55.

Il mio rimorso crebbe giorno dopo giorno come se fosse una cosa viva. Immaginavo Isaak nel capanno, che aspettava, che aspettava me, che si rendeva conto che non sarei arrivata. Gli ero così vicina, avrei potuto toccarlo: adesso dov’era? Rimasi di stucco, però, scoprendo che quando chiudevo gli occhi, era il viso di Karl a tormentarmi, la sua espressione quando aveva detto: «Però non ne valeva la pena».

Una settimana più tardi finalmente lo chiamai. «Devo parlarti». Trattenni il fiato e lo vidi, fermo con il ricevitore all’orecchio, la testa china, intento a sfregarsi la radice del naso con un dito.

Dopo circa un minuto disse: «D’accordo. Dimmi» e io ricominciai a respirare.

«No, ho bisogno di vederti. Puoi assentarti?»

Silenzio.

«Per favore».

Mi sembrò che passasse un’ora prima della risposta. «Va bene, stasera. Alle otto».

«Bene. Karl, mi dispiace…»

Ma lui aveva già riappeso.

Lo aspettai nel vestibolo. Quando entrò lo scrutai in viso ma non riuscii a decifrare nulla. «Vuoi fare un giro in macchina?» chiese. Anche dalla voce non trapelava niente. La guardia al bancone alzò gli occhi.

«Non posso uscire, è troppo tardi».

Karl gettò un’occhiata verso il salotto.

«No» dissi, «è martedì». Prima che potesse chiedermi che cosa volevo dire, mi avvicinai al bancone. «Questo è il padre. Abbiamo delle cose da discutere, ma le stanze comuni sono tutte occupate. Posso portarlo di sopra?»

La guardia controllò l’orologio e acconsentì. «Dev’essere fuori per le nove» disse poi in tono ammonitorio a Karl.

In camera mia l’aria si fece densa come il vetro, tanto che parlando temevo di mandarla in frantumi. «Il martedì c’è la conferenza della sezione femminile della Hitlerjugend». Prendevo tempo. «Economia domestica e patriottismo, le tedesche sono obbligate a partecipare. Noi invece passiamo la serata in salotto, ed è quella che preferiamo, perché senza di loro è tutto tranquillo. A parte quando cantano».

«Posso immaginarlo» disse Karl.

Mi chiesi se potesse davvero. Se capisse che brividi mettevano, quelle voci che inneggiavano alla propria superiorità, al proprio immancabile destino. Ma lasciai correre. Chiusi la porta e mi ci appoggiai. «Karl, devo assolutamente farti le mie scuse. Non mi sono fidata di te, e invece avrei dovuto, e mi vergogno di me stessa».

Karl manteneva un’espressione impenetrabile, però ascoltava.

«Tu sei sempre stato onesto e generoso con me. Anzi, di più: quello che hai fatto la settimana scorsa, portando qui Isaak… Dio mio, i rischi che hai corso… E io ho rovinato tutto. Non ti biasimo, se non riesci a perdonarmi. Ma dovevo almeno provare a scusarmi».

Karl andò alla finestra e alzò la tapparella. «Ero arrabbiato» disse un attimo dopo. «Ma se mi stai dicendo che adesso ti fidi di me, magari possiamo lasciarci tutto alle spalle». Si voltò a guardarmi con un’espressione più cordiale. «Sarei contento se potessimo ricominciare. Se potessimo diventare amici».

Ricambiai il sorriso e mi avvicinai di un passo, poi aprii la bocca per parlare. Ma le parole non vennero.

«Che c’è?»

«Non so come dirlo… ho riflettuto…» Esitai: certe cose erano ancora difficili da esprimere in tedesco, e questa sarebbe stata ardua in qualunque lingua. «Anneke vive dentro di me, Karl. Io le ho rubato la vita. Non posso farci niente, e la cosa si riflette sui nostri rapporti».

«Tu non le hai rubato la vita, è lei che l’ha perduta. Tu stai semplicemente usando il suo nome».

Mi avvicinai a lui. «No, c’è di più. Sono sempre stata invidiosa di lei, della facilità con cui otteneva qualunque cosa. E adesso, in questo posto, sto tentando di essere lei. Era lei che doveva venire qui. Io non ci sono venuta per mettere al sicuro il mio bambino, non sono certo così eroica. Mi sono fatta mettere incinta per entrare nella sua vita e mettere al sicuro me stessa. Anzi, no: per un motivo ancor più egoistico. E faccio molto di più che usare il suo nome».

«Che cosa intendi dire?»

«Be’, qui dentro cerco di essere lei. Io sono un tipo tranquillo, mentre lei era loquace: qui dentro la lascio parlare al posto mio, imbroglio anche in quello. Anneke non doveva mai stare attenta a quello che diceva, come faccio io; era così pura che poteva dire tutto quello che le passava per la testa, non aveva mai niente da nascondere. Inoltre, era incinta di un bambino tedesco, mentre io no, e mi sembra già pericoloso solo permettermi di ricordarlo. Mi comporto come lei e cerco di pensare come lei, perciò mi sembra quasi che sia qui. Come se vivessimo entrambe dentro la mia pelle».

Proprio in quel momento il bambino mi mollò un calcione, come se avesse ascoltato tutto e si fosse offeso. Risi, sollevata, e gli posai una mano sul tallone. «E va bene, qui dentro siamo in tre».

Karl abbassò lo sguardo, e con gli occhi mi chiese se poteva toccarmi. Gli presi la mano e gliela posai sul piede del bimbo che ancora scalciava.

«Allora… tu ci pensi come se fosse mio?» chiese sottovoce.

«Be’, in teoria sì. Quando sono di sotto e parlo con le altre cerco di pensare che aspetto il bambino di un soldato tedesco. Ma quando sono sola no. È molto complicato. E quando tu mi chiedi se possiamo diventare amici, be’, è troppo complicato con lei qui con me, così presente. Capisci?»

Karl tolse la mano dalla mia pancia… con qualche riluttanza, mi parve. Aveva un’espressione addolorata, non capivo se per me o per sé. «Al cantiere una volta avevamo una cagnolina, quand’ero ragazzo. Fece i cuccioli, ma uno morì. Allora lo tolsi dalla cuccia, pensando di fare bene. La cagnolina però ne fu sconvolta: girava freneticamente, cercando quell’unico cucciolo, e allora mio padre mi disse di riportarle il corpo, così avrebbe capito. Io lo feci e lei lo raccolse, lo portò fuori, e lo lasciò sotto i cespugli. Poi tornò, molto più calma. Papà aveva avuto ragione».

«Sì, è vero, non ho visto Anneke finire sotto terra. Però l’ho vista morta». Mi premetti le mani sul petto e attesi che l’immagine dilagasse nella mente. Karl mi abbracciò e mi trasse a sé. «Lo so che è morta» gli dissi. «Posso dirlo, e piangerci sopra. Ma continuo a tenerla in vita».

«Forse devi seppellirla».

«Forse. Ma non so come fare».

«Cyrla, non pensi che avrebbe voluto che diventassimo amici?»

«Sì, hai ragione, lo so. Anzi una volta me l’ha detto, mi ha detto che ti avrei trovato simpatico e mi sarei fidata di te. Ma quando mi ritrovo a fare tanta fatica per essere lei, qui dentro, e poi ti vedo, a volte mi arrabbio moltissimo con te. Tu le hai fatto del male, e se lei…»

Karl mi lasciò andare, e d’un tratto mi sentii stranamente informe, come se la pelle non bastasse più a tenere insieme il corpo.

«Ci penso continuamente» fece lui. «Il fatto è che le ho detto quel che le ho detto per risparmiarle un dolore: noi eravamo male assortiti e, se ne avesse avuto il tempo, credo che se ne sarebbe accorta anche lei».

«Lo credo anch’io. Però avevo bisogno di dirti tutte queste cose. È necessario che tu capisca che cosa significa per me».

«Sono contento che tu l’abbia fatto. E mi dispiace, dev’essere durissima per te, qui dentro». Mi abbracciò di nuovo e mi tenne stretta a sé. Nel silenzio sentimmo cantare, di sotto, Deutschland über Alles. «Davvero durissima».

«Con l’inno finiscono» dissi. «Ora dovresti andare».

Lui annuì e prese il cappotto dal letto, però non se ne andò. «Sai, penso che dovremmo festeggiare. Abbiamo appena dichiarato la pace, cosa che si dovrebbe sempre festeggiare».

«Giusto» concordai. Il nodo che mi aveva attanagliato il petto così a lungo cominciava a sciogliersi. «Giustissimo».

«Potrei tornare questo fine settimana. Stanno sistemando degli impianti nuovi, quindi dovrò solo passare un po’ di carte. Ti porto fuori a pranzo, o magari al cinema».

Karl aveva ragione, avevamo fatto la pace. Ma c’era dell’altro: lui mi aveva perdonata, e io mi sentivo inondata di grazia. Giunti al sabato mattina, mi sentivo proprio come se mi stessi preparando per una celebrazione. Mi feci il bagno, mi vestii con i capi più belli che mi aveva regalato Erika, e non smisi di controllare l’orologio finché non giunse il momento. Scesi di sotto e trovai Karl già lì, che diceva qualcosa all’infermiera di turno dietro la scrivania. Lei gli sorrise, alzò gli occhi al cielo come se lui fosse un bambino esasperante, poi lo congedò con un gesto della mano.

Lui si avvicinò e mi aiutò con il maglione. «Oggi abbiamo otto ore. Adesso sono le undici, quindi non devo riportarti indietro fino all’ora di cena».

«Come hai fatto?»

«L’ho stregata. Le ho detto che non ero venuto lo scorso fine settimana e quindi volevo recuperare. L’ho convinta a considerarle due escursioni insieme. Le ho detto che era un’occasione speciale e che avevo una sorpresa per te».

«E ce l’hai?»

«Sì. Ma devi aspettare. E, prima che andiamo, voglio che tu vada a prendere qualcosa di Anneke».

«Perché?»

«Fidati. Ricordati che d’ora in poi devi fidarti di me».

Tornai in camera e mi guardai attorno. Quasi tutto quel che c’era apparteneva ad Anneke, ma d’un tratto capii che cosa voleva Karl: presi il flacone di smalto per le unghie e un fazzoletto, e me li infilai in tasca.

Sul sedile posteriore dell’auto c’erano un mazzo di rose rosse e una vanga. Mostrai a Karl gli oggetti che avevo portato.

«Pronta?» chiese.

«Pronta» risposi.

Tornammo alla fattoria e percorremmo in silenzio il sentiero che avevamo preso l’altra volta. Arrivati al punto più in alto ci fermammo. Karl mi guardò e io feci sì con la testa.

«In realtà è sepolta ad Apeldoorn» gli dissi. «Appena posso ci vado».

«Apeldoorn. Anch’io ci andrò, un giorno».

Ficcò la vanga nel terreno e scavò una piccola buca. Io avvolsi il flacone di smalto nel suo sudario di trina, mi chinai e lo posai nella fossa. Poi Karl la riempì e infine vi sistemò sopra il mazzo di rose.

«No» dissi raccogliendole. «Senza le spine». Strappai i petali uno a uno e li lasciai cadere sulla terra smossa. Erano sfoglie del mio cuore. Dovrei soffrire più di così, pensai. Dissi ad Anneke le cose che le avrei detto se avessi saputo, e strinsi gli steli delle rose finché non mi sentii trafiggere il palmo dalle spine sottili. Karl abbassò lo sguardo, me li tolse di mano e li gettò via.

«Su una cosa mi sbagliavo» gli dissi. «Quando sei venuto a trovarmi la prima volta, ti ho detto che noi due non condividevamo Anneke. Ma non è vero».

Lui mi prese per mano e premette il palmo contro il mio, le dita allacciate. Facemmo il cammino a ritroso in silenzio, fino a raggiungere la macchina.

«Ho portato il necessario per un picnic» disse Karl. «Nel pomeriggio il tempo dovrebbe essere bellissimo, ma se preferisci possiamo fare dell’altro, andare a Monaco magari…»

«No, è tantissimo che non faccio un picnic. Sembra una cosa così normale!»

Lui buttò la vanga nel bagagliaio e ne tolse una gran cesta, una coperta e una borsa. Arrivammo fino in fondo al campo, dietro l’ovile, e posammo il tutto sotto un grosso olmo. Il campo era circondato di meli, tutti aureolati del rosa dei propri boccioli.

«Muoio di fame… in questi giorni devo mangiare ogni dieci minuti». Sbirciai dentro la cesta. «Che hai portato?»

Si udì un rombo lontano e sussultai; erano passati quasi due anni, ma ancora sussultavo. Karl mi lesse nel pensiero: «È solo un tuono».

Guardammo in alto: grosse nubi violacee si andavano addensando, e illividivano il cielo sopra le montagne. «Passerà presto» disse Karl, «ma è meglio portare tutto al coperto».

L’ovile era buio, anche con la porta un po’ scostata, e aveva un profumo dolce di fieno e pecore. Sorrisi, meravigliata.

«Che c’è?»

«Non saprei dire. Qui mi sento sicura, nascosta. Credo solo che sia passato molto tempo da quando mi sono trovata da qualche parte e ho pensato: Nessuno sa dove sono».

«Io lo so dove sei». Karl fece un passo verso di me, poi si fermò e si guardò le mani. «Ma ho capito cosa vuoi dire».

Poi s’inerpicò sulla scala che conduceva al fienile e spinse di sotto due balle di paglia; scese, tirò fuori il coltello a serramanico e le aprì. «Possiamo far finta di essere fuori» disse spargendo la paglia qua e là. Infine stese la coperta.

«Hai detto che avevi una sorpresa» gli ricordai.

«Infatti, e questo è un buon momento. Girati».

«Mi credi così matta da darti le spalle?» Avevo voglia di giocare… Altra sensazione che non provavo da moltissimo tempo.

«Fa’ come vuoi». Karl si tolse la cravatta e poi cominciò a sbottonarsi la giubba della divisa. La gettò da parte e si chinò sul cesto, dal quale tolse un pesante maglione blu scuro lavorato a trecce. I muscoli gli guizzarono sul dorso mentre se lo infilava. Quindi si voltò e spalancò le braccia, tutto contento.

«Come? Sarebbe questa la tua sorpresa, un maglione?»

«Scusami se è poco, visto che rischio la corte marziale se indosso abiti borghesi!» Karl sospirò e poi si fece serio. «È questo l’altro problema tra noi. Ho visto come mi guardi, o meglio come non mi guardi, e guardi invece l’uniforme. Tu vedi solo quella, Cyrla, non vedi mai me».

«Invece ti vedo, Karl. E tu indossi quell’uniforme».

«Non per scelta. Ce la fai a guardare oltre, almeno per un giorno? Voglio solo questo: solo una giornata in cui io sono un uomo e tu una donna, e non devi preoccuparti di quello che proverebbe Anneke, e non devi proteggerti da un nemico. Mi fai questo favore, solo per oggi?»

«Non so se posso». Sentivo un pericoloso groppo in gola.

«Fra tre settimane te ne vai. Ci restano tre settimane. Che male ti può fare?»

«È sbagliato».

«Perché?»

«Non lo so perché! Che succederebbe se…» Mi coprii il pancione con le braccia e lo guardai. «Non posso abbandonare tutto questo. E non voglio. Questo bambino è ebreo, suo padre è ebreo e io gli devo qualcosa. E tu sei tedesco».

«Pensi davvero che farei del male a un bambino?»

Mi strinsi ancora più forte alla mia pancia. «Al momento è tutto ciò che ho. Ogni cosa. E finora mi sono comportata malissimo… Guarda dove sono, Karl! Sto cercando di fare ammenda, di fare del mio meglio, ora».

Quindi mi voltai. Si udì un altro rombo di tuono, più vicino. Un attimo dopo mi accorsi che Karl avanzava dietro di me, troppo vicino, ma non mi ritrassi. L’aria tra noi sembrava pulsare di vibrazioni invisibili. Sentii che cominciava a piovere, solo un fruscio smorzato.

Poi lui mi sfiorò. Non sul braccio, o sulla spalla, o sulla nuca come mi aspettavo, come volevo. Premette invece il corpo contro la mia schiena e mi cinse la vita con le mani. Non mi girai, ma nemmeno mi allontanai. Attesi, con il fiato mozzo.

Molto lentamente, come per darmi il tempo di comprendere i suoi movimenti, mi accarezzò i fianchi, seguendo con le dita la curva dove il mio corpo incontrava la luna crescente del bambino. Poi si chinò in avanti, il viso accanto al mio adesso, guancia contro guancia. Dolcemente, allacciò le dita sotto il gonfiore del piccolo e lo sollevò. Prese il mio fardello e se ne fece carico.

Cedetti di schianto, squassata da singhiozzi liberatori. Karl fece per staccarsi, forse temendo di avermi turbata troppo, ma trattenni le sue braccia. Rimanemmo così molto a lungo – io a piangere e lui a cullare il mio fardello – poi mi voltai nel cerchio delle sue braccia e trovai la sua bocca.