamo fame adesso».

«E va bene, facciamo un patto: io ti porto dove vuoi, subito, ma tu ti metti questo cappotto».

Prima che potesse fare altre richieste andai di sopra. Mi cambiai d’abito per non destare sospetti, e poi recuperai dal fondo del cassetto i soldi che mi aveva lasciato la zia: pochi inutili fiorini, ma li infilai comunque nel borsellino.

Karl era davanti al banco d’ingresso e firmava dei moduli. Lo sentii dire a Frau Klaus che avremmo preso la macchina, e questo mi diede nuova speranza: se avessi dovuto andarmene da sola in primavera, sfuggire a un solo uomo durante una gita sarebbe stato mille volte più semplice che scappare da un istituto nazista sorvegliato con le armi. Avrei fatto in modo di godermi il pomeriggio.

Sui gradini lui si fermò e mi sollevò il colletto per abbottonarmelo bene.

«Grazie per il cappotto, Karl. Davvero. Molto gentile da parte tua».

«Stai calda? E poi guarda, è tagliato in modo tale che dopo te lo puoi avvolgere intorno, da qui a qui». Stava ancora sorridendo felice quando salimmo in auto, come se il cappotto l’avesse fatto lui. Come se avesse inventato i cappotti. Perfino io non potei trattenere un sorriso.

«Sì, è molto caldo, e mi sta a pennello. Sei davvero premuroso».

«Be’, mi ha aiutato mia sorella. Anzi, l’ha scelto lei».

«Si trova qui? Anneke mi aveva detto che i tuoi erano di Amburgo».

«Appena fuori, sì. Comunque lei è qui, ora». Karl si rabbuiò in viso, ammonendomi così di non fare altre domande. Aveva cominciato a nevicare – grossi fiocchi morbidi, splendenti contro il cielo scuro del pomeriggio – e noi ci mettemmo a parlare del tempo in montagna mentre ci avvicinavamo al centro abitato. Poi lui mi chiese dove volevo andare a mangiare.

«Non m’importa. Anzi no: vorrei andare in un posto piccolo. Sono cinque mesi che mangio in quel refettorio enorme».

«Un posto piccolo, allora».

«E col pane bianco e morbido!» Risi. «E piatti stracotti, rimasti sul fuoco per ore! Niente di crudo!»

«Ho notato una pensione ai margini della cittadina più grande. Proviamo lì».

D’un tratto mi sentii disorientata… Ma certo, erano cinque mesi che non salivo su un’auto, che non stavo sola con un uomo, che neanche mi allontanavo dal parco della clinica. E tuttavia non era la stranezza di queste cose a rendermi nervosa, ma proprio la loro normalità. Era il senso di libertà, dopo tutto quel tempo: ricordai di aver letto qualcosa sugli animali degli zoo, che una volta liberati tentavano di tornare nelle gabbie. Il bambino si mosse, nuotando come una lontra: lui, almeno, era felice e basta.

Alla pensione, il gestore ci salutò come se fossimo solo una giovane coppia entrata per mangiare un boccone. Quando si accorse che ero incinta si fece in quattro per darci un tavolo vicino al caminetto; mi chiese se stavo abbastanza calda o se invece avevo troppo caldo, ci indicò gli antichi boccali di ceramica dipinta sullo scaffale, i paesaggi alpini che ricoprivano le fosche pareti a travi. Ordinammo Jägerschnitzel con insalata, e nell’attesa bevemmo entrambi una birra, fresca e scura. Raccontai a Karl qualcosa di più sulle mie giornate in clinica, e cominciai a rilassarmi. Forse la birra e il fuoco tranquillizzarono anche Karl, perché mi disse qualcos’altro sulla sorella.

«Si chiama Erika, siamo gemelli».

«Siete molto uniti?»

Annuì. Si era acceso una sigaretta, ma subito la spense, si tolse qualche briciola di tabacco dalla lingua e poi si accomodò meglio, prima di rispondermi. «Eravamo solo noi due, quindi stavamo sempre insieme. Lei era molto più minuta, quindi pensavano tutti che io fossi il maggiore, cosa che la faceva imbestialire; insisteva nel fare tutto quello che facevo io, e funzionò finché non compimmo otto anni e io cominciai a trascorrere il tempo al cantiere dove costruivamo le barche».

«Perché, lei non voleva?»

«Altroché se voleva». Sorrise tra sé al ricordo. «Ma il nonno e gli zii erano di vedute antiquate, e una femmina in cantiere non la volevano. Presi le sue parti insistendo di volerla portare con me, come un fratello cui piace viziare la sorellina, ma la verità è che la volevo davvero con me. È spiritosa, intelligente e, quando era giovane, assolutamente impavida. È difficile da spiegare, ma quando lei non c’era non mi sentivo mai completo. Perché eravamo gemelli, credo».

«Anneke mi disse che avevi una nipotina. La figlia di Erika?»

Karl sorrise. «Lina».

«Quindi Erika è sposata».

Il sorriso scomparve. «Lo era». Distolse lo sguardo per studiare un trofeo di caccia sulla parete vicino a noi, poi tornò a guardarmi. «Un mese e mezzo dopo il matrimonio, Bengt fu spedito sul fronte russo. Erika era incinta, e due settimane prima della nascita di Lina lui rimase ucciso».

«Mi dispiace. Dev’essere stato terribile… rimanere sola, e con una neonata». Karl mi guardò e sollevai il mento: io non ero sola. O non lo sarei rimasta per molto.

«È terribile, sì. La cosa peggiore, per Erika, è che Bengt non sia riuscito a vedere la piccola, e nemmeno a sapere che era una femmina. Aveva sempre voluto una femminuccia. Adesso lei tira avanti come può».

«E ora è qui a Monaco? Quindi vi vedete?»

«Si è presa un appartamento in città quando mi hanno trasferito, e mia madre è venuta a stare con lei. La aiuta con la bambina, che adesso ha un anno. Aspetta… ho qui una foto».

La bimba era in grembo alla sorella di Karl, e sorrideva timidamente al fotografo dietro il braccio protettivo della madre, con una manina buttata all’indietro a sfiorarle il collo per maggior sicurezza. Erika non guardava l’obiettivo ma piuttosto, sembrava, qualcuno alle spalle del fotografo, e io mi chiesi: se non avessi saputo che cosa aveva perso, mi sarebbe sembrata comunque così triste? Decisi di sì.

«Sono bellissime» dissi restituendo la fotografia. «Ti assomigliano tutte e due».

Karl annuì compiaciuto, e scrutò la foto per un attimo prima di rimetterla nel portafogli. «Erika studiava per diventare insegnante, ma adesso lavora in una macelleria. Ed è una buona cosa, perché almeno rimediano un po’ di carne, anche se il latte è sempre un problema. Io mando a casa la mia paga, perché senza…»

Karl si guardò attorno, come improvvisamente preoccupato che qualcuno lo sentisse. Ma era molto presto per cenare, e c’era solo una coppia di anziani che bevevano tè in tazzine di vetro dall’altra parte della stanza.

«Li osservo da un po’» dissi, sapendo che lui voleva cambiare argomento. «Guarda lui come fa sì con la testa e concorda con tutto, ma allo stesso tempo cerca di calmarla, mi pare. Lei continua ad agitarsi, si tormenta i bottoni del cardigan. Che bello, però: una coppia normale. Sono cinque mesi che non vedo una coppia normale».

Ci servirono le ordinazioni, e mangiando non affrontammo argomenti pericolosi. Ogni tanto cercavo con le dita il borsellino e stringevo il fermaglio.

«Perché sorridi?» chiese Karl.

«Oh, niente». Rimisi le mani sul tavolo, come una scolaretta sorpresa a passare un bigliettino. «Che bella sensazione, essere fuori. Da quando sono qui non sono mai uscita».

«Perché no?»

Gli parlai del regolamento. «Secondo loro è rischioso lasciarci uscire da sole. Dobbiamo essere accompagnate da una guardia. Oppure… dal padre del bambino».

Karl abboccò. «Be’, io posso portarti fuori quando vuoi».

«Ma com’è possibile? Tutte le ragazze tedesche si lamentano… alcuni dei loro ragazzi non ottengono licenze da un anno o più!»

Karl annuì. «Io sono stato promosso». Tamburellò con le dita sui galloni dell’uniforme. «Ho dei doveri, ma non troppe limitazioni».

«Che cosa fai?»

Esitò. «Costruisco delle cose».

Attesi che si spiegasse meglio, ma non lo fece.

D’un tratto mi parve necessario sapere una cosa. «Pensi che la Germania vincerà la guerra?»

Non era entrato nessun altro e i due anziani non avrebbero mai potuto sentirci, ma Karl si sporse in avanti e rispose in tono basso e deciso: «Non è questo il luogo adatto». Prese la forchetta ma si limitò a giocherellare con l’insalata nel piatto, poi guardò la neve che cadeva, fuori, e bevve un sorso di birra. «Sì, credo di sì» aggiunse piano. Era impossibile dire cosa esprimesse la sua voce, ma non era gioia. Eravamo giunti alla fine di un’altra conversazione, e terminammo in silenzio di mangiare.

M’imposi di aspettare ancora un poco.

«Karl» dissi poi, come si trattasse di un’idea improvvisa. «Ho visto una panetteria dietro l’angolo, quando siamo arrivati. Vorrei comprare qualche panino come questo per le mie amiche… in clinica non ce li danno mai». Aprii il borsellino, ne tolsi i miei soldi olandesi e aggrottai la fronte. «Però ho solo questi. Puoi cambiarmeli?»

Karl sembrò contento. «Possiamo passarci uscendo, però i panini li compro io. Mi fa piacere». Spinse indietro la mia mano. «Prima ordiniamo un dolce… hanno la Linzer Torte. Poi ci facciamo portare il conto e andiamo in panetteria».

«No, davvero» insistetti. «La torta prendila tu, io sono piena. Faccio una corsa e vado a prenderli subito».

Karl mi squadrò per un istante, ma poi tirò fuori una banconota da cinque marchi. «Va bene, però tieniti i tuoi soldi, insisto».

Presi il denaro e mi alzai da tavola, cercando di non apparire troppo ansiosa. Gli feci un gran sorriso e ripetei che sarei tornata subito. Poi mi avviai senza voltarmi indietro, temendo che, se avesse visto la mia faccia colpevole, sarebbe saltato in piedi e mi avrebbe seguita. Uscii dalla pensione e andai a destra, lontano dalle finestre, finché non fui certa che Karl non poteva vedermi.

Un minuto dopo rifeci il cammino a ritroso, m’infilai dietro la locanda e raggiunsi l’ufficio postale che avevo visto. L’ingresso era tutto coperto di svastiche, serpi rosse e nere che frusciavano pazienti.

«Vorrei fare una chiamata internazionale» dissi all’impiegata. Altri striscioni alle finestre. «In Olanda, a Schiedam».

La donna prese un libricino e calcolò il costo. Pagai, e lei mi diede il resto. Poi corsi nella cabina in attesa del collegamento. Ci volle un’eternità. Dietro di me entrò un signore che si mise ad aspettare cortesemente il suo turno a debita distanza.

Finalmente udii lo squillo dall’altra parte. Una voce femminile rispose e il contatore sul telefono cominciò a scattare.

«Cerco Isaak Meier» dissi. «Presto, per favore».

«Che cosa vuole?»

«Devo parlargli immediatamente, è un’emergenza».

Un istante di silenzio.

«Vada a chiamarlo!»

«Mi spiace, ma non è più qui. Sono questioni che riguardano il Consiglio? Perché quello di Amsterdam…»

«Cosa significa, che non è più lì? Dov’è?»

«Guardi, davvero non posso…»

«Lasci stare!» Mi sforzai di restare calma, ma erano già passati trenta secondi. «Allora mi faccia parlare con il rabbino Geron. Subito, per favore».

La donna si allontanò. Passò un intero minuto: volsi le spalle al contatore, ma ora avevo davanti un ritratto di Adolf Hitler, col braccio levato verso di me. Chiusi gli occhi. Finalmente, finalmente, il rabbino venne al telefono.

«Sono Cyrla Van den Berg, l’amica di Isaak. Devo parlargli».

«Cyrla? Ma…»

«La prego. Dov’è?»

«Lui è… non lo sai? È a Westerbork».

Per un istante dimenticai come si respirava. «A Westerbork?» riuscii a ripetere.

«La retata di ottobre, di tutti gli ebrei non olandesi. Avrai saputo».

«No… è impossibile. Isaak è olandese, e…»

«Sì è offerto volontariamente di accompagnarli. Pensava di poter essere d’aiuto come avvocato».

«No!»

«Non sono riuscito a trattenerlo». Il rabbino Geron mi aveva letto nel pensiero. «Non ero d’accordo, ma lui aveva deciso. Preghiamo ogni giorno che torni presto. Che tutti…»

«Sta bene? Che notizie avete?»

«Pensiamo…»

Poi il contatore trillò e la linea cadde.

«No, no… aspetti! Mi ricolleghi! È un’emergenza!» Rimasi là con il telefono in mano perché, se avessi riappeso, Isaak sarebbe finito ancora più lontano. L’uomo alle mie spalle si mosse e tossicchiò. La cornetta nera, tutto a un tratto, pesava un quintale: la lasciai cadere sulla forcella e tornai barcollando in strada. I vessilli mi sbatacchiarono accanto sotto una folata di vento.

Isaak non c’era più.

Attraversai la strada per andare in panetteria. Non sentivo i miei passi, né la neve sulla faccia. Isaak non c’era più. Invece c’era Karl, che chiacchierava con la ragazza dietro il banco. Al suono del campanello si girò e d’un tratto mi tornò in mente il nostro primo incontro, nella panetteria di Anneke: gli stessi aromi di zucchero cotto e vaniglia. Ma stavolta lo sguardo di Karl non mi scivolò addosso: lui corse verso di me e mi afferrò per le spalle. Vidi le sue mani, ma non le sentii.

«Dov’eri finita? Ero preoccupato!»

«Ero… sono dovuta andare in bagno. Che succede?»

Karl si guardò intorno, poi mi posò una mano sulle reni e mi guidò fuori dalla porta. «Cyrla, pensavo che fossi scappata. Avevo questa sensazione, a tavola, e quando sono arrivato qui e ho visto che non c’eri… mi sono preoccupato». Assunse un’espressione contrariata, ma era la rabbia che si concedono le mamme dopo che i figli gli hanno fatto prendere uno spavento. «Non farlo più. È pericoloso».

«Karl». Azzardai una leggera risata. «Sono solo andata in bagno, nient’altro».

Mi scrutò, e dovetti distogliere lo sguardo. «E va bene. Ma la prossima volta dimmi dove vai: la responsabilità è mia. Adesso andiamo a comprare quei panini».

Stupidamente accettai. Tornammo dentro, scelsi una dozzina di panini con i semi di cumino e guardai la Fräulein che li riponeva in una scatola di carta, mentre i pensieri correvano all’impazzata. Lui stava bene? Cosa voleva dire, che si era offerto volontariamente? Perché?

«Sessanta centesimi» disse la commessa e, senza pensarci, m’infilai una mano in tasca e ne trassi qualche moneta.

Monete. Karl le guardò sulla mia mano, e poi mi guardò in viso. Impallidii.