Rimasi là, in mezzo al torrente, con la testa di Karl sul seno, il freddo disgelo che mi correva sugli stinchi e le sue lacrime calde a inzupparmi la pelle. Alla fine mi spinse via e si voltò a guardare il prato, disseminato di fiori gialli simili a monete d’oro. Cercai di passargli un braccio attorno alle spalle, ma scosse la testa. Si asciugò gli occhi, deglutì e cominciò a parlare.
«Prigionieri. Del campo che c’è lassù. A centinaia. Sembravano tutti uguali, tutti col cranio rasato, la pelle grigiastra, le uniformi a righe. Non riuscivo a distinguerli uno dall’altro, non capivo neanche se erano uomini o donne. Erano scheletri ambulanti».
Fece un’altra pausa. «Mi stavano facendo vedere una linea di assemblaggio. Un caporale mi raccontava di una nuova vernice che stavano provando e che poteva resistere a temperature più alte. Poi ha ucciso un uomo».
Karl si piegò in due, i pugni premuti sulle tempie, come se risentisse lo sparo. Restai in attesa, sempre più terrorizzata.
Infine si raddrizzò.
«Non l’ha neanche guardato. Era così vicino che non ha neanche dovuto prendere la mira. Stava parlando con me, mi spiegava della vernice, di come la si doveva applicare, e poi ha gettato un’occhiata a quello scheletro al lavoro accanto a noi e ha fatto una faccia, come per dire: Che fastidio. Quindi ha tirato fuori la pistola e…»
«Ssst» sussurrai.
Karl alzò le mani tremanti, come a volermi tenere lontana. «No. Devo dirlo». Prese faticosamente fiato e stavolta le parole si riversarono fuori come un fiume. «Ha tirato fuori la pistola e non lo ha guardato, gli ha semplicemente fatto un buco in testa. Poi si è voltato, ha guardato l’uomo accanto a quello caduto… Aveva smesso di lavorare ed era coperto di sangue, osso, materia cerebrale. E ha sparato anche a lui. Nel petto. Dopodiché si è rimesso a parlare con me come se nulla fosse. “Naturalmente costa molto di più della vernice di prima”. Questo, ha detto».
«Tu che cosa hai fatto?» chiesi, pur sentendomi il cuore che avvizziva, stordito, come se le mie costole fossero diventate ghiaccioli.
«Niente. Non ho fatto niente. È arrivato un carretto carico di cadaveri. Ci hanno issato sopra i due morti e li hanno portati via. Il caporale ha alzato il braccio, con due dita tese in aria, per chiedere due rimpiazzi. Io ho guardato dall’altra parte. Poi mi ha affidato al collega responsabile della fase successiva, e io gli ho permesso di stringermi la mano». Se la guardò come se l’avesse tradito.
Rividi il volto di Isaak. Lo vidi ritto in un’uniforme da detenuto. Lo vidi cadere. «Di dov’erano quei prigionieri?»
Karl non rispose, ma poi mi resi conto che non lo avevo chiesto ad alta voce.
«Saremo stati in cento a vedere quel che era successo, e nessuno ha mosso un dito. Adesso so che è tutto vero. Tutto quanto».
Aveva gli occhi pieni di disperazione. Cercai nuovamente di abbracciarlo, ma fu un gesto incerto: non riuscivo a toccarlo. Lui mi respinse comunque, come se non meritasse il conforto che non riuscivo a dargli. Riprese a parlare, la voce piatta.
«Nel ’39 ero ancora al cantiere, e già giravano delle voci sui campi, sulle cose che succedevano là. Solo che non… be’, le informazioni arrivavano con difficoltà, e nessuno sapeva niente. Poi, nel ’40, quando mi sono arruolato, si è fermato tutto».
«Tutto cosa?»
«Tutto. Le voci, le informazioni, i discorsi. C’erano le notizie di guerra, volevano farci sapere solo quelle. Ne fui sollevato, perché era tutto molto più facile: non dovevo lottare contro nulla, salvo la nave che stavo riparando, legno e metallo rotto. Non avevamo coscienze di cui preoccuparci, e penso ci sentissimo tutti così. Riesci a capire quanto sia molto più facile non vedere?»
Lo capivo anche troppo bene. Non puoi andare in giro con gli occhi chiusi solo perché non vuoi vedere.
«E lo sai che razza di vigliacco sono io? Che vigliacchi siamo, tutti quanti? Eravamo tutti così. Conigli». Deglutì di nuovo e mi guardò, chiedendomi qualcosa. Ma io non avevo niente da dargli.
«Certo, era spiacevole trovarsi in un altro paese, vedere le facce della gente quando me ne andavo in giro in uniforme. Sapevo che ci odiavano, ma la cosa finiva lì. E con Anneke… be’, se lei riusciva a vedere oltre l’uniforme, io potevo fingere che non contasse poi molto. E tu lo sai, com’era fatta Anneke».
Lo sapevo, sì. La sua luce poteva scacciare qualunque nube, ed era una sensazione molto piacevole.
«Poi, quando sono venuto a Monaco per il nuovo incarico, è stato anche più facile. Non devo mai affrontare niente, qui».
«Karl, che cosa fai di preciso?»
«Più che altro costruisco modellini. Di razzi. È un lavoro di squadra, ci danno i progetti dei razzi e noi facciamo i modellini in legno. Dovresti sentirci: un giorno i trasporti saranno rivoluzionati, si lavora per il bene dell’umanità. Ma non riesco più a fingere. Stiamo contribuendo alla creazione di armi che uccideranno migliaia di persone. E io lo sapevo fin dall’inizio. L’unica cosa che non sapevo è che stiamo già ammazzando la gente solo per costruirle, queste armi».
Karl si fermò e mi guardò per la prima volta. E subito capì. «Oh, mio Dio, Cyrla, mi dispiace. Isaak… scusa, non ci ho pensato». Appena glielo vidi scritto in faccia, non fui in grado di sopportarlo. «No, no. Lui è a Westerbork, ricordi? Lui è là, adesso. Sta bene. E mio padre è a Łódz. La mia famiglia è al sicuro a Łódz».
Karl mi prese tra le braccia e mi tenne stretta a sé, contro la roccia dura. Lo lasciai fare, ne avevo bisogno. Restammo aggrappati nel rumore e nel gelo dell’acqua.
Infine si staccò da me. «Non so che cosa fare». Aveva il volto stravolto dall’angoscia. «Se ne parlo con qualcuno mi fucileranno immediatamente. Ma noi stiamo facendo arrabbiare Dio, Cyrla. Lo stiamo facendo infuriare. Che senso ha restare in vita?»
«Non ti fucileranno, tu vali troppo».
«Chiunque vale di più come ammonimento. Mi fucilerebbero senza problemi, per tenerne in riga altri cento. Ora non faccio che pensare: dovrei rifiutarmi di prestare servizio, almeno avrei la coscienza tranquilla. Ma se anche riuscissi a essere tanto eroico, non posso rischiare di mettere in pericolo Erika, la bambina e mia madre. Per una cosa del genere, manderebbero anche loro in un campo. O forse peggio. E per la stessa ragione non posso neanche disertare».
Karl mi lesse nel pensiero. «No. Ho dato la mia parola a Erika, e ora la do a te».
«C’è una donna che lavora in clinica» gli dissi. Poi gli raccontai di Ilse, del fatto che aveva trovato qualcosa da fare, un modo per convivere con i propri compromessi.
«E secondo lei questo rimette tutto a posto? La notte riesce a dormire?»
«È il meglio che può fare».
Karl si chinò, immerse una mano nel ruscello e guardò l’acqua scorrergli tra le dita. «Mente a se stessa. Si convince che è una sorta di espiazione… Be’, vorrei riuscirci anch’io. Ma non servirebbe… la notte, al buio, non funziona».
Pensai a Ilse che correva sul vialetto, al suo odio così scoperto, e mi resi conto di una cosa terribile. La notte, al buio, non funzionava neanche per lei. E non le importava più di che cosa poteva succederle.
«Karl, promettimelo» dissi. Lo costrinsi a girarsi. E poi non seppi più quale promessa chiedergli. «Questa cosa che fai, di prenderti il mio bambino… è un grande gesto».
Lui guardò la radura lì accanto. Non mi credeva.
«Sono io la vigliacca, Karl, io che corro a casa per mettermi al sicuro e lo abbandono».
«No. Ci vuole coraggio a fare quello che fai».
Mi sedetti sulla pietra coperta di muschio vicino a lui e tirai su i piedi, ma poi mi sdraiai, allontanandomi: toccava a me, ora, evitare lo specchio del suo viso. «Forse no. Forse è un tratto di famiglia, abbandonare i figli».
A quel punto dovevo dirglielo, fare la lista della gente che mi aveva mandata via con il pretesto di mettermi al sicuro: mia madre, quando aveva capito che stava morendo… «Vai a scuola, vai!» Mio padre, la zia e lo zio. Anneke e Isaak. Tutti quelli a cui avevo cercato di voler bene. «E la cosa va anche più indietro, in tutta la mia famiglia, da entrambi i lati».
Gli raccontai della nonna, che aveva tagliato fuori dalla propria vita mia madre per aver sposato papà, e che fingeva che io non esistessi. «E anche la famiglia di mio padre: erano gentili, ma io non ero nata da una donna ebrea. Non facevo parte del clan». Un ricordo: andavo a scuola, e i miei nonni abitavano lungo il tragitto. Li immaginavo dietro le finestre che mi guardavano passare e si accigliavano per i miei capelli biondi, furiosi con papà per la sua scelta sbagliata.
Mi drizzai a sedere e posai il capo sulla spalla di Karl, facendogli appoggiare un braccio sul pancione. «Io non voglio fare così. Voglio dare al mio bambino una grande famiglia che gli voglia bene, da ogni parte. Deve avere la sensazione che non lo lasceranno mai. Ma non riesco a dargli neanche una madre».
«Invece potresti» disse Karl.
Arretrai per guardarlo in faccia.
«Sposami. Così potrei proteggere anche te».
Mi voltai, e mi ci volle un’eternità per trovare la parola giusta. Fu come estrarre un’incudine dalla gola. «No» dissi infine. Perché io non posso proteggere te. E perché non posso pensare al tuo cranio spaccato dal legno nero di un calcio di fucile. Non posso pensare al viso di Erika squarciato dalla mandibola alla fronte in un lago di sangue. Al corpo di tua madre trascinato e gettato nel vano di un cellulare.
«Non chiedermi perché» aggiunsi. «Pensa al bene del bambino, fallo per me. Dagli una famiglia finché non potrò farlo io».
Karl sospirò e volse lo sguardo al torrente, poi mi trasse a sé e mi baciò sulla testa. «Va bene. La sua famiglia sei tu, comunque. Lo terremo con noi per un po’, ma lo tirerai su tu».
Cercai di immaginarmi a tirare su un bambino. Non solo a occuparmi di lui, ma prendere delle decisioni riguardo la sua educazione.
Forse Karl mi leggeva veramente nel pensiero. «Lo cresceresti come ebreo?»
«Sì, se potessi. E vorrei anche studiare, mi sembra giusto».
«Perché potrebbe riequilibrare le cose?»
«Sì. Ho dovuto nascondermi e mentire troppo a lungo. Ma anche perché… perché Isaak lo vorrebbe, Karl. Tu lo sai che anche lui vorrà crescere il suo bambino».
Karl si raddrizzò e mi lasciò andare. Accese una sigaretta e si sporse in avanti a scalciare l’acqua. «Hai ragione» disse qualche istante dopo. «Isaak. Naturalmente». Aveva il viso incorniciato dal fumo, perciò non riuscii a leggere la sua espressione. «Non ho più voglia di parlare». Scivolò giù dal masso e mi tese la mano. «Voglio farti quella fotografia, invece, voglio avere un bel ricordo».
Neanch’io avevo più voglia di parlare. Karl mi fotografò seduta nel prato, in piedi accanto a un albero e poi di nuovo vicino al torrente. Pareva stare meglio, anche se il tormento non gli abbandonò mai del tutto il viso. Mi chiesi se sarebbe mai accaduto.
«Karl» gli ricordai finalmente. «Hai detto che non avevi molto tempo, oggi».
Lui guardò l’orologio. «Infatti dovevo rientrare un’ora fa».
«Allora andiamo».
«No, non andiamo. Magari è questa la soluzione: magari un ritardo sarebbe esattamente l’infrazione giusta. Non così grave da farmi impiccare, ma sufficiente a farmi sbattere in galera per il resto della guerra».
«Karl, non c’è da scherzare. Rientriamo».
«Tra un po’, non ho fretta».
Rinfoderò la macchina fotografica, poi ci avviammo, fermandoci più volte: a curiosare su una tana di volpe, a cercare dei peschi di cui gli aveva parlato il suo amico, ad ascoltare i merli. A baciarci. Pareva che volesse dimenticare le cose di cui avevamo parlato.
«Mi reciti una poesia?» mi chiese poi mentre tornavamo alla macchina.
D’un tratto avrei voluto, ma non qui, non adesso. «Oggi no» dissi infine.
«Va bene. Ma almeno mi dici come le scrivi?»
Ci riflettei un attimo. Non mi ero mai posta il problema. «A volte il primo verso arriva così, da solo. Ed è una cosa talmente irrazionale, pericolosa quasi, che devo scrivere il resto per mantenere il controllo. È come se qualcosa mi scappasse via e io dovessi scrivere per impedirlo. Probabilmente ti sembrerò matta».
«No. Voler mantenere il controllo mi sembra la cosa più ragionevole del mondo». Si chinò a raccogliere la giubba e se la buttò in spalla senza nemmeno scuoterla: quel nuovo atteggiamento incurante mi spaventava. Raggiungemmo l’auto e la fine del nostro tempo insieme, e mi resi conto di un’altra cosa: lo amavo. E mi spaventai ancora di più.
In macchina ci abbracciammo forte, poi lui si ritrasse. Temevo dicesse che era l’ultima volta, e non volevo sentirlo di nuovo. Ma lui mi sorprese. «Non sopporto quella faccia che fai».
«Quale faccia?»
«Quella che hai sempre dopo che ti ho baciato o abbracciato. Come se lo rimpiangessi, come se ti sentissi in colpa».
Gli sfiorai una guancia. «Non posso farci niente. A volte mi sento come se stessi rubando qualcosa ad Anneke».
«Che cosa… Me? Non puoi rubarle una cosa che non ha mai posseduto».
«No, però ti voleva, e mi sa che è per questo che mi sento così male. Se fosse viva, noi non saremmo qui; e inoltre, lei a me non avrebbe mai fatto una cosa del genere».
«Che cosa intendi dire?»
«Be’, se fosse viva non credo che sarebbe mai andata con Isaak. Nemmeno se io e lui non fossimo stati insieme».
Per un istante colsi un lampo sul viso di Karl. Lui lo dissimulò subito, ma avevo visto meraviglia e preoccupazione. Qualcosa.
«Che c’è?» gli chiesi. «Che succede?»
«Niente. È meglio che andiamo».
E allora capii. «Anneke e Isaak?» Ricaddi contro l’auto: ogni fibra del mio corpo si opponeva a quel pensiero, e tuttavia ogni cosa che sapevo di entrambi mi diceva che era vero. E spiegava tante cose. «Karl, guardami. Anneke e Isaak?»
Fece una smorfia, come se rispondere gli causasse un dolore fisico.
«E tu lo sapevi?»
«Me lo disse lei. Quando successe tentò di dirlo a te, disse che eravate così unite che pensava ne saresti stata felice. Cominciò a dirti che lo frequentava, ma un tuo commento le fece capire che tu avevi una cotta per lui».
«Una cotta?»
«Penso avessi sedici anni. Anche loro erano giovani. Mi disse che era stata una sciocchezza, che non aveva significato nulla, e che aveva troncato».
Aveva significato qualcosa per Isaak, però.
«Cyrla, stai bene?»
Mi sentivo come se mi avessero presa a calci ma anche, in qualche modo, come se mi fossi aspettata di venire a sapere quella cosa. Non riuscivo a trovare le parole. Alzai le mani come aveva fatto una volta Karl, allacciando poi le dita.
«Tutto s’incastra?»
Annuii di nuovo. C’era una simmetria che mi sembrava giusta. Crudele, ma giusta.
«Anneke ti voleva molto bene, diceva sempre che stava malissimo solo a pensarci».
Una dolorosa voglia di vederla mi strinse il cuore in una morsa. Le avrei detto di non starci male. Non mi aveva portato via niente, e su Isaak aveva ragione: lui mi ricordava mio padre, e ora mi rendevo conto che avevo confuso questo con l’amore. Mi venne un groppo in gola. Alzai le mani in segno di resa e poi montai in macchina. Dovevo rientrare, dovevo stare sola.
Quando arrivammo sul vialetto, Karl appoggiò la sua mano sulla mia. «Mi dispiace».
«Sta’ tranquillo, è solo che non mi va di parlarne adesso. Magari la prossima volta».
«Cyrla, le cose ora sono diverse. Potrei non riuscire più a liberarmi». Mi lesse il panico sul viso e mi strinse più forte. «No, qualunque cosa succeda verrò per la nascita del bambino. Andrà tutto bene».
D’un tratto non volevo più scendere. O non ci riuscivo. «Non andrà tutto bene. Ho tanta paura. Adesso ho paura per te, ho paura per il bambino…»
«Non cambierà niente, te lo prometto. Non farò niente, e tu non devi preoccuparti di niente».
«Ma io mi preoccuperò di tutto!»
«E invece no, sei troppo coraggiosa. Ti conosco».
Non ero affatto coraggiosa: non avevo neanche il coraggio di dirgli che cosa mi faceva veramente paura. E Karl non poteva conoscermi: nemmeno io mi riconoscevo più. Dov’era la persona che aveva giurato di non imporre regole all’amore? Che aveva dato del vigliacco a Isaak per non aver osato amare nessuno? Che aveva detto allo zio che l’amore era il contrario della vergogna?
Conoscevo un trucchetto, per quando avevo paura. Ma non mi serviva più.
«Karl». La mia voce era fermissima. «Io ti amo».