Klaas scomparve da un giorno all’altro. Andai all’orfanotrofio e lui non c’era più. Afferrai brusca una Sorellina, e quella mi guardò allarmata. «È stato adottato ieri» mi disse, e si liberò dalla stretta. Come se quello potesse bastarmi, come se l’esserino che più avevo amato in quel posto non fosse stato appena strappato a un luogo sicuro, per essere gettato in un mondo dove poteva capitargli qualunque cosa. Tuttavia non potevo farci niente: tornai in camera e scrissi l’ultima annotazione sul diario che tenevo per Leona.
Tutto lo fa divertire: ieri gli è venuto il singhiozzo e ha riso dall’inizio alla fine! E se m’infilo una scarpina sul dito e gliela muovo davanti, diventa matto. Me lo fa fare mille volte, e ogni volta si diverte di più. E il suo faccino, quando dorme… è più bello di quanto io possa dire. Lo adoreranno: sarebbe impossibile non adorarlo.
Con i pomeriggi ormai vuoti, cominciai a pensare seriamente alla nascita del mio bambino. Era come se prima, quando non sapevo dove avrei partorito, non fossi stata in grado di immaginarlo. Adesso, se chiudevo gli occhi, non riuscivo a vedere altro.
Leggevo tutto quello che mi passava per le mani, e davo costantemente il tormento a Ilse. Lei non si spazientiva mai, e fugava tutte le mie paure con risposte rassicuranti. Da quando era lì pochissime madri erano morte di parto, e nella maggior parte dei casi la loro salute era già compromessa; no, era improbabile che l’estrazione con il forcipe causasse danni permanenti; sì, se era necessario i medici erano pronti a effettuare un taglio cesareo.
«E Sofie?» le chiesi. Io non ero presente, ma le ragazze del primo piano l’avevano trovata incastrata nel vano della porta, che urlava malgrado l’asciugamano che si era ficcata in bocca, povera Sofie. L’avevano tolta di lì e le avevano trovato la testa del bambino maciullata tra le cosce.
«Aveva aspettato troppo, aveva paura dei dottori. Ma tu non hai paura dei dottori, giusto?»
«E Sigi?»
«Podalico fino alla fine. Ma di solito ce ne accorgiamo, e comunque stanno bene tutti e due!»
E poi…? E se…?
«Anneke, le donne partoriscono da millenni» mi consolava. «Tu sei forte, e sarai bravissima».
Un giorno che eravamo insieme nella nursery, io ad appaiare scarpine e lei a preparare dosi di farmaci, mi chiese se avevo pensato di fermarmi un po’ dopo il parto. «Al bambino fa bene, anche poche settimane di allattamento al seno sono un grande beneficio».
L’idea mi metteva ansia, ma mi ero già posta quella domanda, tentando di digerirla. Forse. Ne avrei parlato con Karl.
«E scusa, so che non sono affari miei, Anneke» proseguì. «Però ti ho vista con il padre… Perché hai tanta fretta di andare via? Lui è sposato?»
Prima che potessi farmi venire in mente una risposta, Ilse mollò il cucchiaio dosatore, balzò in piedi e si precipitò alla finestra, dove conficcò le unghie nelle colonnine di legno.
All’ingresso del reparto maternità era parcheggiato un cellulare, con una guardia in uniforme nera davanti allo sportello posteriore aperto.
«I soldati? Che succede, Ilse?»
«Questi non sono della Wehrmacht, Anneke, questa è la Gestapo» rispose lei in un sussurro teso. «Sono venuti a prendere qualcuno». Corse alla finestra accanto, torcendo il collo per vedere meglio e sbiancò. «Sono entrati. Sono qui».
«Ma tu… che cosa facciamo?»
Lei tornò al tavolo e ne afferrò il bordo, il capo chino. Poi alzò lo sguardo verso di me. «Faresti meglio ad andare, visto che non dovresti comunque stare qui». Scosse la testa e si accasciò su una sedia. «Anzi no, resta, tanto loro queste regole non le sanno. Torna a fare quel che stavi facendo».
Le sedetti di fronte e presi un paio di scarpine. Se sono venuti da questa parte, pensai, non stanno cercando me. Mi chiesi che cosa Ilse stesse dicendo a se stessa, perché non l’avevo mai vista tanto sconvolta.
Sedeva rigida, le spalle alla porta, e stringeva un becher di vetro con tanta forza che temetti potesse frantumarlo. «Li vedi?» mi chiese.
Arrischiai un’occhiata dalla porta, verso la postazione delle infermiere. «Sì. Sono al banco. No, si spostano. Frau Klaus si sta alzando».
«Vengono da questa parte?»
«Non capisco. Parlano. No, se ne vanno. Hanno preso il corridoio ovest».
«Il corridoio ovest, verso gli alloggi delle infermiere?»
Non attese la mia risposta, saltò in piedi un’altra volta e tornò alle finestre.
Un minuto dopo uscirono tutti. Due uomini, che si trascinavano dietro una donna di una certa età, e un terzo che li seguiva con Frau Klaus.
Il viso di Ilse si afflosciò. «No» esalò. «Solvig. No!»
Gli uomini strattonavano bruschi la piccola infermiera, come se lei stesse opponendo resistenza… Ma lei non lo faceva: Sorella Solvig aveva almeno sessant’anni, e spesso l’avevo sentita lamentarsi delle giunture artritiche. Stava solo piangendo disperatamente, e cercava di tenersi stretto un golf attorno alle spalle.
«Ma che ha fatto, Ilse?»
Ilse non staccava gli occhi dalla collega, facendo una smorfia ogni volta che gli uomini le davano uno strattone. «Niente, non ha fatto niente. Che possiamo mai avere fatto, tutte noi?»
«Ma perché la stanno portando via?»
«Suo marito è ebreo» sussurrò. «Lo tenevano nascosto». Ilse aveva gli occhi pieni di lacrime, ma poi li spalancò d’improvviso, terrorizzata. «No!» gridò, premendo le mani contro il vetro come se avesse potuto impedire quel che stava accadendo.
Osservammo inorridite Solvig che si divincolava dalla stretta di un poliziotto e cercava di liberarsi. L’altro le storse il braccio e la costrinse a voltarsi; nel medesimo istante, la guardia ferma davanti allo sportello del cellulare sollevò il calcio scuro del fucile e la colpì forte in viso. Lei cadde a terra, e il mio cuore cadde con lei. Un attimo prima che la testa atterrasse sulla ghiaia, il primo poliziotto le sferrò un calcio con lo scarpone chiodato, spaccandole la faccia dalla tempia alla mascella, in un fiume di sangue. Io e Ilse boccheggiammo all’unisono, le mani sulle guance come se avessimo sentito su di noi quei colpi tremendi.
Gli uomini raccolsero il corpo esanime di Sorella Solvig come fosse un sacco di patate, la trasportarono al veicolo con un piede che strusciava sul vialetto e ce la caricarono sopra. Dopodiché sparirono, portando via con sé la speranza che io e il mio bambino saremmo stati al sicuro in quel posto.
Ilse s’irrigidì. La presi per un braccio, ma si divincolò: potei solo guardarla dalla finestra, mentre si precipitava fuori verso il punto in cui quegli uomini avevano aggredito la piccola infermiera. Si chinò e raccolse una scarpa, stringendola al petto. Le vidi gli occhi pieni d’odio.
Ancora ritta nell’ingresso, anche Frau Klaus la stava guardando.
La successiva visita di Karl durò un’ora soltanto. Uscimmo in giardino, tutto fiorito in sfumature violette di tulipani, lavanda e lillà. I cortili erano pieni: decine di ragazze ciarlavano tra loro oppure leggevano sulle sedie a sdraio, mentre i bimbi sonnecchiavano nei passeggini allineati lungo il muro, incuranti delle svastiche che frusciavano al vento sopra di loro. Nel giardino orientale, il dottor Ebers conduceva in visita guidata un gruppo di uomini in uniforme.
Io e Karl scegliemmo la panchina più lontana da tutti. Morivo dalla voglia di stare pelle a pelle con lui… Ero diventata molto ingorda, ma dovetti accontentarmi del suo ginocchio contro il mio, della calda forza della sua mano sulla schiena, mentre iniziavo a raccontargli tutte le cose che m’impensierivano.
«Devi prenderlo il primo giorno, il giorno in cui nasce, hai capito?»
«Lo so. Ne abbiamo già parlato».
«È importante. Portalo via di qui e non riportarcelo mai più. Nemmeno per il latte in polvere, nemmeno per una visita dal medico».
«Cos’è successo?»
Feci per dirglielo, ma non riuscivo ad associare l’immagine di quel che era successo a Solvig al pensiero del mio bambino. «È solo che questo non è un posto sicuro per lui» dissi.
«Andrà tutto bene, te lo prometto. Nessuno si insospettirà, perché non ce n’è motivo. Smettila di preoccuparti, d’accordo?»
A quel punto mi rilassai un po’. «E va bene, ma c’è dell’altro. Ho un sacco di cose da dirti. All’inizio, i neonati non devono stare al sole. Tua madre può portarlo fuori quando fa uscire Lina – vanno al parco? – ma deve tenerlo al coperto, in carrozzina. Più avanti, col caldo, potrà mettergli un cappellino».
«Metterle».
«Come? Oh, come vuoi. Può metterle un cappellino. Ma niente sole diretto. E dove dormirà la notte? Erika riuscirà a sentirlo… a sentirla? E ricordati, a tre mesi riescono a girarsi, quindi non vanno lasciati soli…»
«Magari è meglio se le scrivi, tutte queste cose, così poi do la lista a Erika».
Qualcosa nella sua voce mi mise all’erta. «Che succede?»
Karl aveva l’aria triste e al tempo stesso sollevata, come fosse ansioso di dirmi qualcosa ma non sapesse da che parte cominciare. «Non cambierà niente e non voglio che ti preoccupi» esordì. Arretrai di scatto, e mi preparai al colpo.
«Mi trasferiscono». Mi prese per mano. «Va tutto bene, succederà dopo la nascita del bambino, te lo giuro. Probabilmente in agosto, forse settembre».
«Dove?» La mia voce era rigida, tirata. Ritrassi le mani dalle sue e chiusi i pugni in grembo.
«A Peenemünde, sulla costa».
«Quanto dista da qui?»
«Cinque ore di viaggio».
«Ma…»
«No, non preoccuparti. Io ed Erika ne abbiamo già parlato. Se salterà fuori che devo restarci per un bel po’, e se sarà sicuro, si sposteranno anche loro. Cercheremo di fare le cose al meglio».
«E se loro non si trasferiscono? Potrai andarle a trovare?»
«Mi spiace, ma non so nient’altro, ne saprò di più quando rientro. Lunedì vado lassù».
«Ma hai detto…»
«Solo una settimana, per organizzare le cose. Tu ne avrai per un altro mese».
«Ma…»
Karl si alzò. «Devo andare, accompagnami alla macchina».
Una volta lì mi baciò e poi mi strinse a sé. «Non preoccuparti, non cambierà niente».
«Karl, ma tu che cosa fai esattamente?»
Lui aprì la portiera e montò in macchina. «Torno alla fine della settimana, ci vediamo allora. Non ti preoccupare».
Ovviamente mi preoccupai e sentii una stretta al cuore quando lui tornò, alla fine della settimana: aveva un’espressione che mi ricordava tanto quella di Anneke quando era tornata dalle visite mediche. «Che è successo?» domandai.
«Tu come stai? Il bambino?»
Faceva il disinvolto, ma non mi guardava.
«Stiamo bene. Guardami, sembro una mongolfiera… però stiamo bene. C’è qualcosa che non va?»
«Oggi non ho molto tempo. Mi sono fatto prestare una macchina fotografica».
«Perché?»
«Hai detto che volevi una foto da far vedere al bambino. Fra tre settimane ti scade il tempo, direi che è meglio farla adesso. Vado a prenderla, è nell’auto».
«No, niente foto. Scusa, è una regola, niente foto alle madri qui dentro. Karl, mi dici che cosa è successo mentre eri via, sì o no?»
«D’accordo. Facciamo un giro, allora, ci fermiamo da qualche parte e te la scatto lì».
Per un istante mi chiesi se avesse bevuto, ma liquidai subito l’ipotesi: gli occhi parevano invecchiati, ma non erano vacui; esitava prima di parlare, ma non strascicava le parole.
Salimmo in auto: io stavo zitta e avevo un po’ paura. Poi lui prese la strada per la nostra fattoria e allora mi sentii un po’ meglio, perché avremmo parlato nell’ovile. Là dentro si rilassava sempre. Però, quando arrivammo, non volle entrare.
«Fa troppo caldo. Conosco un ruscello, invece» propose. Prese la macchina fotografica dal sedile posteriore e si avviò. Lo seguii, osservandolo attentamente. Si fermò dopo pochi passi per sbottonarsi la giacca, poi la gettò a terra. Allora mi preoccupai davvero.
Karl aprì bocca una sola volta, durante il tragitto. «Non c’è sempre stato tutto questo silenzio» disse, in tono quasi rammaricato.
«Che vuoi dire?»
«Persino gli uccelli sono capaci di tacere».
Feci scivolare la mano nella sua, e questo parve calmarlo.
«Non parla più nessuno» disse. «In tutto il paese, nessuno parla. Abbiamo tutti troppa paura».
«Noi stiamo parlando» dissi piano.
«Sì, con te posso parlare. Ma sei l’unica».
«Che mi dici di Erika?»
«Potrei, ma in realtà non lo facciamo. Tanto per cominciare, è meglio esser certi che i suoi vicini dell’appartamento accanto siano tutti al lavoro. Ma anche in quel caso non parliamo comunque, perché mia madre ci sta troppo male».
«Ma allora perché non parli con me, adesso?» gli dissi. «Dimmi che cos’è successo questa settimana. Cominci a spaventarmi».
Karl scosse il capo, poi indicò un punto. «È poco più avanti. Ascolta, si sente già l’acqua. Lei, almeno, parla ancora».
Il ruscello correva rapido e gonfio sui sassi e sulle radici di pini e betulle che ne coprivano le sponde. Sembrava quasi cantare. Karl si tolse stivali e calzini e si arrotolò i pantaloni, entrò in acqua e mi tese la mano. Mi levai calze e scarpe a mia volta e lo seguii. Salì su un ampio sasso piatto e io mi sedetti su un altro, poco distante. Continuai ad aspettare, e a osservarlo, mentre tuffavo un piede nell’acqua chiara.
Karl mi guardò e sorrise. «Sembri una ragazzina» disse. «Sembri giovanissima, una dodicenne».
Mi diedi un buffetto sul pancione. «Sai che bella reputazione, eh?»
Lui tirò fuori il pacchetto delle sigarette e se ne accese una; diede un gran tiro, poi se la levò di bocca e la fissò, come se non ricordasse più com’era arrivata lì. La gettò nell’acqua gorgogliante, e insieme la guardammo danzare per un momento su un mulinello e poi sparire.
«Ho visto delle cose».
Alzai lo sguardo e gli vidi in faccia un’espressione disperata: i denti stretti, i palmi contro la fronte come se tentasse di scacciare chissà quale immagine, le braccia tremanti. Saltai su e lo raggiunsi tra gli spruzzi, per abbracciarlo forte. Lui mi premette il viso contro il petto, poi si ritrasse, prese ad armeggiare furioso con i miei bottoni, mi scostò la sottoveste e mi posò la testa tra i seni, tremando.
«Ho visto delle cose».